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L’inquietudine di un uomo e la ricerca delle cose essenziali. La vita di Sant’Antonio di Padova.

padre Luciano Bertazzo

Padre Luciano Bertazzo

Pubblico numeroso, nella serata di venerdì 16 giugno 2023, presso la sala “Don Lino Ramini”, via del Timone, 14, Civitanova Marche (MC), nell’incontro dedicato a Sant’Antonio di Padova, francescano evangelizzatore, testimone di fede, pace e giustizia. Tutto ha avuto inizio alle 21,15, come da programma. Relatore di prestigio, padre Luciano Bertazzo, frate minore francescano, docente stabile di Storia della Chiesa presso la facoltà teologica del Triveneto, il più autorevole studioso di Sant’Antonio, consulente storico e fonte inesauribile di idee e suggerimenti per la pubblicazione del romanzo storico su Sant’Antonio di Padova: “Antonio segreto la forza di un uomo”, scritto da Nicola Vegro, Edizioni Messaggero Padova, 2019.

Don Mario Colabianchi, parroco dell’Unità Pastorale San Pietro – Cristo Re, Civitanova Marche (MC), Arcidiocesi di Fermo, ha letto alcuni brani della meravigliosa omelia pronunciata da don Tonino Bello nella cattedrale di Molfetta il 13 giugno 1987, festa di Sant’Antonio, alla presenza dei frati provenienti da Padova per le Giornate Antoniane e dei tanti fedeli che stipavano la chiesa, anche per celebrare i 350 anni dalla rifondazione della locale Confraternita dedicata al Santo. L’iniziativa dell’Unità Pastorale San Pietro – Cristo Re di Civitanova Marche si lega al ciclo di conferenze, volte a conoscere quei testimoni del Vangelo, validi in ogni tempo e a latitudini diverse.

Il servo di Dio, don Tonino Bello, esordiva, dicendo: “Carissimi fratelli, potrebbe sembrare anche strano per voi che dopo otto secoli veneriamo ancora la figura di un uomo che si è spento a trentasei anni. È incredibile, ma il suo nome ancora gira per tutti gli angoli della terra. Io oggi credo che non ci sia villaggio, città e metropoli in tutto il mondo in cui la gente non si raccolga in qualche chiesa per onorare la figura di Sant’Antonio di Padova. Perché mai? Quale è il segreto? Voglio dare un’interpretazione mia: perché forse Sant’Antonio si è convertito al popolo”. Tutta la sua vita fu la ricerca delle cose essenziali e la traduzione “sine glossa” (alla lettera) del Vangelo.

Aldo Caporaletti, promotore culturale, collaboratore dell’Unità Pastorale San Pietro – Cristo Re, coordinatore dell’incontro, ha richiamato brevemente, come organizzatore, tutti i precedenti sei incontri dedicati al tema “Testimoni di Fede, Pace e Giustizia”, promossi dall’Unità Pastorale, sopra ricordata. Ha presentato padre Luciano Bertazzo, elencando gli incarichi, ricoperti in passato e nel presente: docente di Storia della Chiesa presso la facoltà teologica del Triveneto, direttore della Specializzazione in Teologia Spirituale, preside dell’istituto teologico Sant’Antonio Dottore di Padova, direttore del Centro Studi Antoniani e della rivista francescana di storia, dottrina e arte “Il Santo”, membro del consiglio direttivo della Società Internazionale di studi francescani (Sisf) di Assisi. Padre Luciano Bertazzo è stato anche direttore editoriale (1999-2005) e direttore generale (2002- 2005) del Messaggero di S. Antonio.

La relazione di padre Luciano Bertazzo si è dipanata attraverso tre grandi temi che riassumono l’intera vita di Sant’Antonio: l’uomo, il francescano, l’evangelizzatore. Buona l’iniziativa nel presentare testimoni credibili. L’espressione mi ricorda, ha precisato il relatore,  quanto diceva san Paolo VI: “Più che di maestri, abbiamo bisogno di testimoni”. Nella tradizione e nella religiosità popolare, Sant’Antonio è visto come il taumaturgo, colui che fa ritrovare le cose perdute, e il “casamenteiro”, colui che fa trovare l’anima gemella, tradizione molto diffusa in Portogallo e nei paesi dell’America Latina. Sono due elementi che costituiscono il fenomeno antoniano.

Il santo di Padova è una figura bipolare, tra ricezione popolare e storica. Esistono delle motivazioni della fede popolare, che non contrastano con la dimensione storica. Davide Maria Turoldo, in un libro, pubblicato nel 2004 dalle Edizioni Messaggero di Padova, dal titolo “Perché a te, Antonio”, riprendendo la domanda di fra Masseo a Francesco: “Perché a te tutto il mondo viene dietro, e ogni persona pare che desideri di vederti e d’udirti e d’obbedirti?” La risposta è chiara: perché Antonio, riprendendo la professione di umiltà del Poverello d’Assisi ripete dalla lontananza dei secoli che il privilegio gli deriva dal fatto che “gli occhi santissimi [di Dio] non hanno veduto fra i peccatori nessuno più vile… “. Sublime dichiarazione di umiltà: che è nel cuore dei Santi, ma anche nella singolare partecipazione di una penna intinta di poesia. Con questa chiave l’autore indaga nella vita esemplare di Antonio, per scoprirvi il segreto della santità” (Fonte Internet).

 

La lettura del brano: il predicatore, e a chi deve predicare, domenica dell’ottava di Pasqua, preso dai “Sermoni”, recitato dall’attrice Emilia Bacaro, ha chiuso questa prima parte della relazione. Il brano racconta della visione avuta da Pietro: “Io mi trovavo in preghiera nella città di Giaffa, ed ebbi in estasi una visione: una specie di involto, simile a una grande tovaglia, scendeva come calato dal cielo, sorretto per i quattro capi, e giunse fino a me. Guardandolo lo esaminavo attentamente, e vidi in esso quadrupedi, fiere e rettili della terra e del cielo. Quindi sentii una voce che mi diceva: Alzati, Pietro, uccidi e mangia!” (Atti degli Apostoli, 11, 5- 7).

 

In Pietro è raffigurato il predicatore che deve attendere alla preghiera, seguita dall’estasi, cioè l’elevazione sopra le cose della terra. La predicazione è detta anche “grande tovaglia di lino” perché deterge i sudori delle fatiche e ridona vigore, per affrontare gli attacchi delle passioni. I quadrupedi della terra, cioè i golosi e i lussuriosi, e le bestie, nome che suona come vastiae (devastatrici), cioè traditori e gli omicidi; e i rettili, cioè gli avari e gli usurai; e i volatili del cielo, cioè i superbi e tutti coloro che s’innalzano con le penne della vanagloria. I Sermoni sono testi di Teologia che Antonio utilizzava nella preparazione dei futuri sacerdoti.

 

Antonio uomo

 

La storia è un progetto di Dio che si svolge nel tempo. I santi sono compagni di viaggio. Antonio è un uomo inquieto, è un pellegrino che cammina in cerca della propria vocazione. La “benzina” che mette per il cammino è la passione per il Vangelo. E’ un santo amato anche nel mondo mussulmano. Stupende sono le pagine del romanzo “Antonio segreto, la forza di un uomo”, quando, Antonio, in compagnia del capo carovana, Nagib, osserva il cielo e recita a memoria il salmo ottavo delle Sacre Scritture: “Quanto è grande, Signore, il tuo nome su tutta la terra. / Sopra i cieli si innalza la tua magnificenza. / Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, / la luna e le stelle che tu hai fissate, / che cosa è l’uomo perché te ne ricordi / e il figlio dell’uomo perché te ne curi…” (Nicola Vegro, Antonio segreto, la forza di un uomo, pag. 230- 231, Edizioni Messaggero Padova, 2019). Tra Antonio e Nagib, di fede mussulmana, c’è partecipazione corale al mistero del mondo e della vita.

 

Antonio il francescano

 

Fernando Martins de Bulhȏes (Lisbona, 15 agosto 1195 – Padova, 13 giugno 1231), così si chiama alla nascita il Santo di Padova, è figlio di Maria Teresa Taveira e di Martino Alfonso de’ Buglioni, cavaliere del re e, secondo alcuni, discendente di Goffredo di Buglione. La sua è una nobile famiglia, la cui residenza è a due passi dalla cattedrale, dove il piccolo Fernando viene battezzato. All’età di quindici anni decide di entrare a far parte dei Canonici regolari della Santa Croce del monastero di Sᾶo Vincente de Fora, in Lisbona. Infastidito dalle continue visite di parenti e amici, chiede e ottiene di entrare nel monastero agostiniano di Santa Croce a Coimbra. Qui attende agli studi di Teologia, per prepararsi al sacerdozio. La famiglia appoggia la scelta del figlio in prospettiva della carriera ecclesiastica. Il monastero di Santa Croce poi è una garanzia per il padre, legato com’è a doppia mandata con il re del Portogallo. Il monastero agostiniano infatti è una creatura del regno lusitano. Le attese della famiglia non sono le stesse del giovane novizio, poi sacerdote agostiniano. Mai avrebbe scelto la carriera ecclesiastica. Coltiva però lo studio della Teologia e della sacra Scrittura con passione. Il monastero, seppur retto da un priore molto discutibile, João César, ha i più grandi professori di Teologia, formatisi a Parigi. Possiede una ricca biblioteca, una famosa farmacia, è legata ad una rete di parrocchie che fanno capo ad esso.

 

Il giovane vive tutte le inquietudini che attraversano altri suoi coetanei. Fernando è coetaneo di Francesco d’Assisi (1181/ 82 – 1226) nel quale molti giovani di allora vedono il prototipo da seguire. Il giovane agostiniano Fernando si domanda: “Vedrò il mio Signore?”. I cinque protomartiri, Adiuto, Accursio, Berardo, Ottone, Pietro, frati minori di Assisi venuti in visita al monastero di Coimbra e decapitati in Marocco, gli indicano la strada. Sarà lui a continuare la loro predicazione in terra mussulmana. Matura la decisione di lasciare il monastero agostiniano per scegliere i frati minori di S. Antonio dos Olivais, esperti non di lettere ma testimoni del Vangelo. Fa una scelta radicale. Si stacca in modo definitivo dai genitori, cambiando nome. Da ora in poi si chiamerà Antonio. Si muove per raggiungere il Marocco, città di Marrakech. Il progetto però fallisce. Antonio si trova naufrago lungo la coste siciliane. La barca su cui si era imbarcato si spiaggia a Capo Milazzo. Importante chiedersi in questo naufragio quanto c’è di simbolismo e di attualità validi anche per il nostro presente. Una barca che era destinata a risalire l’Atlantico per ritornare in Portogallo, entra nel Mediterraneo, viene investita da una violenta tempesta e arriva come fasciame in Sicilia.

 

Antonio deve trovare il tempo per metabolizzare il cambiamento che si è rivelato fallimentare. In Sicilia conosce altri frati minori. Risale con loro la penisola e arriva in Assisi dove si sta preparando il capitolo generale dei frati minori, presente Francesco. Il giovane movimento è nella bailamme. I pochi compagni di cammino del Poverello di Assisi, da una manciata che erano, sono presenti sulla collina umbra cinquemila. Il Capitolo è chiamato anche delle stuoie. I cinquemila frati convenuti avevano come riparo soltanto dei tessuti di giunchi o stuoie. Antonio rimane estasiato. Ripassa a memoria quanto gli avevano detto gli amici italiani: “La povertà è la vera ricchezza, perché custodisce e genera l’umiltà e libera dai desideri che legano l’uomo alle cose”. Rimane assorto in preghiera, quando viene chiamato da fratel Graziano, ministro provinciale dei penitenti di Assisi, che lo manda nel piccolo eremo di Montepaolo, in provincia di Forlì. Qui, il giovane sacerdote ricompone la propria vita nella libertà del Vangelo, rinunciando alle proprie pretese. Si sobbarca a tutti i lavori della comunità. Va ad attingere acqua nel pozzo lontano dall’eremo per i bisogni della comunità. Spacca la legna per accendere il fuoco del camino. Coltiva i prodotti dell’orto. Ripara attrezzi da lavoro, ne costruisce di nuovi.

 

Fratel Ireneo lo invita ad aiutarlo nella preparazione di infusi officinali per guarire da ogni genere di mali fisici. Antonio, forte degli insegnamenti avuti dal maestro dei novizi, don Raimondo a Coimbra, aggiunge conoscenza nuove a quelle chi già possiede e diventa per il piccolo eremo una persona estremamente preziosa. Ha dalla sua la grande preparazione teologica e biblica. Non disdegna mai di rendersi utile nel lavare piatti e scodelle, mondare le verdure e cucinare, il tutto fatto nella semplicità. In breve tempo parla correttamente la lingua italiana. Antonio lascia parlare il silenzio dentro di sé, ma coltiva sempre la grande passione per l’annuncio del Vangelo. La sua parola potente scaturisce dai grandi silenzi.

Antonio sostituisce fratel Alberto, indisposto per motivi di salute, nella predica rivolta ad un nutrito numero di nuovi sacerdoti ordinati dal vescovo. Le sue parole toccano il cuore e la mente di tutti i presenti. L’umile “secchiaio” dell’Ordine Francescano diventa in breve il grande predicatore che conquista tutti. Caso? Provvidenza, Progetto? Come interrogare l’episodio della prima predica dove l’umile frate dimostra tutto il suo sapere? Comprende che i minori di Assisi, accanto alla povertà e alla semplicità di vita, devono coltivare lo studio biblico e teologico. Chiede a Francesco di Assisi se può fondare una scuola teologica. Il poverello di Assisi, chiamandolo “Mio vescovo”, lo autorizza a farlo. Diventa il punto di riferimento di tutto l’Ordine Francescano dell’Italia settentrionale. Fonda una scuola teologica presso il convento di Santa Maria della Pugliola per preparare i futuri oratori dell’Ordine dei Minori di Assisi. Alessandro, Aurelio, Biagio, Filippo sono i suoi primi allievi. Alla sua scuola diventeranno degli ottimi predicatori.

 

Antonio Evangelizzatore.

 

Antonio diventa per la Romagna il “Nuovo Giovanni Battista”. Un giorno era a Rimini, città piena di eretici, molti iniziarono a prenderlo in giro, mentre predicava. Il nostro non si scompone. Si dirige verso la spiaggia, dicendo “Poiché vi dimostrate indegni della Parola del Signore, ecco, io mi rivolgerò ai pesci in modo da evidenziare ancora di più la vostra mancanza di fede”. Mentre parlava dell’amore di Dio a quelle creature che vivono nell’acqua, un branco di pesci si avvicinò alla riva, sporgendo le loro teste appena fuori dall’acqua nel gesto di ascoltarlo. Alla fine del Sermone, il Santo li benedisse, ed essi si dispersero. Un altro giorno, Antonio, trovandosi sempre a Rimini, incontra Bonovillo, il capo degli eretici locali. Questi lancia una sfida al predicatore. Avrebbe aderito all’insegnamento della chiesa cattolica, se Antonio lo avesse convinto della vera presenza di Cristo nell’ostia consacrata. Bonovillo rinchiude la propria mula nella stalla per tre giorni e tre notti, senza foraggiarla. Il giorno destinato, la porta in piazza, mettendo davanti alla bestia della biada. Antonio doveva essere presente e porgere all’animale l’ostia consacrata. Se l’avesse preferita al foraggio, Bonovillo si sarebbe convertito. Antonio si avvicina all’animale, porge l’ostia consacrata, la mula si avvicina, si inginocchia e lascia da parte il fieno, preferendo l’ostia.

“A frate Antonio, mio vescovo, frate Francesco augura salute. Mi piace che tu insegni teologia ai nostri fratelli, a condizione però che, a causa di tale studio, non si spenga in esso lo spirito di santa orazione e devozione, com’è prescritto nella regola”. Questo è il biglietto che Francesco d’Assisi fa pervenire nelle mani di Antonio. Questi continua la propria predicazione, spostandosi tra Forlì, Bologna, la Marca Trevigiana, Lombardia e Liguria. La regola di Francesco è rispettata. Accanto alla preghiera e alla devozione, i frati minori si dedicano allo studio della Teologia. In tutta l’Italia settentrionale imperversava il movimento dei Patarini, eresia che si richiamava, con nome diverso, ai Catari. I primi due secoli del nuovo millennio sono attraversati da trasformazioni profonde. Nasce la società urbana e dei Comuni. Vengono innalzate in ogni angolo d’Europa la splendide cattedrali gotiche. Aumenta la produzione agricola. Riprendono i commerci. Nascono nuove classi sociali: artigiani, commercianti, notai, medici, mercanti, banchieri. La borghesia va ad aggiungersi ai cavalieri, al clero e ai nobili. Questi cambiamenti portano inquietudini diffuse. La Chiesa vive dei momenti di crisi profonda. Pietro Valdo (1140 – 1218), Arnaldo da Brescia (1090 – 1155) criticano aspramente la corruzione della chiesa. La loro predicazione fa breccia in larghi strati della popolazione. Antonio di Padova è figlio di questo quadro storico, sociale e religioso.

Verso la fine del 1224, papa Onorio III chiede a Francesco di Assisi di inviare qualcuno dei suoi come missionario nella Francia meridionale, per convertire i catari e gli albigesi. Il poverello di Assisi invia Antonio, che inizia così la propria predicazione in Provenza, Linguadoca e Guascogna. Cerca di capire da vicino l’eresia catara: “I catari disprezzavano la vita: questo era l’abisso L’inconciliabile distanza che separava un cattolico da un cataro. Certo, anche i penitenti di Assisi conducevano lunghi digiuni, ma lo facevano per amore della vita! Ogni fratello si privava di qualcosa di buono, di bello, di comodo, nella convinzione di migliorare il proprio spirito. Per i catari, invece, la privazione era il rifiuto di qualcosa che non valeva la pena di vivere. Ogni cataro esibiva il proprio pallore e disprezzo della vita. Era questo l’uomo nuovo?” (Nicola Vegro, op. cit. pag. 469).

Dopo aver partecipato ai lavori del sinodo di Bourges ( 30 novembre 1225), conclusa la missione romana nella Francia meridionale, Antonio rientra in Italia nel 1230 e si stabilisce a Padova. Trova una città trasformata. La vecchia cinta delle antiche mura viene abbattuta per costruirne di nuove. La popolazione è in continua espansione. Prosperano commerci. Si innalza la nuova cattedrale. L’Università è frequentata da giovani che provengono da ogni parte dell’Italia e d’Europa. Tutti parlano di progresso inarrestabile, ma c’è anche l’altra faccia della medaglia. Molti commercianti si rivolgono al Banco dei Pegni, chiedendo dei prestiti. L’usura dilaga. Molti, non riuscendo a pagare i debiti, marciscono nelle carceri cittadine. Antonio non si dà per vinto. Accanto alla predicazione e alla missione papale nella Marca Trevigiana, mette mano alla composizione e riordino dei Sermoni, l’opera omnia del Santo Patavino

 

Incontra il podestà di Padova, l’illustrissimo Stefano Badoer che manifesta interesse verso di lui e lo accoglie a palazzo. Riunito il Gran Consiglio, su richiesta del venerabile frate Antonio, il podestà presenta una legge che abolisce il carcere a vita per i debitori insolventi (Statuti 17 marzo 1231). La legge viene approvata. Il nome di fratello Antonio corre sulla bocca di tutti. La città è in festa ma solo per poco. Era accaduto che due figli del podestà erano stati catturati e fatti prigionieri dal peggiore dei nemici, Ezzelino da Romano, il più spietato dei tiranni. Nei secoli, città, terre e popolazioni cadute sotto il suo potere, non avevano mai conosciuto un despota più crudele. Fratel Antonio si reca, come ambasciatore, dal tiranno e con fare risoluto chiede la liberazione dei due prigionieri. Anche Ezzelino da Romano si piega davanti all’autorità morale dell’uomo. I due prigionieri vengono riportati dal padre.

 

Antonio è un uomo sfinito. Soffre da tempo, dalla fallita missione in Marocco, di insufficienza cardiaca congestizia. Trascorre gli ultimi giorni della propria vita in un piccolo eremo, fatto costruire dal conte Tiso VI da Camposampiero. Muore il 13 giugno 1231, alle porte della città di Padova, nei pressi del luogo dove ora si trova il Santuario dell’Arcella, attorniato dai suoi confratelli: Ruggero, Luca, Vinotto, che hanno portato con loro un enorme masso di pietra. Fratel Antonio aveva promesso a se stesso che mai più avrebbe riposato su un cuscino di piume. Luca adagia sul petto dell’amato maestro tre candidi gigli, i fiori preferiti dal confratello. Prima di emettere l’ultimo respiro, si dice che abbia detto: “Vedo il mio Signore”.

 

Nell’ultima parte della relazione, padre Luciano Bertazzo si è soffermato su ciò che Sant’Antonio di Padova lascia a noi. E’ chiamato “Pater Padue”. La Basilica di Sant’Antonio, quasi una nuova Gerusalemme, richiama un’architettura agiografica. Sant’Antonio di Padova è il “discipulus egregius” di San Francesco d’Assisi. Rimane la grande dimensione taumaturgica. Non c’è santo più conosciuto in ogni angolo del mondo.

 

La lettura, ad opera di Emilia Bacaro, di un altro brano preso dai Sermoni, l’inno a Sant’Antonio “O dei Miracoli”, voce solista: Maria Cristina Domenella, le risposte date dal relatore alle domande poste da alcuni dei presenti hanno chiuso la serata.

 

Raimondo Giustozzi

 

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