“Mentre così meditava nel cuore e nell’animo, una grande ondata lo gettò contro la riva irta di scogli. E qui si sarebbe lacerato la pelle e spezzato le ossa, se la Dea non lo avesse ispirato nel cuore: con un balzo si afferrò con entrambi le mani a una roccia, e vi si tenne attaccato, gemendo, fino a che l’ondata trascorse. La evitò, dunque: ma essa lo afferrò nel risucchio e lo scagliò lontano, nel mare. Come quando un polipo viene strappato al suo covo, e alle ventose restano infisse tante piccole pietre, così le forti mani di Odisseo si lacerarono contro la roccia. Fu sommerso dall’onda enorme. E allora contro il destino sarebbe morto l’infelice Odisseo, se non l’avesse ispirato la dea dagli occhi lucenti. Emerse dall’onda, che si rovesciava a riva ruggendo, nuotò lungo la costa guardando verso la terra, se mai potesse trovare insenature, spiagge, su cui le onde si frangono oblique. E quando giunse nuotando alla foce di un fiume dalle bellissime acque, quello gli sembrò il luogo migliore, privo di rocce e al riparo dal vento” (Alessandro D’Avenia, resisti cuore. L’Odissea e l’arte di essere mortali, pag. 167, Mondadori Libri S. p. a., Milano, I edizione settembre 2023).
Ulisse, partito dall’isola di Ogigia, dove era rimasto per ben sette anni presso Calipso, “colei che nasconde”, naufraga con la propria zattera, costruita con le proprie mani, nell’isola dei Feaci. Il suo viaggio di ritorno verso Itaca è voluto dagli dei. Nemmeno Calipso può farci nulla, anche se ne è innamorata alla follia. Accanto alla semi dea, Ulisse avrebbe l’immortalità assicurata. Eppure trova nel più profondo del cuore le ragioni per seguire il proprio destino. “La dove è il tuo tesoro, là è anche il tuo cuore” (Lc. 12,34). Per il Vangelo è il desiderio ciò che muove la nostra vita. “L’Odissea narra che è vero anche il rovescio; là dove è il tuo cuore è anche il tuo tesoro; Itaca è lì, e vi si può far ritorno, ma a patto di aver lasciato tutte le sue contraffazioni. Per questo Ulisse gli parla, per questo io gli parlo, perché è il luogo in cui torno sempre quando mi perdo, è casa per chi non trova o ha dimenticato la via di casa” (Ibidem, pag. 166, op. cit.). “Insegnaci a contare i nostri giorni / e giungeremo alla sapienza del cuore” (Salmo 90). Nell’Odissea il cuore che resiste a tutte le avversità permette ad Ulisse, a Telemaco, a Penelope, di seguire il proprio destino.
Tutto il libro è attraversato da tre piani di scrittura. All’inizio di ogni capitolo, introdotto da un titolo, che ne indica il contenuto, c’è sempre il riferimento al brano dell’Odissea, di volta in volta preso in esame. L’edizione del testo omerico è quella curata da Maria Grazia Ciani per l’edizione Marsilio: “I versi del poema sono tradotti in prosa senza disperderne l’energia poetica” (Ibidem, pag. 408). Alessandro D’Avenia, docente di Lettere Classiche in un Liceo milanese, mette in campo tutta la propria competenza di profondo conoscitore della lingua e della civiltà greca.
La seconda parte di ogni capitolo spazia sull’attualità dell’Odissea, su quello che questo poema omerico dice di valido ancora oggi. La terza parte fa riferimento alla propria vita, al cammino personale dell’autore verso Itaca: “Il libro è anche il diario di bordo di come l’Odissea, letta in solitudine o in compagnia, mi abbia sempre vivificato, ridato l’aria che mi mancava e ravvivato l’eros che si spegneva, riaccendendo coraggio e meraviglia. Ecco il motivo per cui, in queste pagine dedicate a Ulisse, capiterà che io parli di me. Lo scrittore corre sempre due rischi: concentrarsi sulla propria vita con le sue fragilità, fino a dimenticarsi di esplorare il mondo e di cercare la verità; concentrarsi solo sul mondo e sulla verità, fino a dimenticarsi della propria vita con le sue fragilità” (Ibidem, pag. 21).
Tutta l’Odissea non è altro che il viaggio nella vita attraverso tre movimenti essenziali: partire, viaggiare, tornare. Una vita in tre atti, narrativi ed esistenziali, che nel poema sono raggruppati in 24 canti (detti libri dagli antichi, i nostri capitoli, per un totale di poco più di dodicimila versi). Nel primo atto (Partire), protagonista è Telemaco, il figlio di Ulisse, che va alla ricerca del padre. Anche Ulisse parte dall’isola di Ogigia, dove è rimasto bloccato per sette anni presso la ninfa Calipso. La partenza è voluta dalla dea Atena. Calipso non può nulla contro il volere divino e dà tutto il necessario ad Ulisse, perché possa partire, ma la zattera naufraga nell’isola dei Feaci, Scheria. Soni i primi sette canti (I – VII) per 3393 versi.
Atto primo: Partire (pp. 71 – 194 del libro)
Telemaco, anche nel nome, prefisso tele, lontano, e verbo maco, combattere (ambedue i termini traslitterati) ha tutto il proprio destino. Telemaco non conosce il padre, partito per la guerra di Troia, quando lui era appena nato. La dea Atena, prese le sembianze di Mente, un vecchio amico di Ulisse, incoraggia il giovane a partire per cercare il padre, prima a Pilo, da Nestore, poi a Sparta, da Menelao. I Pretendenti al trono di Itaca, i Proci che anelano a sposare Penelope, lo trattano ancora come se fosse un bambino, che dipende dagli altri. Ma Telemaco si assume le proprie responsabilità. Non è più un infante, dal prefisso in (non) e dal verbo for, faris, fatus sum, fari = profetare, vaticinare il proprio destino. Il bambino è un infante, non sa profetare, né vaticinare il proprio destino. “La povertà del nostro tempo e di ogni tempo è povertà di destini: mai scoperti, mai accolti, trascurati per mancanza d’amore e oggi sempre più minacciati da quell’illusione di poter diventare ciò che si vuole, invece di ciò che si è” (Ibidem, pp. 102- 103).
Anche Penelope, nome composto dall’unione penos, trama, con la radice el / olop che significa rompere, ambedue i termini traslitterati, ha nel proprio nome il proprio destino. Penelope è colei che disfa la trama, colei che impedisce alla storia di andare avanti senza Ulisse. Ha promesso che sposerà uno dei pretendenti, quando avrà terminato il lenzuolo funebre per il padre di Ulisse, Laerte; ma se di giorno ne tesse la trama, di notte, lontana da occhi indiscreti, disfa ciò che ha tessuto. Telemaco tergiversa prima di partire per cercare il padre lontano. Succede a tutti di rimanere ancorati al dolce tepore della casa, affidando ad altri decisioni che invece sono proprie. Arriva però il momento in cui scopriamo che abbiamo un destino: la scelta di un lavoro anche lontano da casa, di una moglie o compagna. Sono spazi nuovi che si aprono davanti a noi. “Il bambino non conosce questo spazio, questo caos, termine greco che indica il vuoto, la distanza tra noi e noi stessi, perché è ancora parte del respiro e dei desideri dei genitori, vive in una sfericità senza fessure; poi viene il momento in cui la vita lo chiama e gli ordina di farsi un nome, di nascere da sé” (Ibidem, pag. 117).
La lettura del libro diventa interessante perché è un invito continuo a scoprire il proprio destino, a ripensare alle nostre decisioni, prese con paura e gioia, condita quest’ultima forse anche da un pizzico incoscienza. “Perché mi alzo al mattino? Per chi arrivo in tempo? Come farò a essere maturo il giorno della mia morte? Né acerbo né maestro? Rinato e raccolto? Solo se nulla del mio destino sarà andato sprecato. Un sistema educativo senza maestri è un sistema di controllo e di potere, di addestramento e di conformismo. Come Telemaco io invoco, sulla riva di quel mare che tanto impaurisce quanto chiama, l’aiuto del dio che invita a respirare e risveglia il desiderio, perché si riveli come maestro, come mentore, tutte le volte che entro in crisi” (Ibidem, pag. 126). L’invito ad andare lontano, ad ascoltare le ragioni del cuore e non quelle dell’intelletto, è possibile assecondarlo sempre, anche quando si è in pensione, come nel caso di chi scrive, prima con il servizio verso i propri nipotini, leggendo e scrivendo nel poco tempo libero che rimane, dopo aver assolto ai compiti del nonno.
“L’Odissea, a differenza dell’Iliade, che ha una narrazione lineare, sperimenta un montaggio cronologico complesso, un incastro perfetto per il suo virtuosismo … La storia umana, quella che raccontiamo, non è fatta dal susseguirsi delle ore e dell’accumulo dei giorni, ma dei momenti in cui l’uomo sceglie e si fa carico del proprio destino. E così, mentre Telemaco è in viaggio in cerca del padre e di notizie su di lui con un gruppo di giovani che si sono associati alla sua ricerca, così come avevano fatto a suo tempo i migliori Itacesi con Ulisse, a Itaca, i due Pretendenti di maggiore spicco per nobiltà e forza, Antinoo ed Eurimaco, preparano contro il ragazzo un agguato mortale, stupiti che abbia trovato il coraggio di partire” (Ibidem, pp. 139 – 140). Medonte, il servo fedele della reggia itacese, porta la notizia dell’agguato a Penelope, che teme per il figlio, dopo aver perso forse per sempre il marito che non rivede più da vent’anni. Il piano di Antinoo ed Eurimaco fallisce, perché ambedue i Pretendenti sono mossi dall’invidia, sentimento portante della vita di tutti gli uomini che, ignari del loro destino, diventano parassiti di quello altrui (Ibidem, pag.140).
“Se la trama della vita non si sfilaccia, se Itaca, in assenza di marito e figlio, resiste, è perché il cuore di una donna contiene Itaca tutta e la dà alla luce: Partire, ciò che in sincronia perfetta stanno per fare sia il figlio che il marito per tornare, e partorire, ciò che sta facendo lei per Itaca, in fondo sono lo stesso verbo, il verbo della luce, Nascere” (Ibidem, pag. 143). Venire alla luce significa piangere come fa Ulisse sulla riva dell’isola di Ogigia, regno della dea Calipso. Venire alla luce significa liberarsi della dea che nasconde e fa dimenticare; piangere allora non è segno di debolezza, ma di coraggio; stretti tra una vita inautentica e l’ignoto, sulla spiaggia delle nostre benedette crisi” (Ibidem, pag. 148). Il destino di Ulisse è Itaca, la pietrosa isola del Mediterraneo e non l’Eden al centro di un oceano fantastico. Il destino di Ulisse è Itaca, perché il destino di un uomo è morire e nella morte vivere la propria immortalità. “L’arte di essere mortali è sapere per chi e per cosa morire” (Ibidem, pag. 151).
“Ulisse non è l’eroe moderno, del superamento del limite. Egli lotta per la vita così com’è, e non per come dovrebbe essere. Egli lotta proprio per quelle cose da cui Calipso vuole liberarlo: una bellezza che sfiorisce, una casa su un’isola piuttosto arida, le fatiche del ritorno. Il suo è un cuore capace di resistere; guerra e mare lo hanno spogliato di ogni illusione. Chi ama questa fragilità della condizione umana non è forse un eroe? Ulisse lo sancisce nel verso 222, in cui dice che resisterà, perché ha nel petto un cuore capace di patire i dolori della vita. Ulisse è l’eroe del cuore resistente: l’uomo che sceglie la vita così com’è senza per questo rinunciare a farne un’opera nuova. Moglie, casa, isola sono cose finite che, scelte a costo della morte, diventano infinite; il suo destino è nascere del tutto e non morire tranquillo. Scegliendo il finito, Ulisse definisce sé stesso. Desidera il giorno del suo ritorno. Nostos, dal greco traslitterato, viene da un verbo che significava “guarire, essere salvati”, dalla stessa radice pare si formi anche l’aggettivo neos, nuovo, da cui neanias, il giovane. Ulisse è custode del proprio destino. Il giorno del ritorno è quello della salvezza, della guarigione e dell’eterna giovinezza. Ulisse ritorna al proprio passato di persona mortale, dopo essersi avvicinato alla soglia dell’Ade, perché ha la nostalgia del futuro.
“Ulisse è l’eroe centripeto, orientato al centro: lì si cela la sua originalità, che deve difendersi dagli attacchi centrifughi del viaggio, della condizione mortale. Itaca è lì, e vi si può fare ritorno, ma a patto di aver lasciato tutte le sue contraffazioni. Per questo Ulisse gli parla, per questo io gli parlo, perché è il luogo in cui torno sempre quando mi perdo, è casa per chi non trova o ha dimenticato la via di casa. Quello che costruiamo, la zattera di Ulisse, è solo un aiuto, ma al momento giusto dovremmo rinunciare anche alle nostre più ardite e rassicuranti tecniche di salvezza, per scoprire che la via del ritorno passa da dentro, nel cuore” (Ibidem, pag. 166). Anche la Bibbia associa la consapevolezza della propria finitezza alla sapienza del cuore.
Ulisse naufraga nell’isola dei Feaci. Incontra casualmente Nausicaa, la figlia del re Alcinoo, che lo porta nella reggia, da suo padre. Viene accolto con benevolenza, perché “Stranieri e mendicanti vengono tutti da Zeus, ciò che ricevono, anche se poco, è gradito. Allo straniero offrite ancelle, da mangiare e da bere, fatelo lavare nelle acque del fiume, al riparo dal vento …”. Durante il banchetto offerto in suo onore dal re, Ulisse piange quando ascolta i canti di Demodoco, l’aedo, che narra le gesta degli eroi greci compiute durante la guerra di Troia. “Solo il dolore che diventa narrazione ha il potere di far resistere, esistere di nuovo. Ulisse non può ricevere conforto tra sconosciuti, il suo pianto può solo essere nascosto sotto un mantello. Alla tessa maniera Telemaco ha pianto di nascosto sentendo raccontare del padre presso il palazzo di Menelao ed Elena. Il dolore nascosto è il legame tra i protagonisti di questa epica, in cui le lacrime rivelano l’uomo nascente: eroe è chi si scopre nel dolore e nel dolore resiste, cioè ri-esiste, nasce … Penelope piange quando ascolta il canto di Femio relativo al ritorno degli eroi” (Ibidem, pag. 187).
Parti importanti del libro sono quelle nelle quali Alessandro D’Avenia si racconta: “Mi è capitato più volte di riscoprire quanto sia importante resistere, nei momenti di crisi, in cui mi sono detto: a che cosa vuoi che serva insegnare e scrivere? Sono solo parole al vento, la realtà continua a fare schifo e a guidare la storia non sono certo la bellezza e l’avventura … E la risposta mi è sempre arrivata, magari a distanza di tempo, da lettori o visite di ex alunni venuti a ringraziare per averli difesi dalle menzogne dominanti e persino da quelle che loro dicevano di se stessi, quando non credevano di essere degni di un posto nel mondo. E nel vederli fioriti e pieni di coraggio, avevo la conferma che nulla va sprecato, se è fatto seguendo ispirazione e desiderio, cioè la nostra vocazione alla cura del mondo attraverso ciò che ci riesce meglio” (Ibidem, pag. 193).
Atto secondo: Viaggiare (pp.197 – 275 del libro)
L’atto secondo, Viaggiare, si sviluppa attraverso i canti VIII – XIII, per un totale di 3259 versi. Ulisse, ospite di Alcinoo, re dei Feaci, racconta i dieci anni di peripezie che lo hanno portato da Troia lì da solo e senza nulla. Il viaggio di Ulisse verso Itaca si snoda attraverso dodici tappe per mare con soste più o meno lunghe nella terraferma, nel corso delle quali perde le dodici navi e gli uomini di equipaggio con i quali era partito per la guerra di Troia. Di fronte ad Alcinoo e alla corte, “Ulisse si chiede quale trama dare al racconto: narrare vuol dire dare senso al proprio racconto, modellando il tempo per quello che è il tempo soggettivo e, la nostra carne in tensione di nascita” (Ibidem, pag. 201). “Oggi chiediamo agli altri, dopo che si sono presentati per nome, che cosa facciano nella vita e non della vita: la storia di un uomo è, nella cultura odierna, ciò di cui si occupa professionalmente” (Pag.198). Ulisse racconta le sofferenze vissute, per questo le lacrime lo accompagnano sempre. “Se oggi io ponessi la stessa domanda (quanto hai sofferto? Per che cosa piangi?) a uno sconosciuto, mi prenderebbe per impiccione o per pazzo; eppure se solo provasse a rispondermi, scoprirebbe che gli ho fatto un favore, perché l’ho aiutato a definirsi per davvero, a venire alla luce, a farsi verità” (pp. 198- 199).
Tutto il viaggio di Ulisse da Troia a Scheria, l’isola di Feaci, si svolge nel labirinto del mare. La prima popolazione che incontra con i suoi compagni di viaggio è quella dei Ciconi che vivono nella città di Ismaro, in Tracia. Gli abitanti del luogo non tollerano gli stranieri. Ulisse e compagni accettano di combattere contro di loro. Soccombono 72 compagni, più della metà dell’equipaggio. Ad Ulisse restano solo cinquanta uomini. Ulisse e compagni non riescono a buttarsi alle spalle il proprio passato di guerrieri. Approdano, superato capo Malea, nella terra dei Lotofagi, mangiatori di loto, frutto che, se mangiato, procura un piacere infinito che paralizza la volontà. Alcuni compagni di Ulisse mangiano il frutto e dimenticano tutto. Non vogliono più rimettersi in mare ed affrontare altre avversità. Solo Ulisse che ha Itaca nel cuore resite e ne strappa alcuni caricandoli a forza nelle poche navi rimaste.
Dalla terra dei Lotofagi, approdano a quella dei Ciclopi, esseri “dall’occhio rotondo”, antropofagi e crudeli. Polifemo ne è il rappresentante più noto. La vicenda è conosciuta da tutti. Ulisse, da astuto qual è, dopo aver perso altri uomini, finiti in pasto al Ciclope, escogita un piano per allontanare la minaccia. Giocando sul suo nome e soprannome, dice di chiamarsi Nessuno (In Greco, outis, a parte l’accento, si usa indifferentemente sia come none che pronome). La tappa successiva è l’isola di Eolo, il dio dei venti. Eolo dona ad Ulisse e ai suoi compagni un otre dove sono trattenuti tutti i venti. Raccomanda loro di non aprire l’otre. Questi non rispettano il divieto e lo aprono. I venti che si sprigionano fanno naufragare Ulisse nell’isola dei Lestrigoni, mostri come licantropi; sono come i Ciclopi sotto mentite spoglie, quindi ancora più pericolosi, distruggono e divorano i propri simili. “Se siamo fatti per morire e non per nascere, non ci rimane che mangiare il più possibile … per dare fondamento a se stesso e alla propria comunità, l’uomo sacrifica il proprio simile e l’altra comunità: divorare e distruggere l’altro è ciò che dà forza e identità sia a livello individuale che sociale” (Pag. 230). Ogni guerra risponde a questo istinto e ogni conflitto è una guerra civile. Ciò che avviene poi sui Social, altro ritrovato dei nostri tempi, è ancora più aberrante, se va in mano “a legioni di imbecilli”. Dobbiamo farne di strada per ritornare ad Itaca!
Dopo i Lestrigoni, “divoratori formidabili” o “briganti”, la tappa successiva è nell’isola di Eea, dalla maga Circe, che “rappresenta tutte quelle parti decentrate di noi stessi, con le quali è necessario confrontarsi per non rimanere intrappolati in una dimensione insulare, di isolamento per l’appunto. Solitudine e isolamento non vanno confusi, perché indicano condizioni opposte. La prima parola viene da una radice che significa pienezza, completezza, salvezza, integrità, la stessa di salute e santità. Sa stare solo chi è integro, non fatto a pezzi. Isolamento deriva invece da isola, e racconta qualcosa di slegato da tutto il resto. Le isole che Ulisse deve affrontare non sono luoghi di solitudine ma di isolamento: hanno lo scopo di rompere i suoi legami con il mondo, la società, Itaca, cioè in ultima istanza di fargli perdere la dimensione relazionale” (pag. 233). “Circe è ombra, tutto il femminile che Ulisse non ha abbracciato dentro prima che fuori di sé. Una tappa necessaria per tornare, cioè per fare Itaca, per poter amare e farsi amare da Penelope. Circe, se isolata, trasforma l’uomo in animale o lo imprigiona nella sua valle sperduta come nelle favole più note della tradizione popolare” (pag. 237)
Circe lascia partire Ulisse, perché così vuole la divinità, ma gli intima che dovrà compiere il viaggio tra i morti, per interrogare l’ombra del cieco profeta Tiresia: “La tappa nell’aldilà è il centro delle peregrinazioni nel mare fantastico; il punto più oscuro del labirinto, il mostro che tutti devono affrontare, la propria morte. L’arte di essere mortali si impara in questa battaglia aperta ventiquattr’ore su ventiquattro. Diventare mortali è infatti assumere la consapevolezza che moriremo e non scappare. Vivere è reagire con coraggio al limite estremo, la morte, trasformandolo in azione e in relazione” (pag. 240). In questo viaggio, Ulisse si ferma al confine segnato dall’Oceano, non entra proprio nell’Aldilà, come faranno invece Enea e Dante, rispettivamente nell’Eneide e nella Divina Commedia. L’indovino Tiresia gli anticipa quanto ancora dovrà soffrire prima di arrivare ad Itaca: l’approdo nell’isola Trimachia, dove incontreranno i buoi sacri al dio Sole. Non dovranno uccidere gli animali sacri alla divinità, pena altre disgrazie che si abbatteranno su di lui e sui suoi pochi compagni rimasti. L’arrivo ad Itaca culminerà con la resa dei conti tra lui e i Pretendenti, i Proci, che desiderano sposare Penelope e rubargli il regno. Attraverso Tiresia, Ulisse avvicina l’ombra della mamma Anticlea, morta di nostalgia, l’ha uccisa l’assenza del figlio. Ulisse dovrà portare questo peso, il suo cuore riceve la ferita mortale del come sarebbe potuto andare e non è andata. Alle porte dell’Ade, Ulisse incontra l’ombra di Achille che gli dice: “Della morte non parlarmi, glorioso Odisseo. Vorrei essere il servo di un padrone povero che possiede pochi mezzi, piuttosto che regnare su tutte le ombre dei moti” (Odissea, XI 488 sgg.). Ulisse impara l’arte di essere mortale attraverso il superamento di ogni ostacolo. Anche le ultime prove sono superate da lui solo, mentre i compagni, infrangendo il divieto di non toccare i buoi del dio Sole, ne mangiano le carni e muoiono, altri invece naufragano in mare davanti ai due mostri di Scilla e Cariddi. Ulisse, rimasto solo, viene sbattuto dalle onde del mare nell’isola di Ogigia, dove rimarrà per sette anni presso la ninfa Calipso. Partito da Calipso, approda nell’isola dei Feaci. Omero o chi per lui opera un montaggio narrativo degno del migliore dei film contemporanei.
Atto terzo: Tornare (pp.279 – 389 del libro)
Il terzo atto coincide con l’approdo a Itaca sia di Ulisse sia di Telemaco. Padre e figlio studiano, preparano e realizzano la vendetta contro gli usurpatori del regno, i Proci, nome latino che sta per i Pretendenti alle nozze con Penelope in assenza del marito. C’è una lunga parte iniziale nella quale Ulisse svela al figlio Telemaco la propria identità. Euriclea, la fedele nutrice di Ulisse riconosce il proprio padrone dalla ferita, che, Ulisse da giovane si era procurato nella battuta di caccia al cinghiale. Il cane Argo, abbandonato sopra un cumulo di letame, riconosce anche lui Ulisse e muore contento. È la pagina più bella e commovente dell’intero poema. Sono i canti XIV – XXIV per un totale di 5438 versi.
Ognuno di noi ritorna sempre a qualcosa di caro, di vero, all’essenza della propria vita. Scrivere, insegnare, raccontare, sono modi che Alessandro D’Avenia usa per ispirare altri a trovare la propria vocazione: “Ma se un giorno non potrò più farlo, allora non mi spegnerò perché sono venuti meno quei ruoli, come chi si estingue quando va in pensione perché la sua vita si era identificata con un’attività o una carica. Io voglio essere per sempre, fino all’ultimo giorno, ciò che solo io posso essere, voglio fare ciò che io solo posso fare, qualsiasi siano le condizioni in cui mi sarà dato realizzarlo. Voglio trasformarmi ogni giorno su questa Terra in destino: giovane o vecchio, sano o malato, felice o triste … E il giorno in cui, come Telemaco, ci si avvia da soli verso ciò a cui si è chiamati si diventa adulti. Si smette di essere bloccati dalle ferite del passato o dai miraggi del futuro, si crea il presente con le carte che la vita ci dà, perché la vita non è mai ingiusta o cattiva, chiede solo di essere accolta e ricreata” (pag. 303). Ce ne fossero di docenti come Alessandro D’Avenia. La scuola non sarebbe mel pantano come lo è da diversi decenni.
L’ultima parte dell’Odissea è conosciuta dai più, non occorre riprendere gli eventi: Ulisse, vestito con miseri straccia, si svela al figlio Telemaco con il quale concerta come fare per sbarazzarsi dei Pretendenti, viene riconosciuto dalla nutrice Euriclea, dal proprio cane Argo, saggia la fedeltà del fido Eumeo, il porcaro. Anche Penelope, che mette alla prova lo sconosciuto ospite con il riferimento all’antico talamo piantato sopra un albero tagliato alla base, crolla e riconosce nell’uomo il proprio sposo. Tutti i Proci soccombono sotto la vendetta di Ulisse. La verità deve essere ristabilita. Itaca è ritornata ad essere quello che era prima che Ulisse partisse per la guerra di Troia, o meglio: “Itaca è uno spazio da ricevere, che si apre dentro di noi grazie alle relazioni, uno spazio che solo l’amore ha aperto dentro di me, quando gli ho permesso di raggiungermi. Mi è accaduto quando la donna a cui avevo detto che mi veniva da piangere quando mi sentivo amato, perché mi sembrava di dovermelo sempre meritare questo amore e invece era tutto gratuito, mi ha detto: Tu credi di non fare nulla. E quando gli ho chiesto: Che cosa faccio? Lei mi ha risposto: Ci sei” (pag. 331).
“Ulisse ha scelto Penelope e per questo è tornato, per morire con lei; ha lascato persino il mondo incantato di dee che erano disposte a offrirgli l’immortalità. Il segno dell’umano posto come baluardo contro la morte è una radice levigata ad arte come Ulisse aveva fatto all’inizio de viaggio con la sua zattera per tornare, una radice che resiste al divenire e dà frutto nei corpi e nelle anime della coppia: questo è il loro segreto indistruttibile. Quando Penelope sente la parola segreto in bocca al marito, allora il cuore le torna di carne e lei, i suoi occhi, possono riconoscerlo” (pag. 361).
La fedeltà al proprio destino e alla propria umanità si è fatta carne nella vita di Gigi Riva, il campione di calcio, scomparso proprio in questi giorni di fine gennaio. Ha saputo dire no a tante Sirene, squadre più blasonate, per rimanere fedele al Cagliari e alla città. La sua Itaca è stata la Sardegna, l’isola delle capre, come veniva definita in modo sprezzante da gente danarosa ma anche troppo spocchiosa e per certi versi antipatica. Mi è sembrato doveroso ricordare il campione dello sport che è stato anche campione di umanità, coraggio, coerenza. La sua Odissea l’aveva iniziata a vivere da ragazzo, dopo la morte del padre e nel breve giro di pochi anni anche la perdita della mamma. La sua Itaca è stata la Sardegna, dove era approdato, venendo dal Nord, sponda lombarda del lago Maggiore (N.D.R.).
“L’arte di essere mortali è fare esperienza nella carne della vita eterna. Per questo ricordo ogni istante di destino compiuto, istanti in cui l’eterno si può attribuire al mortale perché si fa carne per noi, come nell’unione di corpi e di parole dei due sposi immersi nella notte più lunga del mondo, la notte in cui l’Odissea viene raccontata a Penelope, e il tempo si ferma per dare compimento al poema della vittoria dell’uomo sul tempo, e quindi sulla morte, mentre un uomo e una donna fanno l’amore con i corpi e con i racconti (con i miti, dice la lingua di Omero). Tutto puntava qui, a questo nascere, a questo ri – esistere … L’Odissea ci mostra che il capolavoro dell’arte di essere mortali è amare ed essere amati, perché solo così tutto diventa destino, e la morte solo il tempo che ci abbiamo meso a nascere” (pp. 37 – 376).
Raimondo Giustozzi
Bibliografia
Le recensioni agli altri libri (romanzi e saggi) di Alessandro D’Avenia sono nei quattro link sotto riportati. Basta cliccarci sopra per aprirli. Le recensioni dei tre libri: Bianca come il latte, rossa come il sangue, Cose che nessuno sa e Ciò che inferno non è, sono riportate in un unico link.
- Alessandro D’Avenia, Bianca come il latte, rossa come il sangue, Mondadori 2010
- Alessandro D’Avenia, Cose che nessuno sa, Mondadori, 2011
- Alessandro D’Avenia, Ciò che inferno non è, Mondadori 2014
http://www.specchiomagazine.it/2017/08/letteratura-alsessandro-davenia/
- Alessandro D’Avenia, Ogni storia è una storia d’amore, Mondadori, 2017
https://www.lavocedellemarche.it/2018/02/orfeo-e-euridice-origine-mitica-di-ogni-storia/
- Alessandro D’Avenia, L’arte di essere fragili, come Leopardi può salvarti la vita, Mondadori, 2016
https://www.lavocedellemarche.it/2017/11/letteratura-per-vivere/
- Alessandro D’Avenia, L’appello, Mondadori 2020
https://www.specchiomagazine.it/2022/01/libri-alessandro-davenia-lappello/
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