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Libri: Giacomo Matteotti, lettere a Velia

Lettere a Velia copertina del libroLe lettere (428), scritte da Giacomo Matteotti e indirizzate a Velia Titta, sua moglie, raccolte nel volume curato da Stefano Caretti, di 467 pagine, compresa la prefazione di Eugenio Garin, la presentazione di Stefano Caretti, l’indice del libro, dei nomi e l’Appendice, vanno dal 1912 al 1924. Sono distribuite nell’arco di dodici anni e raggruppate in tre grandi periodi. Quelle che vanno dal 1912- 1916 formano la prima parte del libro. La seconda parte del volume è costituita dalle lettere scritte negli anni 1916 – 1919. Le lettere scritte nel periodo 1919- 1924 formano la terza parte. Rappresentano un documento di eccezionale importanza per ricostruire, a distanza di un secolo, le scelte personali dei due, prima fidanzati, dal 1912, poi marito e moglie dal 1916. Giacomo Matteotti e Velia Titta si incontrano per la prima volta in modo del tutto casuale, durante la villeggiatura estiva nel 1912 a Boscolungo, sull’Abetone. Tra i due nasce subito una corrispondenza epistolare.

Nel 1912 Giacomo Matteotti (1885 – 1924) aveva ventisette anni, Velia Titta (1890 – 1938), ventidue. Velia era figlia di Oreste Titta, abilissimo artefice del ferro battuto, prima a Pisa, poi a Roma dove aveva una propria officina, uomo di indole irrequieta, di spirito ribelle, di idee anarchiche. La mamma, Amabile Sequenza, era completamente diversa, legata ai lavori domestici, profondamente religiosa, di moralità austera e intransigente. Muore nel 1904 appena cinquantenne. Velia rimane orfana della mamma ma di fatto anche del padre che, abbandonata la famiglia, va a convivere, nel 1900, con un’altra donna. Si unisce con lei in matrimonio quando rimane vedovo. “Ultima di sei fratelli, due maschi (Ettore e Ruffo) e quattro femmine (Fosca, Nella, Settima e Velia), la piccola Velia, cresciuta ed educata in suole e collegi religiosi, era così rimasta affidata, oltre che alle sorelle maggiori, soprattutto alla affettuosa sollecitudine, anche materiale, del fratello Ruffo, il celebre baritono (in arte Titta Ruffo), il quale assunse con generoso impegno le veci del padre dopo l’allontanamento di questi dalla famiglia” (Cfr. Giacomo Matteotti, lettere a Velia, curate da Stefano Caretti, introduzione, pag. 17, Pisa University Press, 2022).

Fidanzamento – Matrimonio (1912 – 1916)

Giacomo Matteotti proveniva da una famiglia che aveva raggiunto una discreta posizione sociale grazie al lavoro del papà Girolamo Matteotti (1839 – 1902) e della mamma Elisabetta Garzarolo (1851 – 1931). Il padre era nato a Comasine, nella Val di Peio in Trentino, da una famiglia di calderai. Il nonno di Giacomo, Matteo Matteotti, dopo anni di pendolarismo, aveva deciso di trasferire la propria famiglia a Fratta Polesine, in Veneto, provincia di Rovigo, anche per seguire da vicino l’attività commerciale che aveva nella zona. Quando arriva nel nuovo paese è quasi povero. Sarà il figlio Girolamo che porterà avanti e incrementerà l’attività paterna di commerciante in ferro e rame, investendo i profitti nell’acquisto di case e terreni, raggiungendo una posizione economica invidiabile. “Girolamo era abile, avveduto, galantuomo. La sua bottega era l’arca di Noè, vi era di tutto. Vi attendevano lui e la moglie, Elisabetta Garzarolo, donna seria e simpatica, piena d vivacità e di cortesia”. (Ibidem, pag. 80, Nota 1). Dal matrimonio nacquero sette figli, quattro dei quali morirono in tenera età. Giacomo era il secondogenito tra Matteo (1876 – 1909) e Silvio (1887 – 1910). Dal 1910, morte del fratello Silvio, fino al 10 giugno 1924, anno del suo triste epilogo, assassinato da sicari fascisti, Giacomo Matteotti è come se fosse stato figlio unico, allietato dalla nascita di tre figli: Giancarlo, Gianmatteo, Isabella e amato dalla moglie Velia Titta.

L’educazione religiosa di Velia si confrontava con la religione laica di Giacomo. La ragazza, in data 12 gennaio 1913, gli scriveva: “Vuole lei che ci rivediamo … forse a S. Teresa o a S. Giovanni in Laterano – già immagino i nervi che le daranno i nomi di questi santi”. Giacomo rispondeva così nella lettera del giorno dopo: “Lei mi crede proprio un mangia santi. Eppure credo che ci siano pochi cristiani a Bologna che ne conoscano come me le chiese, e le loro ore di pace; e da quasi un mese ho sul tavolino accanto al letto, fedele compagna dell’ultima veglia, l’Adveniat regnum tuum, d’una scrittrice che forse Le è compagna d’idee; e fin il mio motto è tolto dalla vita d’un santo” (Ibidem, pag. 44). Il motto a cui Giacomo Matteotti fa riferimento, “foris pugnae, intus timores” (lotte di fuori, apprensioni dentro di noi), era stampato nella carta da lettere di Matteotti e impresso in un cancelletto del giardino della sua abitazione a Fratta Polesine. Il santo di cui parla è San Paolo che nella seconda lettera ai Corinti scrive: “ … Nam et cum venissemus Macedoniam, nullam requiem habuit caro nostra, sed omnem tribulationem passi: foris pugnae, intus timores” (S. Paolo, II Corinti, 7,5).  Traduzione: “Infatti, da quando siamo giunti nella Macedonia, il nostro corpo non ha avuto alcun sollievo, ma siamo tribolati da ogni parte: battaglie all’esterno, timori all’interno”.

Giacomo Matteotti nel paese di Fratta Polesine corre dietro a mille attività. E’ sindaco di Fratta Polesine, fa attività sindacale, sostenendo i braccianti del Polesine, segue le cooperative socialiste della zona, tiene comizi per il partito socialista, studia per perfezionarsi negli studi giuridici, in qualità di avvocato segue i propri assistiti, cura i beni di famiglia. Non lascia indietro niente, tanto da fargli dire in una sua lettera a Velia: “Vorrei avere dieci vite; e una ne darei anche all’ozio, al sogno, perché essa soltanto potrebbe bene riassumere le altre nove in ciò che compirono, prepararle in ciò che intraprendono. Invece, ho una vita sola – e non ho neppure la tua per raddoppiarla, anzi forse ti ho ceduto io una parte della mia. Forse per questo mi hai amato; che, entrando tu sola, mi vai trovando diverso da quel che apparisco agli altri, e a te allora” (Ibidem, pag. 65). La replica di Velia, del 28 marzo 1914, a questa lettera è altrettanto impegnativa. “L’uomo delle dieci vite” dovrebbe imparare a viverne bene una soltanto, quella che abbiamo. Velia temeva che lo spirito ardente, la lotta per la libertà e per la giustizia, connaturata nel suo uomo, l’avrebbe portato a scontrarsi con i suoi avversari politici.

In un’altra lettera del 22 novembre 1914, la ragazza lo invitava a fare delle scelte. D’altronde non poteva stare dietro a tutto con la passione che l’animava. Scriveva poi: “Mi accorgo come i piccoli centri siano quasi sempre quelli che sacrificano i migliori intelletti. Perché in fondo che cosa ti rende? – se ne togli, s’intende, uno scopo politico. Tu vedi e ascolti il solito giro di fatti, basato su antagonismi, su le piccole guerre di parte, sulle contraddizioni di ciò che mai si afferma e sempre vuole essere combattuto”. Giacomo Matteotti, così rispondeva ai rilievi mossi da Velia,: “… Il piccolo centro è il grande centro; non vi è che una differenza di ampiezza materiale: tutta la campagna, senza fine del Polesine, è la grande città; la cronaca di Milano equivale alla cronaca dei campi nostri; con le stesse miserie e meschinità. Chi si fa centro d’un movimento in una capitale nulla attua di più di chi sappia farsi centro di tutte queste case sparse, salvo la minore réclame proprio qui dove maggiore è la difficoltà per riunire membra più staccate e dare loro un indirizzo, una vita nuova comune … Anzi qui il tentativo è nuovo, perché si tratta di creare, mediante questa singolare e forse da nessuno avvertita unione di comuni ch’io preparo, come una coscienza di immensa città unita, che muove i primi passi …” (Ibidem, pag. 75).

Giacomo e Velia imparano a conoscersi, scrivendosi quasi quotidianamente. Quanta saggezza, lontana anni luce dalla banalità dei social di oggi! Nello loro sete di conoscenza c’è subito “una corrispondenza d’amorosi sensi”, avrebbe detto Foscolo. I selfie, postati nelle chat, il vuoto riempito dal nulla un po’ da tutti, la banalità imperante, non sono questi i mali che affliggono i nostri giorni? In un’altra lettera del dicembre 1914 – gennaio 1915, Giacomo presenta la propria mamma che “non è alta e non ha i capelli neri. Ha i capelli quasi tutti bianchi, e ne ha molti più di suo figlio. Una volta erano neri, sì, e ondulati; di una volta le restano gli occhi neri e le sopracciglia ancora folte, e la irrequietudine che la tiene sempre in movimento, sempre in attività, dalla mattina alla sera, quasi mai un momento seduta. Non ha avuto quasi nessuna istruzione; ma conosce praticamente più di tanti uomini. E’ all’antica; ma nessuna cosa moderna la offende, e anzi aborre la femminilità indolente o sentimentale. In alcune cose quindi le assomiglio; ma in altre assomiglio a mio padre: negli occhi, nel mento, e nella durezza del carattere, che lo aveva lasciato solo contro molti, odiato e calunniato spesso, così che le mie fragili vittorie di oggi mi sembrano la dovuta rivendicazione” (Ibidem, pag. 79). Certa stampa cattolica locale, avversaria di Giacomo Matteotti, accusava suo padre Girolamo Matteotti d’aver costruito la propria fortuna, prestando denaro a interesse. L’accusa non fu mai comprovata (Fonte Internet).

“Pochi documenti hanno l’eloquenza dei carteggi – di certi carteggi – nel parlarci di uomini e cose del passato: soprattutto quando si tratti di lettere davvero private, che nessuno avrebbe dovuto vedere, oltre il destinatario. Difficile, se mai, è saperle legger, quelle lettere, con la debita descrizione”, scrive Eugenio Garin nella premessa al libro. Giacomo Matteotti scrive così in una sua lettera a Velia del 21 gennaio 1915: “Le tue lettere m’arrivano come gocce di balsamo che s’inseguono e fanno attorno a me l’aria più luminosa. E’ così che ti voglio; così ti ho sempre desiderato: creatura mia di passione, creatura mia di pensiero; tutta perché io possa essere tutto tuo, e così diventare migliore, purificarmi di tutta quella scoria di insensibilità, di egoismo, di durezza che tuttora mi avvince e che tu sola puoi vincere, distruggendo col bene che mi dai, il male che tante volte ti faccio” (Ibidem, pag. 84).

Giacomo Matteotti scrive ogni giorno a Velia Titta, data la difficoltà di incontrarsi per i molteplici impegni che lo legano a Fratta Polesine. Ogni lettera rimanda ad un futuro prossimo venturo, quando arriveranno per loro giorni felici. Questa è la segreta speranza del giovane avvocato, impegnato in politica: “Nessun rimprovero né per me né per te; scontiamo il passato che ci ha fatti inquieti, incerti, scontenti; prepariamo l’avvenire che ci deve dare tutto, con una novità sempre fresca d’amore, con una incommensurabilità che tra dai propri desideri, dai propri dolori, dai propri timori, le gioie più alte e sempre maggiori di ogni domani” (Ibidem, pag. !00).

Sotto le armi (1916 – 1919)

Giacomo Matteotti, con l’entrata in guerra dell’Italia, viene chiamato alle armi. Si dichiara contro la guerra e per questo ideale è disposto a sacrificare  tutto. Non imbraccerà mai un fucile per uccidere un altro suo simile. Viene mandato a Verona. In una delle prime lettere spedite dalla città veneta, dopo aver comunicato a Velia il suo nuovo indirizzo e la situazione in città, almeno per quello che lui vede, scrive: “Adesso che ti ho dato tutte e le più esatte informazioni, fammi stare un pochino con te, con te sola: E mostrati a me quieta e lieta come nei nostri migliori momenti perché non vi è nessun pericolo, e, di fronte alla breve separazione, sta davanti a noi tutta una vita piena di speranze e di gioia. Per tutta questa vita per tutto il nostro avvenire, dobbiamo serbarci intatti, con tutte le nostre energie, che la separazione, il dolore del momento non può diminuire” (Ibidem, pag. 146).

Purtroppo la separazione non sarà breve. Da Verona, Giacomo Matteotti viene mandato a Cologna Veneta, un paese della provincia di Verona. Da qui, “Giudicato dal Comando Supremo un violento agitatore, Matteotti viene allontanato dalla zona di guerra, dove ogni ulteriore sua permanenza veniva considerata estremamente pericolosa” (pag. 152, nota a piè pagina). La nuova destinazione è la Sicilia, città di Messina, poi un luogo del tutto isolato, poco lontano dalla città, che si può raggiungere solo a dorso di mulo. Vive con altri soldati, puniti come lui per un’idea, quella socialista. Conosce un tenente, anche lui socialista, col quale stringe amicizia. Il suo superiore diretto è un buzzurro che conosce solo la disciplina militare, non sa fare nessun discorso. Eppure anche in questa sua nuova destinazione, che avrebbe letteralmente abbattuto chiunque, Giacomo Matteotti non perde la propria dignità e riesce a ritagliarsi, tra mille incombenze anche stupide, un suo angolo per scrivere a Velia Titta. Le lettere di questo periodo sono lunghe e piene di tenerezza.

Scrive in una sua prima lettera inviata a Velia da Campo Inglese, una sorta di penitenziario militare: “Qualcuno mi domanda se ho moglie. La risposta che mi viene immediata è un bel no. Non assolutamente, perché il senso che ha preso tutti, è così differente dal mio, che mi fa spesso desiderare di non essere marito per volertene ugualmente e anzi maggiormente tutto il bene, senza vincoli, senza l’apparenza, per quell’intima forza che ci avvince che ci terrà sempre uniti per sempre. E poi no, ancora, perché noi non siamo come gli altri, perché il nostro amore non è come quello degli altri; è nostro, soltanto nostro, come la vita che ora ci interrompono, ma che poi riprenderemo per noi” (Ibidem, pag. 168).

Anche nella nuova cattività, Giacomo Matteotti riesce a studiare, a leggere e a scrivere un trattato giuridico. Legge i giornali, quelli che Velia gli manda per posta. Conosce gli avvenimenti che stanno sconvolgendo la Russia. La scienza da tavolino, frutto di letture, tentenna davanti a nuovi scenari: “Due giorni di rivoluzione russa mettono nel nulla  migliaia di volumi sulla legislazione anteriore; e nessuno oserebbe ancora assicurare che quelle migliaia fossero più utili assai di questi giorni. Ma forse tutto è utile, tutto ha uno scopo in una grande armonia universale – dove il taglio d’una immensa foresta non oscura il più minuto lavoro dell’intagliatore. O meglio ancora, tutto dipende dallo spirito col quale si fanno le cose” (Ibidem, pag. 215).

Velia, anche se lontana, è sempre  lì vicino a lui: “Io ti vedo intanto presso ogni fiore più bello, in ogni nuvola bianca circondata d’azzurro: qualche volta davvero mi sembra che la nostra unione non sia mai stata reale, ma sempre un sogno u desiderio lontano: tornano le vibrazioni dei primi giorni, dei primi mesi, soltanto più pure più semplici, più vive di una speranza sicura. Alterno i pensieri del mio studio con quelli della nostra vita comune; già penso a quando ritornerai, a una casetta dove potessimo essere soli” (Ibidem, pag. 226). Giacomo Matteotti legge i quotidiani. Scrive in una sua altra lettera: “Nei giornali c’è che i figli unici di madre vedova di oltre 60 anni, non possono mai esser mandati in prima linea. Quindi allora anch’io non potrei in nessun caso esservi mandato. La notizia par vera perché il Corriere della Sera la porta; ma chissà se è giusta. Del resto per me non ha importanza … Voglio far presto, vivere presto; dobbiamo avere la via libera davanti per goderci la nostra vita, poiché già troppo ormai ci hanno rubato.” (Ibidem, pag. 231).

Anche allora si aveva il dubbio sulle notizie, se è erano vere o false, oggi si scrive fake news, ma cosa ha la lingua inglese di migliore? Boh! (NDR). Ma nella lontana Sicilia, a Giacomo Matteotti arriva una notizia. Velia gli annuncia che è incinta. Aspetta un bambino; è maschio. Matteotti è pazzo di gioia, ma nell’ambiente nel quale vive da circa due anni, non lo comunica a nessuno: “Io non ho annunziato a nessuno il bambino, fuorché a Matteucci e al Carbonero qui – così fortunatamente non ho ricevuto le congratulazioni che ora però assediano te. Non è necessario però che tu risponda; sei anche troppo giustificata” (Ibidem, pag. 238). Intanto nel forzato esilio in Sicilia (Monte Gallo), Matteotti scrive: “Qui ho un bambino pure io! Un ipotino del capitano, il quale è rimasto orfano di padre, viene ora da me qualche volta a farsi insegnare un po’ di latino” (Ibidem, pag. 240). Durante il forzato esilio siciliano Giacomo Matteotti fa scuola ai soldati analfabeti o semianalfabeti, che condividono con lui il forzato esilio. E’ un’occupazione che lo distoglie per un po’ dalla forzata reclusione. In una lettera si rammarica perché qualcuno del gruppo si è ritirato. “Peccato”, scrive, “sarei stato contento di aver proprio insegnato a leggere e scrivere ad un buon gruppo. Ma forse son troppo vecchi”.

In cima ai pensieri del prigioniero c’è sempre questa nuova creatura, sangue del suo sangue. “Strombolicchio” lo chiama, in ricordo di una gita che aveva fatto con Velia nell’isoletta omonima. La tenerezza di padre e di marito affettuoso si dimostrano in tutte le lettere. Nell’isolamento siciliano conosce il dottore Francesco Lucente: “Lucente mi dà molti consigli per il bambino. Anzitutto dice che il latte non bisogna mai darlo prima che siano passate tre ore dalla volta precedente; e nella notte, anzi, dalle dieci della sera alle quattro del mattino, non bisogna darne affatto, per lasciare qualche tempo lo stomachino vuoto. Altrimenti si producono facilmente le enteriti. Anche se grida le prime volte non conta, perché poi si abitua così; e il gridare è poi segno solo di aver preso troppo alimento non digerito. Quando poi prende il latte, ne prenda pure fin che vuole, o fin che ne hai” (Ibidem, pag. 244).

Nel forzato esilio siciliano, Giacomo Matteotti aspetta le notizia della pace dopo gli anni di guerra: “Soltanto la notizia della pace potrà darmi l’altra gioia più vera e più sicura”. Questo non vuole dire che tralascia di scrivere quello che incontra durante i giorni sempre uguali, confortati dal fatto che riesce tuttavia a portare a termine il lavoro sulla “Cassazione”, e curioso com’è, annota anche qualche aspetto della vita quotidiana. Scrive infatti: “Qui intanto ho fatto amicizia con Nicola – un bambino tutto lacero e scalzo, ma molto intelligente per i suoi 6 anni. Racconta che la madre è separata dal padre a mano legge perché questi si ubriacava; e fa dei lunghi ragionamenti. Peccato non avere qui qualche paio di scarpe vecchie, o un abito … Quando verrò a casa cercheremo e troveremo. Poverino; poi è buono. Quando gli si offre del pane o qualcosa, stringe le spalle quasi commiserandosi e dice: “se m’o dugna” (se me lo dà) – lo prendo. Ora ha fatto conoscenza con tutti i soldati e tutti lo chiamano. Ma, bisognerà mandarlo a scuola; se no, lo abituano subito male” (Ibidem, pag. 276 – 277).

Nella lontana Sicilia giunge a Giacomo la notizia che La Spagnola, la terribile epidemia che attraversò l’Italia e non solo, causando migliaia di morti, è arrivata anche a Fratta Polesine. Giacomo raccomanda la moglie, che si trova lì con il figlio, in casa della mamma, di prendere tutte le precauzioni. In casa non deve girare nessuno che non sia sano, scrive Giacomo: “La donna di servizio deve essere sana e restare in casa. Altrimenti meglio niente … L’importante è ora conservarci bene, sani e lieti, per la prossima gioia; non contribuire con la nostra impazienza, con la trascuratezza, e con la depressione fisica o morale, a toglierci per sempre  quello che ci sarà tolto solo ancora per poco. Te lo chiedo per l’amore nostro, per il bene che mi vuoi e non devi proprio per l’amore che mi vuoi, contribuire a fare a te e a me il maggior male. Tu che sei stata capace di lunghi sacrifici, di lunghi silenzi, di lunghi isolamenti, non devi proprio ora cedere ch’è più vicina la meta … Pensa che la maggior parte della mia vita è posta in te, che da te dipende; e poi dimmi se non vorrai con tutta letizia passar sopra a questo tempo che deve darci il prossimo compenso della mia, della nostra vita nuova” (Ibidem, pag. 273).

Nell’esilio siciliano, Giacomo Matteotti aspetta con impazienza la licenza, che arriva finalmente, come comunica lui stesso: “Ottenuta licenza, arriverò posdomani” (Messina, 20 dicembre 1918). Dopo pochi giorni trascorsi a Fratta Polesine, gli giunge la notizia, che la sua classe deve rientrare nel proprio distretto di Rovigo. Matteotti rientra a Fratta Polesine, da qui, di nuovo viene mandato a Messina, dove trascorrerà gli ultimi giorni dell’anomalo servizio militare. L’ultima lettera spedita da Messina è del 3 marzo 1919; dopo otto giorni gli viene concessa la licenza e infine messo in congedo illimitato il 16 agosto dello stesso anno. Gli viene rilasciato, nonostante la sua posizione pacifista e il confino siciliano, un attestato di buona condotta e di aver servito con fedeltà ed onore” (Ibidem, pag. 294, nota (2).

Nel dopoguerra (1919 – 1924).

Rientrato finalmente nel proprio ambiente, si getta a capofitto nell’attività politica e sindacale, con comizi in diversi paesi grandi e piccoli della sua amata terra, il Polesine: Rovigo, Lendinara, Castelguglielmo, Loreo, Adria. Ritrova e incontra Andrea Costa, Parini, Zanella, Beghi, Gallani. Entra in contraddittorio con il leader dei clericali locali: Umberto Merlin. Scrive a Velia di non preoccuparsi per lui, che spera di trovare un po’ di tempo per se stesso e per lei: “Da tre anni c’è sempre tanta gente fra noi; ma andremo in cerca di una capannina, perché un minuto d’amore compensa anni interi di pena” (Ibidem, pag. 304). Serpeggia anche un qualche scoraggiamento: “Qui tutto si ripete come in antico; la gente non capisce niente fuor del proprio interesse immediato. E ora meno che mai vogliono lavorare. Se ci fossero le elezioni, vinceremo, ma sarebbe una vittoria di forma ma non di sostanza” (Ibidem, pag. 308).

La forza dell’idea, del socialismo, di quella fede, è più forte di ogni disincanto. Giacomo e Velia si confrontano su questo impegno, lei dentro un orizzonte religioso, lui dentro un orizzonte terreno, una dedizione totale al bene comune, al riscatto degli uomini, alla costruzione di un mondo più umano e più giusto. Anche nei momenti più amari – dichiara Matteotti – si è compensati dal pensiero che l’opera nostra può sollevare tanti altri, e poco importa se, a volte, dobbiamo accontentarci di sognare i passi lontani del futuro. Contro ogni tentazione di fuga dalla realtà, Matteotti invita tutti a lavorare perché l’ideale si realizzi ora, senza aspettare domani.

Giacomo Matteotti viene eletto deputato nel Regno d’Italia nelle elezioni del 1919. Così scrive a Velia: “Sono entrato per la prima volta alla Camera; ma vorrei, uscendo, ritrovare te che mi aspetti” (Roma, 28 novembre 1919). Prima dell’insediamento verro e proprio che avviene il 1 dicembre dello stesso anno, scrive in un’altra lettera del 29 novembre: “Bisogna che mi abitui a scriverti durante le sedute, altrimenti non ne troverei più il tempo … Le sedute preparatorie del Gruppo socialista sono interminabili; si perde del gran tempo e si conclude assai poco. Forse siamo in troppi. Interverremo alla seduta reale, ma probabilmente senza che avremo incidenti rilevanti” (Ibidem, pag. 312).  Il gruppo parlamentare socialista, riunitosi il 28 e il 29 novembre, aveva infatti approvato un ordine del giorno di Modigliani con cui si deliberava di intervenire alla seduta inaugurale della legislatura senza partecipare in alcun modo a manifestazioni di omaggio al sovrano e abbandonando collettivamente la seduta prima del discorso della Corona.

Giacomo Matteotti, in giro per l’Italia per tenere comizi, non manca di descrivere nelle lettere impressioni sulla gente, sulle atmosfere incontrate, sui personaggi conosciuti: “A Livorno ho trovato quasi subito il treno di ritorno a Roma, e arrivammo in ritardo. La sera sono ripartito per Chieti dove si arriva alle 5 del mattino: m’ha svegliato poi la musica che suonava per le strade. Bella cittadina, specialmente per la posizione, ma gente un po’ primitiva e … tanto pecorino. Corteo e comizio in piazza nel pomeriggio, con grande concorso di piccoli scugnizzi che battevano le mani in un loro modo speciale. La mattina dopo in automobile in giro per tutti i piccoli comuni alle falde della Maiella: tutto il paesaggio dell’Appennino. E mi sono fermato specialmente a Guardiagrele, ch’è nel Trionfo della morte. Vi ho fatto amicizia col parroco che mi fece vedere una croce di Nicola da Guardiagrele. Gente simpatica gli abruzzesi: conservano un po’ tutti il modo di essere e di parlare immaginoso di D’Annunzio. La Maiella e il Gran Sasso sono coperti di neve; e la campagna è ora tutta verde … Verso sera siamo capitati a Rapino, un piccolo villaggio; tra gli ascoltatori ho avuto Tommaso e Basilio Cascella” (Ibidem, pp. 316 – 317). I due fratelli Cascella possedevano una industria di ceramiche. Il fratello Michele Cascella è stato un grande pittore conosciuto in tutta Italia e non solo.  Matteotti si interessa di loro, della loro arte nonché di un altro laboratorio che gli strani artisti conosciuti possedevano a Pescara.

Continui scioperi intanto attraversavano tutta l’Italia. Il 1919 – 1920 è conosciuto come il famigerato Biennio Rosso. Il Partito Comunista Italiano, forte della Rivoluzione d’Ottobre in Russia, accendeva gli animi e proponeva continui scioperi. Giacomo Matteotti era contrario a stupide violenze che erano dannose per la causa operaia. Tutto doveva essere fatto nella legalità. Era nato intanto, il 17 febbraio 1921, il secondogenito Gianmatteo, che andava ad  aggiungersi a Giancarlo. Continuavano ovunque disordini, nel Polesine e nel Reggiano. Scriveva in una lettera del 14 aprile 1921: “ … Non mi duole per me che posso sempre rifare la mia vita in cento maniere diverse; quanto per tutto il nostro movimento creato con tanta fatica e per quella povera gente, che se pure ha ecceduto, si era finalmente riscattata da condizioni di servaggio e di fame ancora vigenti pochi anni fa” (Ibidem, pag. 342).

Nelle elezioni politiche del 15 maggio 1921, Giacomo Matteotti fu riconfermato deputato per il Partito Socialista nel collegio di PadovaRovigo, risultando il primo della lista con oltre ventimila preferenza, ma nel Polesine, i socialisti ottennero solo 13.553 voti rispetto ai 35.056 del 1919. “Nel Polesine si sono scatenate tutte le violenze” (Padova, 15 maggio 1921, ibidem, pag. 348). Nel nuovo mandato da deputato, scrive da Roma: “I deputati qui sono più pettegoli che mai; e i giornalisti assai meschini. Ho avuto il colloqui col direttore del Corriere, manderà forse un corrispondente  straordinario nel Polesine” (Ibidem, pag. 350). A Milano, condivide con “Modigliani la sorte di essere rifiutato da un albergo. Ospiti non desiderabili”.

Tra un comizio e l’altro, per Giacomo Matteotti c’è la ricerca di un luogo dove passare giorni di riposo con Velia e figli: “Ho visitato Castiglioncello, Quercianella, Antignano, Ardenza, tutti molto belli”. Giacomo trova che sono tutti degli ottimi posti, dove poter stare tutti insieme con le sorelle di Velia con le quali Giacomo ha avuto sempre ottimi rapporti, come ricorre in tante lettere, meno frequenti erano i contatti con il baritono Titta Ruffo, il fratello maggiore di Velia, sempre impegnato nei teatri italiani e in tournee all’estero. Scartate le località di cui sopra, in un’altra lettera informava Velia di aver trovato una villetta a Forte dei Marmi, ma l’affare non va in porto. L’impegno politico, le sedute e le interpellanze parlamentari, gli spostamenti continui tra Roma, Milano, non impediscono di scrivere a Velia. I due si erano sposati, civilmente, in Campidoglio, l’8 gennaio 1916. Si conoscono da undici anni, quando Giacomo Matteotti le scrive: “Il ricordo di una notte lontana d’amore mi tiene nel dormiveglia come un sogno che non finisce. Ti sento come un vortice d’acqua che attira per posarsi nel fondo, ma con la volontà di non posarsi mai. Non so se sia il desiderio di sciogliermi in te, di non essere più che in te; oppure di tenerti così che tu non possa essere altro che mia, in tutta l’anima, in tutta la persona, geloso di ogni cosa anche dell’aria che ti volesse toccare” (Ibidem, pag. 348).

Il lavoro da deputato al Parlamento Italiano lo logora: “Credo che tra non molto mi dimetterò da deputato, perché è tutta opera e lavoro inutile. Si è contro gli altri partiti; e il proprio partito non fa nulla di ciò che si dovrebbe fare. Allora a che scopo? Scusa se ti affliggo mentre tu sei in altre pene; e quando non mi possono venire che parole generiche di incoraggiamento o conforto che a nulla servono. La Giunta elezioni ha confermato che in Provincia di Rovigo sono avvenute le violenze elettorali e quindi un deputato fascista sarà cacciato dalla Camera” (Ibidem, pag. 390). Per tutta risposta, diecimila fascisti occuparono militarmente Rovigo per protestare contro l’annullamento delle elezioni del loro deputato Piccinaio. La deriva fascista è iniziata. Culminerà con la marcia su Roma il 28 ottobre 1922.

Scrive ancora Giacomo Matteotti al compimento dei trentasette anni: “Se una volta pensavo che a 37 anni si incomincia a diventare vecchio, deve essere proprio vero, anche se adesso non mi pare. Non mi pare perché vedo le cose quasi allo stesso modo; lo spirito è identico a quello di tanti anni fa, nonostante i maggiori affanni e a situazioni tragiche. Tutto è uguale a una volta, ma i 37 sono certi, proprio certi, e allora mi viene una grande paura del tempo che passa così celere; di tutto ciò soprattutto, anzi quasi solamente, che mi ha tolto e mi toglie di te, del tuo amore, della tua persona, del tuo affetto” (Ibidem, pag. 391). Giacomo si rallegra: “Quando tu mi dici che stai più bene e sei più lieta, ne godo come di un soffio d’aria fresca nella calura. Poiché la sofferenza fisica di questi ultimi mesi deve cessare tra poco, importa solo che ne riporti lo spirito libero, e il corpo sano – per dopo, per la nostra vita di poi, per la nuova letizia” (Ibidem, pag. 394).

“Sì penso a te. Sei stata il mio amore grande e vero e solo. Ore intere di ogni giorno hanno occupato di te il mio pensiero. Anni interi hanno occupato di te tutto il mio cuore. Come un sogno dapprima tutto vago, tutto profumo, inafferrabile e pur presente, ideale e pur penetrato tutto dentro la persona come un liquido sottile. Come una fiamma poi, che riscalda e che brucia, che attrae e che consuma; desiderio e soddisfacimento; ricordo di due labbra aperte come il fiore più bello, bagnate dalla rugiada che sola estingue la sete più ardente per dare la gioia più grande … C’è un fiore rinchiuso che aspetta tutto il sole, che aspetta tutta la pioggia, che vuole vivere; non può morire, per tutto quello che ha in sé, per tutto quello che può godere” (Roma, 28 giugno 1922, ibidem, pag. 395). Il 7 agosto 1922, Giacomo Matteotti è allietato dalla nascita della figlia Isabella.

Due anni dopo questa lettera, il 10 giugno 1924, Giacomo Matteotti viene ucciso da una squadraccia fascista composta da delinquenti, miserabili e depravati. I resti del suo corpo sono ritrovati solo il 16 agosto dello stesso anno nel bosco della Quartarella, poco lontano da Roma.

Raimondo Giustozzi

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