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Terra bruciata L’impunità dell’esercito russo, dalla Cecenia all’Ucraina (che resiste)

Adriano  SofriSenza titolo

Il mondo vide che un minuscolo popolo invaso sapeva ricacciare indietro una potenza ubriaca di sé. Se ne stupì, ma attribuì la cosa a una stravaganza esotica: se n’è stupito un quarto di secolo dopo, su una scala più vasta e più vicina, e per una volta ha provato a non distrarsi.

Nel 1996 all’autore di questo libro successe una duplice avventura romanzesca. C’era la guerra in Cecenia. Quella che sarebbe passata alla storia col nome di Prima guerra cecena, e che si concluse provvisoriamente con la vittoria di quel minuscolo paese del Caucaso sul colossale esercito russo. Era ancora la Russia di Eltsin. Nel 1999 Eltsin nominò a succedergli l’ufficiale del KGB, che si sbrigò a guadagnarsi i galloni di uomo forte e vittorioso.

Grozny fu rasa al suolo una seconda volta. Nel 2000 la partita era stata regolata, benché il conto con i resistenti di ogni affiliazione, dai patrioti laici ai fanatici del terrore islamista, non si chiudesse prima di altri nove anni, e passando attraverso orrori e carneficine come il teatro Dubrovka a Mosca e la scuola di Beslan.

In capo a quel decennio la gente cecena, meno di un milione e mezzo di persone, aveva perduto una su cinque delle sue vite, ed era stata sparpagliata nell’esilio in Europa, in Turchia, nel Nord America e altrove. I suoi capi superstiti piegati si adattarono a diventare i pretoriani feroci ed esosi del nuovo zar.

Un filo ostinato lega la terra bruciata in quel Caucaso alla sequela di mosse impunite della forza armata russa in Georgia, in Crimea, in Siria. In Ucraina. Il mondo vide, ma distrattamente, che un minuscolo popolo in un minuscolo territorio invaso sapeva resistere, tener testa, e addirittura ricacciare indietro una potenza straripante e ubriaca di sé.

Se ne stupì, ma attribuì la cosa a una stravaganza esotica, una reminiscenza di Hadzj Murat, cavalli, schioppi, turbanti. «Il mondo» se n’è stupito il 24 febbraio del 2022, un quarto di secolo dopo, sulla scala più vasta e più vicina dell’Ucraina, e per una volta ha provato a non distrarsene.

Insomma, c’era la guerra in Cecenia, l’autore aveva trascorso gran parte degli ultimi tre anni in Bosnia, a Sarajevo, perché c’era la guerra nei Balcani, e anche quella era una anticipazione in scala della futura Ucraina, la Serbia nazionalcomunista nel ruolo della Russia imperiale, la Bosnia Herzegovina nel ruolo che era stato della Cecenia – «musulmana», oltretutto – e che sarebbe stato dell’Ucraina.

Gli proposero di andare a Grozny e raccontare quella guerra strana, micidiale, alla periferia dell’Europa – dove l’Europa era nata, in realtà. Ci andò, del tutto alla ventura, e si trovò di colpo in un contesto rocambolesco di rapporti con gli attori della ribellione cecena, i bojeviki, i guerrieri, i politici, gli affaristi, i malavitosi – e la gente, i ragazzi, le donne.

Non si può immaginare come basti un giorno e una notte per stringere legami fra gli umani che altrimenti sarebbero impensabili, o chiederebbero anni e anni, quando c’è una guerra, in un posto che appartiene a uno o due secoli fa, salvo che gli hanno insegnato a usare le armi più nuove.

E che ha incisa la memoria recente di una deportazione brutale: fra il 1944 e il 1956 l’intero popolo ceceno fu nel giro di ore ammassato di forza dentro vagoni da bestiame e tradotto in Siberia o in Kazakistan, espiantato, falcidiato. «Se ti cerchi un nemico, vieni in Cecenia. E anche se cerchi un vero amico!». L’autore tornò incolume, e persuaso di aver trovato dei veri amici.

C’era da esser grati di una tale esperienza umana. Ma non era che l’antefatto. La guerra russo- cecena toccò uno stallo, poi si mutò in una tregua e un riconoscimento di fatto della condizione compiuta sul campo. La Cecenia la rivendicò come un’indipendenza raggiunta, la Russia oscillò fra la furia e il buon viso a cattivo gioco.

Non era la pace, ma la simulò. Alle porte della Cecenia, al confine con il paese fratello-coltello, l’Inguscezia, l’auto su cui viaggiavano tre italiani, due medici volontari e un organizzatore dell’associazione umanitaria Intersos, fu fermata con le armi, e i tre sequestrati scomparvero coi loro rapitori. I sequestri di persona per estorsione erano già un flagello della giovane repubblica caucasica. Facevano paura.

Passò del tempo, troppo tempo, e niente succedeva. I servizi, quelli russi, quelli italiani, facevano mostra di tener dietro alla cosa, ma non le si avvicinavano nemmeno. L’aspettativa si faceva sempre più cupa. Ci si ricordò dell’autore di questo libro, del suo viaggio, delle sue amicizie. La famiglia del più giovane dei medici rapiti lo conosceva. Gli domandarono di fare qualcosa.

Chiese notizie a quei suoi amici, non ne avevano, ma erano pieni di buona volontà. Decise di partire: era una mezza pazzia, si capisce. Così ebbe, a distanza di pochi mesi, il suo secondo viaggio ceceno, più avventuroso e rocambolesco del primo. Terribile, anche: non c’è impresa più seducente che il soccorso a vite pericolanti, non c’è impresa più angosciosa che il tentato soccorso concluso in tragedia. Finì bene.

È trascorso più di un quarto di secolo. L’autore di questo libro è stato in molti altri luoghi più o meno tempestosi: carcere, altre guerre, paesi lontani e feriti. E in Ucraina.

Linkiesta – Cultura – Esteri, 27 ottobre 2023.

Adriano  Sofri

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