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Libri. Giorgio Benvenuto, Claudio Marotti: Giuseppe Di Vittorio, una storia di vita essenziale, attuale, necessaria

copertina del libroIl saggio consta di 236 pagine, compresa l’introduzione di Susanna Camusso, documenti fotografici e una ricca bibliografia. E’ diviso in sei capitoli. Il primo (I), una storia di vita essenziale, attuale, necessaria è di Giorgio Benvenuto. Gli altri capitoli sono opera di Claudio Marotti: Il percorso della storia (II), Di Vittorio e le origini del movimento sindacale (III), I  tempi del rivoluzionarismo, (IV), Caratterizzazione del sindacato e Di Vittorio (V), Giuseppe Di Vittorio: inizio e fine di una storia (VI).

Giorgio Benvenuto, sindacalista e politico, ricorda Di Vittorio come il più grande sindacalista italiano della prima metà del novecento: la sua infanzia, la sua militanza sindacale, il carcere, il confino, l’attività sindacale nella C.G.I.L. fino alla sua morte. Claudio Marotti, sociologo, inquadra l’attività del sindacalista pugliese nel percorso della storia del Novecento con riferimenti a Max Weber, Ralf Dahrendorf, Karl Löwith, Marx, Auguste Comte, delineando il pensiero di ognuno e la peculiarità dell’impegno sindacale di Giuseppe Di Vittorio.

(I) Una storia di vita (pp.17 – 45)

Pier Paolo Pasolini, scrisse un articolo bellissimo, per il funerale di Giuseppe Di Vittorio, celebrato a Roma, dopo la morte del dirigente sindacale avvenuta a Lecco il 3 novembre 1957, al termine di un commovente discorso dopo l’inaugurazione della C. G. I. L. locale. “Mi piace ricordare la conclusione dell’articolo – scrive Giorgio Benvenuto che era presente al funerale: “il feretro è appena passato, e le braccia tese, s’abbassano, vedo dall’atteggiamento della folla, che qualcosa accade. Un lavoratore davanti a me piega un poco la testa da una parte; vedo la guancia lunga, nera di barba e il pomello rosso. La pelle gli si contrae, come in uno spasimo: piange come un bambino. Guardo anche gli altri. Piangono, con una smorfia di dolore disperato. Non si curano né di nascondere né di asciugare le lacrime di cui hanno pieni gli occhi” (Giorgio Benvenuto, Giuseppe Di Vittorio, una storia di vita essenziale, attuale, necessaria, pp. 22 – 23, Morlacchi Editore, Perugia, 2016).

Giuseppe Di Vittorio aveva passato tutta la vita in mezzo ai lavoratori, contadini braccianti o operai che fossero. Non si servì mai del sindacato ma lo servì. Organizzò le lotte dei contadini braccianti perché anche a loro fosse riconosciuta la dignità di uomini liberi, onesti lavoratori nelle terre dei grandi latifondisti meridionali. “Ricercò sempre uno sbocco ai conflitti; era contrario alle sommosse, alle proteste velleitarie, all’inconcludenza dei rivoluzionari e dei massimalisti. Era un negoziatore, abile, tenace, preparato. Era un sindacalista riformista, come Bruno Buozzi. Era un autodidatta. Sapeva che per essere veramente liberi bisogna conoscere, occorre sapere”.

Alla morte del padre aveva dovuto abbandonare la Scuola Elementare per sostituirlo come bracciante nel lavoro dei campi di un grande proprietario terriero di Cerignola. Aveva solo otto anni. Nei momenti di riposo, a tarda notte, nella masseria di Torre Alemanna, i compagni di lavoro lo sorprendevano che leggeva opuscoli di propaganda anarco – socialista e gli chiedevano se da grande volesse fare l’avvocato. No, non voglio fare l’avvocato, mi interessa leggere. La lettura rende liberi e ti permette di conoscere e non essere alla mercé di colui che sa molte più parole di te. Con i primi spiccioli che si trovava in tasca, frutto del lavoro, ancora ragazzo, riuscì ad acquistare un vocabolario. Era quello che cercava. Giorgio Amendola, quando gli chiese di raccontargli come aveva scoperto il vocabolario, ricorda che iniziò, dicendogli, quasi affrontandolo: “Tu sei cresciuto in una famiglia dove lo studio era un diritto naturale. E forse per questo non hai studiato bene, ma hai approfittato del vantaggio che ti dava la posizione sociale di tuo padre. Ma tu non sai cosa voleva dire lo studio per uno che non aveva nemmeno i soldi per comprarsi le candele e che la sera sentiva gli occhi che si chiudevano dalla fatica e dal sonno e doveva lottare per tenerli bene aperti e continuare a leggere” (Ibidem, pag. 25).

Sempre Giorgio Amendola ricorda la conferenza del PCI, tenuta a Bari nel 1949, nel grande salone della mostra del Levante, per dibattere il problema della Questione Meridionale. La folla traboccava, erano presenti soprattutto le donne del Mezzogiorno, con gli scialli neri, quelle di Carlo Levi mirabilmente descritte nel romanzo “Cristo si è fermato ad Eboli”. L’oratore sta parlando, quando all’improvviso tutti si alzano in piedi. Stava entrando Giuseppe Di Vittorio, riconosciuto da tutti, applausi scroscianti al suo indirizzo. D’altronde è in mezzo alla sua gente. Altri del partito invitano Giorgio Amendola a dare il microfono al nuovo arrivato, terminato il proprio intervento, raccomandandogli di non dargli troppo tempo. Giuseppe Di Vittorio prende il microfono e dichiara subito ai presenti che sui muri della città aveva visto dei manifesti che lo avevano molto rattristato. Questi manifesti recavano scritto: “Padre Lombardi microfono di Dio, Di Vittorio microfono di Satana”. Erano manifesti blasfemi, sottolineava il sindacalista: “Chi è padre Lombardi che si arroga il diritto di parlare in nome di Dio? Dio parla a ciascuno di noi e non può parlare attraverso un portavoce non autorizzato come padre Lombardi. E perché poi io sarei il microfono di Satana? Io posso aver commesso degli errori, ma non credo che la mia vita sia quella di un indemoniato. Ho cercato sempre di fare il mio dovere, di fare del bene, di lavorare per il popolo, come aveva indicato Gesù Cristo, con quelle immagini evangeliche che arrivano dritte al cuore. Se sono il microfono di qualcuno, ebbene sono il microfono vostro, di voi braccianti e popolo della mia terra” (Ibidem, pag. 27). La gente esplose in un fragoroso applauso.

Giuseppe Di Vittorio continuò il discorso con la foga che gli era congeniale. Giuseppe Di Vittorio era snobbato nella nomenclatura del Partito Comunista. Palmiro Togliatti lo definiva un passionale, un sentimentale più che un uomo politico. Giuseppe Di Vittorio era un politico e al contempo sindacalista. Era legato al movimento operaio attraverso il sindacato che aveva contribuito a fondare. Giorgio Napolitano ricorda che Giuseppe Di Vittorio, dopo la divisione sindacale, continuò a credere sempre nell’esigenza e nella prospettiva dell’unità sindacale. Cercò sempre di tessere il filo del dialogo politico tra tutte le forze democratiche, le stesse che avevano contribuito a sconfiggere il fascismo e a dare all’Italia una Costituzione ritenuta come una delle migliori al mondo. Non si deve poi dimenticare che quasi subito la fine della seconda guerra mondiale si entrò nel clima della guerra fredda. L’invasione dell’Ungheria dalle truppe del Patto di Varsavia creò profonde dilacerazioni a sinistra e nel sindacato stesso, assieme ad altri avvenimenti: la nascita delle ACLI, la rottura dell’Unità Sindacale con la nascita della C.I.S.L. e della U.I.L., il divario tra un Nord Italia con un forte movimento operaio e un Sud Italia, dove prevaleva ancora il lavoro agricolo. Simona Colarizi, Bruno Trentin e Francesco De Martino vedono in Giuseppe Di Vittorio una sensibilità e una capacità di intuire il futuro dell’Italia come pochi altri sapevano prevedere. Il rinnovamento passava sempre attraverso l’unità sindacale, non un sindacato unico ma un sindacato unitario. La divisione tra i lavoratori era sempre motivo di debolezza. L’unità era la forza e la controparte lo sapeva e faceva del tutto per spezzarla.

(II) Il percorso della storia (pp. 47 – 67).

Sono i grandi uomini a fare la storia o è la storia ad esaltare la figura di determinati uomini? Il sociologo Claudio Marotti in questo suo primo contributo sulla personalità, l’opera di Giuseppe Di Vittorio, ritiene valida sia l’una che l’altra ipotesi. Scrive: “Non sembra si possa osservare una meccanicistica determinazione nell’evoluzione di eventi o fenomeni del presente come diretta o naturale conseguenza di quanto accaduto in precedenza. Sostenere questa tesi sarebbe un’evidente negazione dell’apporto e dell’agire dell’uomo. Allo stesso modo la grandezza dei grandi uomini non è iscritta in modo deterministico nella naturale essenza di loro stessi, ma si determina e spesso si costruisce  nel contesto e nella specificità di un dato periodo storico” (pag. 48).

Certo che non tutti si elevano a Grandi della storia. Alcuni sono presto dimenticati. Altri sono rimossi o rimangono tristemente noti, o sono richiamati alla mente come un esempio oscuro dell’esistenza umana, come un modello da evitare nel futuro della società umana. Altri invece sono lo specchio e il riflesso di parte importante della storia stessa, punto di riferimento e di insegnamento per le generazioni successive. Alcuni personaggi, in ragione di una presunta grandezza, o sulla spinta di uno sfrenato egocentrismo, per avere un posto tra i Grandi della storia, si rivelano ostacolo, impedimento, in qualche caso dei veri distruttori e devastatori di quel processo evolutivo al quale tende l’evoluzione della specie umana. Altri ancora, senza nessuna pretesa di grandezza, si fanno portavoce delle condizioni di iniquità, di ingiustizia, di sfruttamento, che una parte quand’anche minoritaria dell’umanità, tenta di imporre sull’altra. Giuseppe Di Vittorio appartiene a questa categoria di uomini. Si fa portavoce delle ingiustizie esistenti. Si impegna per eliminarle. Non predica nessuna rivolta armata e costruisce il cambiamento attraverso il sindacato.

Giuseppe Di Vittorio non è ascrivibile tra i grandi personaggi della storia che hanno prodotto trattati scientifici o tra i precursori di particolari teorie sociologiche della società, né si può dire che si sia ispirato a qualcuna delle tanti correnti di pensiero che hanno abbondato tra il XIX e XX secolo. Non sappiamo se conoscesse il pensiero di Max Weber o di Karl Marx; in gioventù sicuramente no, in quanto fu costretto a lasciare la scuola all’età di otto anni per andare a lavorare nei campi come bracciante. Quand’anche non avesse studiato il pensiero dei due filosofi e sociologi nemmeno in età adulta, quando raggiunse un livello di cultura molto elevato, la sua figura risulterebbe ancora più intensa di significato. Fu fautore e protagonista di un sindacalismo per certi versi anomalo rispetto a forme di sindacalismo classico delle società industriali di altri paesi. Mise al centro dell’attività sindacale il lavoratore, il bracciante, il contadino in quanto uomini nelle condizioni di schiavitù, di emarginazione e di sfruttamento.

(III) Di Vittorio e le origini del movimento sindacale (pp. 69 – 103).

Nell’ultimo scorcio del XIX secolo avanzano grandi cambiamenti epocali. Acquista un ruolo sempre più dominante la rivoluzione industriale. Si afferma così una nuova civiltà: la civiltà industriale da un lato e il sistema liberale – borghese dall’altro. Il sistema di produzione capitalistico interessa tutti i settori, anche quello agricolo. Si verificano così grandi cambiamenti sociali. Si evidenziano disparità sociali, condizioni di lavoro precarie, forme di sfruttamento, dalle quali nascono processi rivoluzionari, nuove forze sociali, gruppi, correnti politiche e movimenti, i quali, sia pure con strategie diverse, intraprendono iniziative di forte contrasto al sistema capitalistico.

Alcune forme di contrasto e organizzazioni operaie si manifestano già prima che nascesse e si sviluppasse la fabbrica moderna, quale si preciserà meglio nel corso dei primi decenni del XX  In Lombardia e in Piemonte, regioni investite dalla prima industrializzazione, in Veneto nel settore agricolo, prima della nascita del movimento sindacale, si affermano le Società di Mutuo Soccorso e le “Associazioni di mestiere”: Arti tessili e tipografi, lavori campestri, delle costruzioni ferroviarie e arti murarie. Le società di mutuo soccorso sorgevano per aiutare economicamente i lavoratori più danneggiati dallo sfruttamento o quelli che rimanevano senza lavoro.

Le leghe bianche, di ispirazione cattolica, erano promosse nelle campagne lombarde e venete da rappresentanti, legati alla Seconda Sezione dell’Opera dei Congressi: Giuseppe Toniolo, Filippo Meda, Romolo Murri, Davide Albertario che, tutti nati dopo gli anni settanta del XIX secolo, consideravano ormai superata la vecchia questione romana e ponevano il confronto con lo Stato Liberale su un piano sociale, non più giuridico istituzionale. Le leghe rosse, di ispirazione socialista, erano presenti nella maggior parte dei casi nell’Emilia Romagna ma anche in Veneto (NDR). Particolare importanza andavano assumendo, nelle zone più industrializzate del paese, le Cooperative.

Giuseppe Di Vittorio è un uomo del Sud e il termine sud a quell’epoca e tuttora non esprimeva solamente la designazione di una semplice posizione geografica, di una diversità di origine geografica con il resto del paese, ma, nella complessiva frammentazione morfologica – territoriale e storico – antropologica dell’Italia, una condizione sociale ed economica di evidente arretratezza, per gran parte dovuta proprio alle profonde disparità e divisioni storicamente esistenti, ancora più accentuate con l’industrializzazione concentrata al nord” (pag. 77). Questa Italia a più velocità: Nord, Centro Nord e Sud sarà da un lato un limite per il sindacato ma anche un’opportunità

Cerignola, il paese di nascita di Giuseppe Di Vittorio, era ed è rimasto legato alla coltivazione della terra. Le colture più diffuse sono: cereali, olio e delle viti. La forza lavoro era quella dei braccianti. Peppino Di Vittorio fece per anni il bracciante, sostituendo il padre, morto sul lavoro. Le sue radici sono le stesse che condivideva con altri braccianti. Nel corso di tutta la sua attività sindacale, ed ebbe incarichi di grande importanza nel sindacato italiano e mondiale, rimase sempre ancorato ai valori respirati fin da ragazzo tra la sua gente: “La dignità, intesa come frutto del sapere della vita, lo spirito di fratellanza, il senso di comunità e di appartenenza, la solidarietà e, nello stesso tempo, il richiamo alle condizioni di povertà, di magra esistenza di un sistema sociale – quello agricolo – ora in via di superamento ma che Di Vittorio riteneva di mantenerne viva la memoria per il grande significato che assumeva soprattutto nelle occasioni di riflessioni, di analisi e di confronto con la società industriale emergente” (pag. 95).

A sessant’anni, Giuseppe Di Vittorio era un uomo di ampia cultura e capo indiscusso di un grande sindacato, ma non c’era momento che non si ricordasse delle proprie origini, da dove veniva e quanta strada aveva percorso assieme ad altri suo compagni. Nel primi anni de Novecento, appena adolescente, non si era ancora nemmeno affermato il concetto di adolescenza, Di Vittorio, bracciante agricolo, senza istruzione e senza maestri, era già alla testa dei primi movimenti sindacali; nel 1909 guidò la Lega dei braccianti di Cerignola verso la conquista delle nove ore di lavoro. Due anni prima, nel 1907, a quindici anni, fondò nella sua Cerignola un Circolo giovanile socialista, indicando a coloro che vi partecipavano conquiste sociali, come la lotta contro l’alcolismo e dare segni di dignità sociale. Peppino lancia l’idea di sostituire il tabarro dei braccianti con il cappotto, divisa signorile, riservata ai ceti medi e ai padroni. La parola d’ordine dei giovani socialisti fra i braccianti fu quella di ritrovarsi alla domenica nella piazza principale del paese con i cappotti e col cappello a falde, invece della classica coppola.

Vittorio Foa, alla morte di Giuseppe Di Vittorio, raccolse una testimonianza di Benigno Zaccagnini (componente di spicco dell’Assemblea Costituente e segretario della D. C.) che gli disse: “Quando Di Vittorio è morto, io ho pianto. Sono convinto che è in paradiso”. Zaccagnini voleva dire che in Di Vittorio c’era sempre un profondo rispetto delle idee altrui (pag. 99). Giuseppe Di Vittorio, pur essendo giunto all’apice della carriera politica, segretario generale della C.G.I.L, conosciutissimo anche all’estero, alla morte della mamma si precipitò al suo capezzale. L’episodio è ricordato dal professor Giovanni Bollea, medico personale del sindacalista pugliese. La mamma era  in uno stato di grave collasso. Il figlio temeva che la mamma non lo riconoscesse né che lui potesse raccogliere le sue ultime parole. Peppino, irrigidito, la guardò fisso con gli occhi, osservandole la bocca se mai si muovesse. Lei muove brevemente le labbra e nel silenzio più assoluto lo chiama. Peppino si getta in ginocchio con la sua grande mole, poggiando la propria faccia sul braccio della madre, accarezzandole le mani e piangendo. Lei non piange, non sorride, tenta ma non vi riesce, di accarezzargli i capelli. L’uomo Di Vittorio era anche questo: “La dura lotta giornaliera non offuscava mai questo enorme patrimonio umano ereditato dalla sua terra e da sua madre: un grande, caldo, immediato senso di umanità” (Ibidem, pp. 100-101).

(IV) I Tempi del rivoluzionarismo (pp. 105 – 122)

Giuseppe Di Vittorio da giovane aveva aderito al sindacalismo rivoluzionario, contrapposto a quello riformista. Questo non voleva dire che pensava al rovesciamento delle classi dominanti con azioni rivoluzionarie. Era convinto che un’azione sindacale, per essere incisiva, doveva scaturire soltanto dal rapporto diretto con i lavoratori in un percorso progressivo di conquiste e di trasformazioni, in piena autonomia e indipendenza da ogni partito. Anche se era dirigente politico e parlamentare di tutto rilievo, intendeva mantenere distinti i ruoli dei partiti dal sindacato, in uno spirito unitario di tutti i sindacati, di tutti i lavoratori indipendentemente dall’appartenenza politica o fede di qualsiasi tipo ( pag. 107).

I grandi uomini sono capaci di vedere in quello che fanno una prefigurazione di scenari e soluzioni future. Nel caso di Giuseppe Di Vittorio si tratta di un grande che si proponeva anche in prima persona, lottando, rischiando la vita, mettendoci tutta la carica di generosità, di umanità e di patriottismo. Certo non si è realizzata del tutto la società che immaginava. Ma sicuramente egli è stato determinante per tante conquiste tuttora evidenti e significative per milioni  di lavoratori. Non si può immaginare che cosa sarebbe successo se le cose avessero preso un’altra piega, se cioè si fosse imboccata la strada della rivoluzione. Le condizioni c’erano tutte: L’Unità sindacale andata in frantumi, rottura del fronte che aveva liberato l’Italia dal nazi – fascismo; tutto era accaduto con il chiaro intendo di emarginare il movimento dei lavoratori e i partiti operai dai processi decisionali.

C’è chi avanza dei dubbi su questa analisi della mancata rivoluzione e in generale sulle rivoluzioni della modernità. Giuseppe Di Vittorio fu artefice delle lotte bracciantili in Puglia negli anni del biennio rosso, per le quali fu arrestato per la seconda volta. Giuseppe Di Vittorio, dopo la rottura dell’Unità sindacale seppe guardare lontano. Non aveva mai pensato che il rinnovamento dell’Italia nel dopo guerra dovesse passare attraverso una lotta armata. “Le rivoluzioni sono momenti malinconici della storia. Il breve soffio di speranza viene sommerso dalla miseria e dalla delusione. Questo è successo nel 1789 in Francia e nel 1917 in Russia. In breve tempo gli slogan dei giorni migliori vengono pervertiti per giustificare un nuovo regime di terrore. Il quale può essere una dittatura temporanea, una situazione di emergenza di fronte alla pressione esterna, o semplicemente carisma in un contesto di anomia, in ogni caso, esso conduce a un altro periodo di repressione” (Ibidem, pp. 109 – 110). Vladimir Putin, presidente della Federazione Russa, erede dell’Unione Sovietica, dopo aver invaso l’Ucraina su larga scala, ha detto che la guerra contro l’Ucraina è una tragedia. La paranoia al potere altro che la Fantasia al potere, come si diceva nel Maggio francese (NDR).

Non sfuggiva a Giuseppe Di Vittorio e agli altri sindacalisti dell’immediato dopoguerra la particolare situazione dell’Italia, dove esistevano in pratica tre Italie: “Un Nord industrializzato, con una classe operaia non ancora formata omogeneamente; il Sud profondamente agricolo, in una condizione di quasi totale assenza di protagonismo sociale da parte di contadini e braccianti, di una evidente arretratezza e con una vasta presenza di analfabetismo; vaste aree del Centro – Nord agricole ma con forti diversità socio – culturali, economiche e ambientali rispetto al Sud. Più che parlare di rivoluzione, risulta più appropriato parlare di necessità rivoluzionarie, diversamente orientate ma concordi verso traguardi comuni; processi rivoluzionari per il cambiamento e per la costruzione di una società unificante” (Ibidem, pag. 113).

(V) Caratterizzazione del sindacato e Di Vittorio (pp. 123 – 159)

Il movimento sindacale e la sua organizzazione vanno inseriti nel quadro di grandi cambiamenti che investono soprattutto l’Italia settentrionale a cavallo tra il XIX e XX secolo. Il  capitalismo italiano si dimostra quasi subito aggressivo. Sono pochi i “capitani d’industria” illuminati e lungimiranti, per usare una metafora usata più volte dagli storici. Gli operai italiani, oltre ad essere duramente ostacolati nei loro tentativi di organizzazione, erano tra i peggiori pagati d’Europa, senza nessun tipo di assistenza. Non esisteva all’inizio del XIX secolo nessuna legge che regolava la durata del lavoro; nelle campagne si lavorava dal sorgere al tramontar del sole; i governi di destra, con Crispi sugli scudi, praticavano una politica di contrasto e di reazione violenta contro il movimento operaio. In questo quadro nient’affatto idilliaco prendeva quota il socialismo anarchico ispirato da Bakunin. Il fallimento di alcuni tentativi insurrezionali favorì la nascita di un sindacalismo moderato di cui Giuseppe Di Vittorio fu l’anima.

Intanto le prime forme di organizzazione operaia si andavano modificando con la costituzione delle prime Camere del lavoro. Queste divennero subito l’organizzazione territoriale che combinava assieme la funzione prevalentemente sindacale con quella di rappresentanza degli interessi generali dei lavoratori e dei cittadini. Accanto alle Camere del lavoro, vere e proprie case dei lavoratori, sorsero, su un piano strettamente sindacale, le prime associazioni professionali di arti e mestieri: Federazione dei Tipografi, sindacato dei ferrovieri italiani, la FIOM (Federazione Italiana Operai Metallurgici, la Federterra (Federazione dei lavoratori della terra), la Federazione delle Arti tessili, dei tranvieri, dei lavoratori del mare. Una parte del sindacato riformista si riconosce nel partito socialista riformista, che aveva in Filippi Turati il leader indiscusso.

La divisione all’interno del Partito Socialista tra massimalisti e riformisti si trasmette anche all’interno del sindacato in una logica di divisione tra operai e contadini. E’ il dramma del sindacato italiano che peserà su tutto il movimento, complice anche la divisione nel Partito Socialista. Molti studiosi si interrogano su come sarebbe stata la società italiana se il sindacato fosse riuscito ad essere davvero unitario, mettendo assieme operai e contadini, dal momento che nei primi decenni del Novecento in Italia la maggior parte della popolazione era legata al lavoro della terra; nel censimento del 1911, il 34% era occupato nell’agricoltura, il 16,94% era occupato nell’industria, dato che comprendeva anche gli occupati dell’artigianato. Ovviamente nell’Italia Meridionale l’occupazione era tutta nell’agricoltura. Un grande sindacato unitario avrebbe ostacolato la nascita e l’affermarsi del Fascismo, ma non andò così.

Giuseppe Di Vittorio, figlio del Sud, legato ai lavoratori della terra, sposò il sindacalismo rivoluzionario impegnandosi nelle lotte bracciantili del “biennio rosso”, mosso dalla convinzione che dai lavoratori e non dalle organizzazioni nasce la legittimità dell’azione sociale. L’attacco fascista al movimento sindacale lo fece avvicinare al Partito Comunista Italiano, nato nel 1921 dalla scissione del P.S.I. al congresso di Livorno. Emergeva la necessità per tutto il movimento sindacale di un apporto politico, di un partito rivoluzionario. Inizia per Di Vittorio una attività frenetica che lo porterà nell’aprile del 1921 al secondo arresto a Lucera. Nel 1920 aveva sposato a Cerignola, Carolina Morra. Dal matrimonio nascono due figli: Baldina e Vindice. Anche nel dare il nome ai propri figli, Peppino era un romantico passionale. Baldina stava per baldanzosa, Vindice per vendicatore. I suoi due figli non avrebbero dovuto aver paura di nessuno. Nel maggio del 1921 venne eletto deputato come indipendente nelle file del PSI, elezione ottenuta grazie al forte impegno dei lavoratori per liberarlo dal carcere. Nel 1925 fu condannato dal Tribunale Fascista a 12 anni di carcere. Riuscì a fuggire in Francia dove si impegnò a mantenere in piedi la Confederazione Generale del Lavoro, disciolta dai fascisti; soggiornò in Unione Sovietica dal 1928 al 1930 dove rappresentò l’Italia nell’Internazionale Contadina, partecipò alla guerra di Spagna. In tutti gli spostamenti portò sempre tutta la famiglia con sé, tranne in Spagna. Bella la testimonianza della figlia Baldina su: Giuseppe Di Vittorio, mio padre (Ibidem. pp. 155- 159).

(VI) Giuseppe Di Vittorio: inizio e fine di una storia (pp.161 – 228)

Giuseppe Di Vittorio aveva un rapporto speciale con la gente e questo succedeva ovunque, a Cerignola, alle feste de l’Umanité fra gli operai francesi in Spagna, fra i lavoratori italiani emigrati, nei tanti paesi dove lo portava la sua responsabilità della Federazione Sindacale Mondiale. La figlia Baldina racconta che una volta, Gianni Toti, direttore del giornale della C.G.I.L. Il lavoro, per disciplinare gli incontri di quanti volevano parlare con Di Vittorio, aveva appeso alla porta del suo ufficio un cartello che indicava un orario per le visite. Di Vittorio si arrabbiò molto e fece togliere subito il cartello. La C.G.I.L non era un ministero.

Lo sesso Gianni Totti racconta che una volta lo rimproverò aspramente perché in uno dei primi numeri del giornale aveva messo una fotografia di Angelo Costa, presidente della Confindustria, con una didascalia dove si ironizzava sul fatto che lui, il presidente, andava a messa ogni giorno. Di Vittorio, continua Gianni Totti nel suo racconto, mi chiamò alle sette del mattino nel suo ufficio di Corso Italia dicendomi: “Sei un settario, sei un intellettuale presuntuoso, tu non hai diritto di fare dell’ironia sulla fede religiosa di un uomo, anche se questi è il capo dei nostri avversari, il presidente della Confindustria. Tu devi rispettare la sua fede religiosa, altrimenti sei un demagogo. Sono altri i motivi di lotta tra noi e Costa, tra noi, gli agrari e gli industriali: la religione non c’entra. Questi sono motivi che dividono, non uniscono. Un giornale dei lavoratori è bello se unisce, è brutto se divide” (Ibidem, pag. 165). Di Vittorio, confermava Luciano Lama, a differenza di tanti di noi, non era settario ma cercava sempre davvero di capire le ragioni degli altri.

Giuseppe Di Vittorio profuse tutte le proprie energie come segretario della C.G.I.L fino alla sua morte (1957). Gli anni quaranta furono davvero problematici. C’era da ricostruire tutto in un’Italia devastata dalla guerra. Alcune delegazioni straniere, due dei sindacati americani e delle Trade Unions inglesi trovarono drammatica la situazione: La razione alimentare insufficiente per conservare il minimo di salute, gli alimenti supplementari acquistati al mercato nero, corruzione, furto imperversavano ovunque. Altri paesi forse non avrebbero resistito ad una tale situazione senza cadere in una guerra civile. Questo non accadde grazie all’unità dei partiti politici che parteciparono alla lotta di liberazione, alla rinascita sindacale unitaria, anch’essa agevolata dalla presenza di azioni sindacali prodotte dalla C.G.I.L clandestina, risorta per l’impegno di Giuseppe Di Vittorio e di Bruno Buozzi, fucilato dai nazi fascisti.  Il Patto di Roma, siglato nella città eterna il 3 giugno 1944, sottoscritto dai massimi dirigenti sindacali ed esponenti dei tre maggiori partiti che avevano partecipato alla lotta di liberazione, sanciva la nascita del nuovo sindacato unitario. La stessa delegazione americana e delle Trade Unions elogiava gli operai italiani, indicati all’opinione pubblica mondiale come i migliori. Di Vittorio era l’infaticabile tessitore del processo di inserimento e di valorizzazione del movimento sindacale nel ruolo di costruttore di una nuova società, di un paese diverso” (pp. 171- 173).

Raimondo Giustozzi

 

Note

Giorgio Benvenuto entra nella UIL il 1 ottobre 1955. È stato segretario confederale della stessa (1968-1969); segretario generale dei metalmeccanici della UILM e della FLM (1969-1976); segretario generale della UIL (1976-1992) e della Federazione CGIL-CISL-UIL (1976-1984). E’ stato più volte negli anni Settanta e Ottanta vice presidente della Federazione Europea Metalmeccanici (FEM); vice presidente della Confederazione Sindacale Europea (CES); consigliere del Consiglio Nazionale Economia e Lavoro (CNEL). Segretario generale del Ministero delle Finanze (1992-1993). Segretario nazionale del PSI (febbraio-giugno 1993). Parlamentare alla Camera dei Deputati e al Senato per tre legislature (1996-2008) ha ricoperto l’incarico di presidente delle Commissioni Finanze e Tesoro. Economista ed esper­to in materie fiscali, insegna alla Scuola Superiore della Guardia di Finanza. È autore di molti saggi sulla finanza, sulla politica, sul sindacato, sui partiti. Attualmente è presidente della Fondazione Bruno Buozzi, della Fondazione Pietro Nenni e vice presidente della Fondazione Giacomo Brodolini.

Claudio Marotti. Sociologo, ha pubblicato di recente: la specificità del movimento sindacale italiano. La riforma organizzativa della Federazione unitaria (Morlacchi Editore, Perugia 2006), “Giuseppe Di Vittorio”. L’uomo, la storia, il pensiero (Edizioni Sudest, Manfredonia, 2008); la questione giovanile nella società post – moderna. Riflessione socio – antropologica su un mutamento epocale (Aguaplano, Passignano sul Trasimeno, 2012).

 

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