Don Pacì, protagonista nel primo romanzo di Dolores Prato, Campane a Sangiocondo, è nella realtà don Pacifico Ciabocco, parroco illuminato e aperto di San Ginesio, cittadina delle Marche, diventato nella trasposizione letteraria Sangiocondo. Dolores Prato aveva conosciuto personalmente don Pacifico Ciabocco nei tre anni (1923 – 1925) durante i quali aveva insegnato nella locale Scuola Normale Promiscua “Matteo Gentili” di San Ginesio. “Io pensai a lei – scrive Dolores Prato in una lettera del 1963, indirizzata al parroco don Pacifico Ciabocco – Prendevo un ricordo vero e su questo ne intessevo tanti di fantasia; uno spunto e io ne facevo un fatto con premesse e conseguenze. Ma quel che di vero era nel lavoro, era Sanginesio, era lei, anche se, come ho precisato, travisato e inventato, ma quel che di vero c’era bastava per prendermi la mano”. Dolores Prato inviava a don Ciabocco la lettera e una copia del romanzo.
“Don Pacifico era un piccolo prete bruno, con occhi e mani enormi. Gli occhi sono gli sportelli dell’anima, senza pensare affatto ai suoi. Occhi scurissimi che esprimevano poderosamente la tenerezza. Guardando un dolore diventavano amore, se no erano luce e sorriso. Ma lui solo non seppe mai tutto questo, perché non si poneva davanti allo specchio a recitare quei sentimenti per osservarsi gli occhi … Figlio di povera gente, aveva le mani della sua razza, ma esagerate … Non era colto, ma d’una intelligenza naturale vivissima con la quale suppliva, per quanto serviva all’attività pratica, a qualsiasi cultura, anche teologica … Conosceva bene solo il Vangelo e cercava di applicarlo … Non difendeva né combatteva ideologie, non aveva antipatie, non pregiudizi; guardava sempre all’essenziale; i comandamenti antichi e il comandamento nuovo, l’amore … Ma proprio perché logicamente cristiano, gli altri preti dicevano che era un utopista” (Dolores Prato, Campane a Sangiocondo, pp. 48 – 50, Avagliano Editore, 2009).
Don Pacifico vuole trasformare Sangiocondo in una grande comunità cristiana. Un sogno che cerca di condividere con gli altri preti del paese. Passa quindi in rassegna tutti i sacerdoti per trovarne uno con cui confidarsi: “Don Ascenzio era sacerdote, verissimo, però faceva il prete come avrebbe potuto fare il maniscalco. Padre Annibale era un frate dotto: ognuno sapeva che sarebbe diventato presto superiore. Dicevano che aveva un’amante saccente con gli occhi storti. Siccome passava per un raffinato esteta, qualcuno, solo per questo non ci credeva … Don Pacifico scartò anche questo, non per la presunta amante, ma perché stimò che non avrebbe avuto tempo per i suoi problemi, impegnato com’era in conferenze e convegni … Don Ernesto era sulla trentina e veniva dalla campagna, due cose per cui avrebbero potuto intendersi, ma i problemi che lo interessavano erano tutti meccanici. Riparava la macchine e guidava l’automobile. Al dì sopra del motore non c’era che Dio e il suo sogno era quello di poterlo portare a spasso in macchina, di motorizzare la processioni che in quel paese avevano un’importanza non indifferente” (Ibidem, pp. 70 – 72).
Oltre questi primi tre sacerdoti c’erano ancora don Salvatore e don Peppe, con i quali accordarsi per costruire quella comunità cristiana, che stava tanto a cuore a don Pacifico. Il primo veniva da una famiglia un po’ stramba che dava colore, sapore, varietà al popolo di Sangiocondo. “Don Salvatore era l’unico orefice del paese, sicché gli affarucci non gli mancavano, specialmente alla domenica, quando affluivano i contadini. Allora egli esponeva sotto le logge tre o quattro bacheche; sul fondo di velluto erano appuntati anelli, spille, catenelle, medaglie; col suo cappello all’indietro, le mani nelle tasche, attendeva, diritto in piedi, le clienti che in breve gli si affollavano intorno … Don Pacifico passò in rassegna mentale tutti i preti e, benché fossero tanti, scarta e scarta, non restò che don Peppe, il canonico silenzioso, tutto raccolto nello studio della storia del paese. Non aveva che quella passione; cose e persone lo interessavano solo in quanto potevano avere relazione con l’argomento” (Ibidem, pag. 73).
Don Pacifico aveva riposto la fiducia in don Peppe perché proveniva da una famiglia di birocciai. Pensava che avesse un po’ più di sale in zucca. Si era sbagliato. Un giorno andò a trovarlo in casa. Lo trovò che stava sistemando sul tavolo dello studio certe carte risalenti a qualche secolo indietro. Su una di queste c’era scritto che il senato di Montecchio (l’attuale Treia) scriveva nel 1204 ai cittadini di Sangiocondo ringraziandoli con queste parole: “ … E la memoria ne resterà finché spargerà il sole i suoi raggi sopra le mura vostre”. Don Pacifico non capisce e chiede quale fosse questa memoria. Era accaduto che in occasione di una devastante alluvione, i molini di Montecchio fossero stati sommersi dall’acqua. I cittadini di Sangiocondo inviarono birocci colmi di sacchi di farina per soccorre quelli di Montecchio. Ecco perché nel documento si parla che il ricordo di quel gesto rimarrà per sempre negli annali della storia cittadina. “Un paese che possiede documenti come questo – dice don Peppe – è un paese ricco d gloria”. Don Pacifico chiede quale sia la gloria del paese. Don Peppe si spazientisce: “O bella, che significa? La gloria del paese è la gloria del paese. Senti, don Pacifico, tu sei un bravo giovane, ma lo saresti di più se ti occupassi un poco della nostra patria” (Ibidem, pag. 78).
Don Pacifico è un figlio di San Giocondo, ha tutti i tratti della sua gente, semplice ma fiera della propria libertà. Il romanzo si apre con un movimentato furto del tesoro della Madonna su quale si torna a parlare nel corso del libro. Il capitano Riziero, “uno straniero autotrapiantatosi a Sangiocondo per stare vicino ai poderi della moglie”, sosteneva che il tesoro della Madonna fosse stato nascosto dallo stesso don Pacifico “per fare un miracolo a modo suo”. Il furto è stato invece commesso da Ugo di Appicciafuoco, un diseredato che abita in una delle più povere casette del rione Giardino, dove si allineano le “case più povere, più sporche più malfamate del paese. Per don Pacifico tutto il paese, e la campagna intorno era il suo corpo, ma il Giardino era il suo cuore. Se un contadino moriva, se una famiglia di disgregava, se un artigiano mancava di lavoro, egli ne risentiva il dolore in se stesso. Ma la miseria persistente del Giardino era l’affanno ininterrotto della sua vita” (Ibidem, pag. 43).
La descrizione storica di Sangiocondo e la sua posizione geografica nel territorio sono quanto di più bello del romanzo: “Sangiocondo sorge in una regione collinosa dove le colline stanno ognuna per conto proprio senza formare né blocchi né catene; forse sono confederate fra di loro, ma quel che appare è la loro indipendenza. Ognuna ha in cima qualche cosa, o un paese o una vecchia torre. Sui fianchi non c’è manco una borgatella; la gente assomiglia alle colline; non ama paraventi allo spalle. La zona, vastissima, finisce a levante nel mare, a ponente si inerpica pian piano sino a raggiungere una grande catena di monti. Tra le colline ce n’è una più alta delle altre e più sola che sostiene il paese di San Giocondo come il faro la sua lanterna” (Ibidem, pag. 31).
Il paese sorge per la decisione di cinque signori, che nel IX secolo lasciano le loro rocche e si stabiliscono su una cima deserta dove l’aria è purissima, la vita spaziosa e la difesa naturale. Dividono la sommità della collina in cinque parti e ognuno fabbrica nella propria un piccolo fortilizio. “Isolandosi lassù, diminuivano le possibilità d’essere attaccati, aumentando quelle di difesa. Erano vicini e separati, coordinati e indipendenti. Da quella piccola capitale dominavano i loro cinque territori che ormai formavano un paese solo. Rinunziarono alle insegne particolari e ne adottarono una in comune: cinque spade sguainate impugnate da cinque mani che le tendevano in senso orizzontale” (Ibidem, pag. 35). Circondano la città di mura poderose in cui si aprivano dodici piccole porte dette portelle, custodite da speciali deputati e da apposita milizia. La popolazione è solidale e pacifica ma pronta a difendersi da qualsiasi attacco, capace anche di resistere agli ingiusti diktat del papato, che chiedeva l’aggressione armata di altri paesi, e di accettare i conseguenti interventi.
Tutto procedeva per il meglio nella piccola comunità, che aveva per altro dotato il paese di molte chiese, ognuna con il proprio campanile e di molti monasteri, quando successe il fattaccio” “Il conte Alberico di Battincolle consegnava le chiavi della porta che era sotto la propria giurisdizione al signore di un forte paese non lontano che, con infiniti accorgimenti, riusciva ad entrare in Sangiocondo mentre suonava la quarta vigilia della notte” (Pag. 40- 41). Le ore della notte erano divise in quattro turni di guardia. Erano chiamate “Vigiliae” dall’omonimo termine latino. Le vigiliae erano le guardie armate che dovevano proteggere le porte e le mura cittadine. Per tutte le ore della notte che andavano dalle diciotto della sera alle sei del giorno successivo, c’era il coprifuoco durante il quale non si poteva uscire dalla città. Potevano farlo solo alcune categorie di persone, tra queste chi era addetto a cuocere il pane e a consegnarlo. Una fornarina, che stava proprio attendendo al proprio lavoro, si accorge del tradimento e chiama il popolo alla difesa. I cittadini accorrono e sconfiggono gli invasori. I traditori vengono banditi dalla comunità.
La storia galoppa fino ad arrivare alla prima metà del secolo scorso. Le campane delle chiese: Santa Maria d’Alto Cielo, San Benedetto in Cippo, la chiesa della Redenzione, Santa Maria delle Scalette, la chiesa dell’Apparizione battono le ore del giorno, suonano allegre nei giorni di festa e a morto, in occasione dei funerali. L’unica famiglia nomade che la storia del paese ricordi è quella dei Monaldi, fonditori di campane da generazioni. L’arte della fusione delle campane e del nomadismo si è tramandata da padre in figlio. Sangiocondo ha poi molti monasteri: “Nel monastero delle Evangeliche, le monache recitano l’ufficio a voce soffiata, sicché da tutte insieme giunge in chiesa appena un bisbiglio. Pare che in uno dei tanti interdetti che colpì il paese avessero avuto il permesso di recitare le ore, purché lo facessero a porte chiuse e a voce bassa. Quando l’interdetto fu tolto apersero le porte, ma continuarono a salmodiare in quel modo”. Dolores Prato inserisce nel racconto le note storiche che attingono alla religiosità e alla vita quotidiana di Sangiocondo, come anche di Treia nell’altro romanzo, Giù la piazza non c’è nessuno, per inquadrare personaggi e avvenimenti.
Don Pacifico nasce in una famiglia povera. Il papà lavora come renaiolo al fiume, la mamma accudisce tre figli: Primo, il più grande, Marietta, la seconda e Pacifico, il più piccolo. Primo, diventato grandicello, prima va a garzone presso mastro Cioccio, il falegname, poi decide di emigrare in America per aiutare meglio la famiglia. Marietta sostituisce con il tempo la mamma in alcune faccende domestiche. Pacifico, terminata la Scuola Elementare, manifesta il desiderio di farsi prete. Ne parla con don Ascenzio, il parroco, che gli fornisce le prime conoscenze del Latino. Una volta, nella chiesa Collegiata, Pacifico assiste all’Ufficio delle Tenebre cantato in coro dai preti presenti, ognuno seduto sul proprio stallo. D’improvviso si alza una voce più alta delle altre e pronuncia: “Zelus domus tuae comedit me”. La frase l’accompagnerà per tutta la vita. “Lo zelo della tua casa mi ha divorato. La vita intera bruciata per la casa di Dio, quella casa dove Dio ha bisogno di ben poco, ma i fratelli hanno bisogno di tutto”.
Ma gli avvenimenti si accavallano nel giro di pochi anni. Il papà muore al fiume, schiacciato dal carro carico di rena che gli si rovescia addosso. Primo emigra in America per fare studiare Pacifico. In casa rimangono la mamma e Marietta. Pacifico entra in seminario e un anno prima dell’ordinazione sacerdotale perde la mamma. Il ragazzo fa appena in tempo a ritornare a casa, a piedi, camminando di notte, dalla mamma morente. Chino su di lei, riesce ad ascoltare una sua frase, che sarà anch’essa pronunciata anche da don Pacì sul proprio letto di morte, quando verrà la sua ora: “Ma come si fa?”. “Era il suo intercalare; lo diceva sempre nell’accettazione di un sacrificio; lo disse anche per la morte”.
Tutte le campane suonano a festa, quando don Pacifico rientra a Sangiocondo da prete. La gente gli si accalca attorno. Anche i signori, che non lo avevano mai degnato di uno sguardo, quando era ragazzo, perché figlio di povera gente, lo salutano festosi e si avvicinano a lui. Solo il farmacista, anticlericale di vecchio stampo, ma tanto chiacchierone, tiene le distanze. Dolores Prato non dice nemmeno il suo nome, tanto il personaggio è scialbo e insignificante. Il capitano Riziero, altro sciocco individuo, continua nelle sue malignità verso tutti. Stupidi, boriosi e pettegoli sono sempre in ogni paese, ieri, oggi e domani (NDR.). Il conte Minulli, uno dei frequentatori delle logge di piazza, personaggio distante dalla piazza, ignora il prete, come prima aveva ignorato il ragazzo. Deve risolvere un problema: la moglie lo tradisce con il pretore, un giovane di prima nomina. Il conte risolve subito la questione. Caccia la moglie da casa, concedendole un lauto stipendio e dà in sposa al giovane pretore la figlia Sara.
Gildo, figlio di Giannantò, il porcaro del paese, invece lo avvicina e gli manifesta l’intenzione di entrare in seminario anche lui. Diventerà prete anche lui, anche se non avrà la tempra di don Pacì. Farà carriera. Marietta, la sorella di Pacifico sprigiona gioia. Ora è lei a mandare avanti la casa. Se Pacifico serve il Signore, lei servirà il fratello. Anima semplice e candida. Gigi delle campane si lamenta che ha fame. Don Pacifico lo invita a casa per mangiare. Marietta è lì ad accontentare tutti. I preti del paese hanno tutti da fare. Lo zelo di cui arde il cuore di don Pacì per il proprio Signore non è il loro. Lo accusano di essere comunista, perché sogna una nuova comunità cristiana, fondata sull’amore non sull’egoismo.
Alla morte di don Ascenzio, don Pacifico e la sorella Marietta vanno ad abitare nella casa parrocchiale e nei momenti di gioia interiore, il fratello diceva alla sorella: “Siamo tutti divisi, noi preti, e dovremmo vivere uniti per lavorare di più, per essere meno dissipati. Si vivrebbe tutti con la fatica di tutti e si mostrerebbe al popolo quanto sia bello vivere in comunione”. Marietta gli fa osservare che si potrebbe vivere cristianamente restando ciascuno in casa propria. Il fratello le risponde che ci vorrebbe un esempio pratico: “Occorre che cominciamo noi per trascinare gli altri. Sarebbe veramente la prima cellula comunista”. “Comunista? Pacì, che dici?”. Il fratello, sentendo parlare Zoccoli, il comunista del paese, associa la parola cellula a comunitaria. Anche le prime comunità cristiane erano delle piccole cellule, organismi dai quali ne sorsero altri. “Zoccoli è comunista, lui è una parte. Crede che potranno fare da soli e non è vero. Ogni religione sarà la parte preponderante, finché durerà nell’umanità il senso del mistero … Cristo venne ad annunciare il regno di Dio e il regno di Dio non è solo un misterioso futuro, ma anche una migliore organizzazione terrena destinata ad affratellare tutti i popoli per la salute dell’anima e per una vita più giusta quaggiù” (pp. 89 – 90).
Primo intanto, ritornato dall’America, si sposa con Irma e dal matrimonio nasce Benedetta, che compie due anni proprio nell’anno in cui avviene il furto dell’oro della Madonna. Sarà la moglie di Ugo di Appicciafuoco a consegnare la refurtiva a don Pacifico, che sa dove rimetterla. Diventato parroco, don Pacifico diventa anche vicario foraneo. Avuto il nuovo incarico, deve sopportare le ripetute visite del proprio vescovo che lo riprende, dicendogli: “Da tanto tempo mi arrivano voci su un progetto che lei sta accarezzando per costruire una comunità di sacerdoti, è vero? Sì, monsignore, una specie dell’antica Collegiata plebana. Ma pare che lei organizzerebbe questa comunità come punto di partenza per raccogliere il paese in una comunità laica … lei mirerebbe ad un tentativo socialista. Socialista non direi, cristiano sì. … La carità è l’essenza della vita cristiana gli ricorda il vescovo. Dunque, gli risponde don Pacì? Dunque che cosa? Lei fa il demagogo e pretende di esercitare la carità, incalza il vescovo. No, monsignore, intendo denunziare che non viviamo in carità. E’ diverso. Io non mi sono mai occupato delle questioni sociali se non quando esse coincidono col mio ministero”. Per metterlo in difficoltà, il vescovo gli chiede in che cosa questa nuova comunità di sacerdoti si differenzia da quelle già esistenti. Don Pacì gli risponde: “Queste sono a forza centripeta, la mia dovrebbe essere a forza centrifuga. Non unirsi per isolarsi, ma unirsi per fondersi col popolo. E’ diverso, ma finirò col non pensarci più”(pag. 113).
Don Pacifico sogna una Chiesa in uscita, come chiede con insistenza Papa Francesco. I tempi non erano maturi ai tempi di don Pacifico. Forse non lo sono nemmeno oggi. Il sacerdote verrà allontanato dalla parrocchia, dopo averne passate tante, seminando sempre gesti di carità e di affetto verso tutti, prima per una serie di suicidi che “lasciano nell’anima del prete un segno indelebile come il marchio a fuoco sulle bestie”, poi per la morte del fratello Primo. Un altro episodio viene a sconvolgere la vita di don Pacifico. La cognata Irma, mentre suo marito Primo era malato di Tisi e veniva curato dal dottore Giovanni Brunoni, tisiologo di chiara fama, lei tradisce il marito, diventando l’amante del dottore. Don Pacifico deve fronteggiare i pettegolezzi della gente sulla cognata. La madre del dottore, la signora Elvira, tradita a sua volta dal marito, aveva tentato il suicidio, ma non ci era riuscita. Cade dal tetto della casa e rimane tutta sciancata. Grida parole infamanti all’indirizzo di Irma e non vuole più vedere il figlio.
Benedetta rimane nella casa del parroco e di suo sorella Marietta. Don Pacifico diventa per Benedetta Zipicì (Zizì di Dolores Prato nel romanzo Giù la piazza non c’è nessuno) e Marietta diventa la mamma di Benedetta. Dice all’indirizzo della cognata: “Lei ha fatto il comodo suo. Io la bambina non gliela do, dovessi mettermi contro tutti e contro tutto. La bambina è mia”. In qualità di vicario foraneo, don Pacifico ha l’incarico dal proprio vescovo di ammonire don Salvatore e don Ernesto perché cessassero le loro attività extrasacerdotali. Don Pacifico assolve l’incarico. Richiama i due sacerdoti, che delegano due nipoti nell’esercizio palese delle rispettive aziende mentre loro si riservano la direzione clandestina. Convocato dal vescovo, crede che tutto sia a posto. Comincia invece la reprimenda del presule che lo rimprovera per lo scandalo della cognata Irma. In qualità di cognato e di prete – gli dice il vescovo – lei avrebbe dovuto impedire il fatto.
Alle accuse del superiore, don Pacifico risponde: “Perché il peccato della carne dobbiamo vederlo come quello che assomma le brutture e le schifezze di questo mondo? Ci sono peccati che ledono la giustizia e la carità per i quali non si ha la stessa ripugnanza. Si punta il riflettore sul peccato carnale, facendolo apparire il primo attore. Il riflettore siamo noi preti; facciamo di quel peccato il protagonista del male terreno, lasciando nell’ombra l’avarizia, lo sfruttamento, la menzogna, l’ipocrisia, l’orgoglio. Il peccato carnale parte da un fatto naturalmente necessario per la continuità dell’essere umano, come il mangiare e il dormire lo sono per il suo mantenimento. E se quel fatto non fosse così importante, la Chiesa ci avrebbe istituito un sacramento? Il sacramento – risponde il vescovo – santifica un atto che fuori di esso non è che un basso istinto animale … Bisognerebbe sentire ripugnanza di certe cose solo a pensarle. Monsignore, tutti gi altri peccati hanno in sé maggiore malizia e socialmente sono molto più dannosi. Lei sa chi è il marchese Massenzi; io lo chiamo il negriero di Sangiocondo. Continua a spremere il sangue dei poveri nonostante le sue ricchezze siano davvero inaudite. Per me quell’uomo è un assassino, anche se le sue vittime continuano a respirare. Alcuni giorni fa lei lo accolse con giubilo e lo trattenne a desinare. Non avrebbe certamente accolto con altrettanta cordialità mia cognata. Eppure la colpa di quella donna si riduce a un peccato che non ha nuociuto a nessuno, mentre intorno a quell’altro c’è una cortina di lacrime” (Ibidem, pp. 145- 147).
Le difficoltà di don Pacifico crescono con l’avvento dei nuovi padroni che si insediano in comune. Il vento del fascismo soffia anche su Sangiocondo. Gerarchi della nuova forza politica vengono nominati tali con titoli altisonanti: cavalieri, commendatori, ufficiali. Gastone è quello che si dà più da fare. Vuole portare Sangiocondo ai livelli di altri paesi vicini. Porta il distintivo del Fascio in bella mostra ma sempre attento a nasconderlo ad ogni stormir di veto. Nomina cavaliere un tale di nome Pollenza, un immigrato, esonera il podestà Alfonso Mosti. Fa erigere in piazza una forca che serva da monito con un elenco di sorvegliati speciali. In cima alla lista c’è il nome di don Pacifico. Presto la forca scompare, perché tirata giù dagli abitanti di Sangiocondo che non sopportano prepotenze. Nemmeno don Pacifico le sopporta. Non è d’accordo che vengano suonate le campane della chiesa in occasione di una manifestazione organizzata dal Fascismo. Viene minacciato, ma don Pacifico non cede. La manifestazione, dedicata al grande italiano Cristoforo Colombo, si risolve in una Carnevalata. Il cavalier Pollenza, chiamato a parlare, non sa cosa dire. Il Concordato tra Stato e Chiesa esalta padre Annibale. Pensa che sia arrivata la sua ora e fa di tutto per farsi bello davanti ai nuovi padroni.
Don Pacifico stringe amicizia invece con il maestro Alceste Rummi, giocondino fin nelle midolla. Ultimo di tre fratelli, il primo dottore in medicina, conosciuto in tutto il mondo, il secondo, prete, allontanato dalla chiesa perché aveva aderito al cattolicesimo sociale, Alceste aveva studiato musica. Ha un sogno nel cassetto: costruire un grande auditorium per metterci tante campane che suonino tutte insieme. Chiede a don Pacifico di accompagnarlo a Roma, per trovare gli appoggi giusti, magari arrivando al capo dello stato. Prima di partire si recano in corriera per avere dal vescovo le lettere commendatizie necessarie. Sulla corriera incrociano gli sguardi di una donna forestiera. E’ Letizia, la nuova insegnante di Lettere della scuola di Sangiocondo. La docente in questione altro non è che la stessa Dolores Prato che insegnò per alcuni anni nella Scuola “Matteo Gentili” di San Ginesio. La ragazza viene sistemata da don Pacifico a pensione dai Mosti, una famiglia di Sangiocondo. Letizia si immerge nella vita del paese per tutto il tempo che resta ad insegnare nella scuola. Conosce Zoccoli, il comunista del posto. Gastone e camerati vogliono sequestrargli la bandiera comunista. Don Pacifico si interessa a nasconderla in chiesa.
L’insegnante diventa stretta collaboratrice di don Pacifico, di cui apprezza l’amore che il prete ha verso i poveri ai quali dava tutto quello che riceveva da altri, privandosi di tutto. Il capitano Riziero, dopo anni di insolvenza, salda un debito che ha verso don Pacifico. Questi ciò che riceve lo dà ai poveri del paese, lasciando per sé quasi nulla. Letizia allontanata dalla scuola perché contraria al Fascismo. Frequenta la chiesa ma lo fa a modo suo: “Stava seduta lì, a quell’ora vespertina, come un’altra va a passeggio: per riposo o svago, perché la chiesa era bella, perché c’era silenzio, luce riposante, fiori freschi e nessuna persona” (pag. 186). Condivide con don Pacifico l’amore verso i fiori. La sua chiesa era conosciuta come la chiesa dei fiori. Frequenta la piccola Benedetta, che cresceva all’ombra di Zipicì, che viveva con lei “Una paternità senza radici”. La vita diventa sempre più difficile per don Pacì, che viene sempre rimproverato dal proprio vescovo per le sue idee troppo vicine al socialismo. Lo riprende poi perché ha assunto come organista, Leonardi, un prete spretato. L’altro che avevo, suonava come un mulo, ribatte don Pacifico. Leonardi è un pover’uomo. Il vescovo lo accusa anche di trascurare i ricchi del paese. Anche loro hanno bisogno del prete. Sen’altro, risponde il sacerdote, ma se hanno qualcosa di serio da sottopormi, non le loro beghe nobiliari, “spendendo milioni per passare dalla contea al marchesato”. Il presule lo invita a stare lontano dalla nipote perché la gente chiacchiera. Presente al colloquio è anche padre Annibale che pende dalla bocca del vescovo e gongola soddisfatto.
Nel corso dell’incontro entra in casa Benedetta che saluta lo zio e chiede se gli ospiti si fermano per cena. Se fossero stati invitati dal conte Massenzi si sarebbero fermati di certo, abituati come sono ad adulare i potenti. Don Peppe, presente anche lui alla serata, plaude all’arresto del comunista Zoccoli. Da topo di biblioteca, straparla della famiglia Vanghi, di cui fa le lodi, citando un lontano antenato che aveva dato lustro a Sangiocondo. In passato, pensa tra sé don Pacifico, nel presente non c’è nessuno dei Vanghi che dia lustro al paese. Un nipote, bighellone e nullafacente gira in macchina nel centro del paese, cercando di abbordare qualche ragazza del posto. La comitiva che accompagna il vescovo: il segretario, mons. Timoteo, don Annibale e don Peppe, ama spettegolare su tutto e su tutti. Don Pacifico non vede l’ora che se ne vadano. Deve andare all’ospedale, dove è ricoverata Adelaccia, una donna di Sangiocondo, alla quale i medici hanno amputato una gamba che stava andando in cancrena.
La comunità del rione Giardino reclama la presenza di don Pacifico. Anche il vescovo vacilla e capisce che quel don Pacifico, anche se un po’ pazzo, forse ha ragione. Ad un convegno indetto dallo stesso arcivescovo mancano tutti i sacerdoti. Don Ernesto era partito col camion per andare alla fiera del Faggeto. Don Salvatore aveva approfittato della stessa fiera, per portare le sue bacheche con collane e collanine. Don Peppe era sempre affogato tra le sue carte d’archivio. Solo don Pacifico era assente giustificato, correva sempre là dove era richiesta la sua presenza. Il sacerdote trova un appoggio in suor Caterina che, pur venendo da fuori, aveva messo radici nel paese. “La paternità di don Pacifico è come la maternità di suor Caterina, senza radici”.
Nell’ultima parte del romanzo è tutto un susseguirsi frenetico di nuovi avvenimenti condensati nell’arco di poco tempo. Muore Irma, la cognata di don Pacifico: “Rivide Irma, bella, bianca, immobile come una statua. Le guardò a lungo la bocca prima che saldassero il coperchio della cassa” (pag. 238). Muore anche don Peppe. Teresa del birocciaro, alta, grossa, rubiconda, sua sorella, consegna a don Pacifico tutte le carte di archivio, come aveva lasciato scritto il fratello prima di morire. Don Pacifico prende in eredità tutto quello che don Peppe gli ha lasciato. Teresa, sessantenne, si sposa con Calogero, “un pezzente che non si capiva come vivesse”, due anni più di lei. Don Pacifico è chiamato a sposarli in tutta fretta, una mattina, prima dell’alba.
Divampa intanto la guerra, riempiendo di scoppi infernali la terra, il mare, il cielo. “Da tre anni Irma era sottoterra e Benedetta già portava in giro la grazia esile ed ermetica di sua madre. Marietta maturava restando sempre la stessa, come sono certe rose che appassiscono senza perdere né petali né forma” (pag. 243). Don Pacifico ripensa al tempo trascorso e fa un bilancio della propria vita. L’utopia di costituire una nuova comunità cristiana, dove ognuno deve mettere a denominatore comune il proprio lavoro, rimane sempre la stessa. “Sapeva che il lavoro del sacerdote è una fatica inconcludente, una vittoria e un fallimento continui, una fatica sempre ricominciata, mai finita, perché la materia su cui lavora è la creatura umana che s’avvia alla morte cadendo e rialzandosi”.
Muore anche il vecchio arcivescovo. Il nuovo è ancora peggiore. Don Ernesto accompagna in macchina i morti al cimitero. Zoccoli evade dal carcere. Benedetta si ammala di tifo. Gildo comincia la carriera ecclesiastica, andando a Roma. La comunità cristiana, che don Pacifico aveva sempre sognato di costruire, la ritrova nella folla degli sbandati per la guerra. Accoglie ebrei in fuga, li nasconde dove può. Protegge partigiani, soldati italiani e di altri eserciti, “un miscuglio di ideologie opposte e religioni diverse, condizioni disparate di nascita e di censo”. Letizia, ritornata da Roma, ora che il Fascismo è crollato, diventa la collaboratrice di don Pacifico. Benedetta, diventata una signorina è innamorata di Lucio Massenzi. Non farà in tempo a sposarlo perché anche lei muore di tisi, come il babbo Primo. Il nuovo vescovo è più stupito, sciocco e scialbo di quello che c’era prima. Accusa don Pacifico di essere troppo attaccato alla nipote. “Mi sono diviso nella vita di tutti. Ho fatto della mia vita una campana che vive solo per riflesso, quando altri la colpisce. Adesso batte rintocchi di morte” – dice sconsolato don Pacifico (pag. 282). Viene allontanato dalla parrocchia e privato del beneficio. Marietta e Benedetta muoiono entrambi, assistite dal prete. Ritornato nel suo penitenziario ecclesiastico, riceve le visite dei “Sovversivi” del rione Giardino, di Letizia e del comunista Zoccoli, che nel frattempo aveva recuperato da bandiera del partito, nascosta in chiesa. Alceste era già morto da tempo. Tutti i gerarchi del Fascismo, sono scappati verso il Nord.
Passata la bufera della guerra, Sangiocondo senza la presenza di don Pacifico vive dei giorni terribili. Accade che in occasione della processione indetta dalle Confraternite del posto, alcune di queste iniziano a litigare tra loro. Il motivo del contendere è alquanto sciocco e stupido. Una Confraternita in particolare vanta un proprio diritto di pro genitura ai danni delle altre. Chiede di sfilare in testa alla processione e minaccia disordini. Il nuovo vescovo, del tutto imbelle, non sa che pisci pigliare. Chiede ad alcuni abitanti di Sangiocondo di andare da don Pacifico e riportarlo in paese. Il sacerdote ritorna assieme ad un gruppo di persone del rione Giardino. Tutti lo riconoscono: “Figli miei, ascoltate, non così, non così, così fate male, dite a me, vado io a parlare, venite qui, ditemi … Un colpo solo partì; partì da quella folla che aggrovigliata come un mucchio immane di serpenti si stava sciogliendo, cercando la voce del prete. Un colpo solo e toccò a lui” (pag. 307).
Sul letto d’ospedale, don Pacifico, parlando adagio, dice: “Mi sono sbagliato anche in questo! Volevo morire divorato dallo zelo per la casa di Dio e invece niente, un colpo di rivoltella! Ero tanto sicuro che avrei potuto dire: Zelus domus tuae comedit me … e invece, niente! Come si fa? No, mamma? Come si fa?” (pag. 308). Lo assistono suor Caterina e Zoccoli “che gli incrociò sul cuore quelle sue grosse mani da operaio, diventate pallide come l’ostia” (pag. 309).
Raimondo Giustozzi
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