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Libri Michael J. Sandel, La tirannia del merito Perché viviamo in una società di vincitori e di perdenti

9788807897719_0_536_0_75“L’ideale meritocratico non è un rimedio alla disuguaglianza; è una giustificazione della disuguaglianza. Chi lavora sodo e gioca secondo le regole avrà successo e sarà capace di elevarsi socialmente e professionalmente: è un’idea molto radicata su entrambe le sponde dell’Atlantico. Se tutti hanno le stesse opportunità, allora chi emergerà grazie ai propri sforzi o alle proprie capacità se lo sarà meritato. Se invece non riuscirà ad emergere, la responsabilità sarà soltanto sua. È questo il lato oscuro dell’età, chiamata del merito, una retorica dell’ascesa che le élite, anche quelle che pretendono di interpretare la tradizione della sinistra, hanno scelto come soluzione ai problemi della globalizzazione, voltando di fatto le spalle a chi non fa parte dell’élite.

In una società nella quale l’uguaglianza delle opportunità rimarrà sempre una chimera, il contraccolpo populista degli ultimi anni è stato una rivolta contro la tirannia del merito, che è umiliante e discriminatoria. Il filosofo Michael Sandel dimostra che dobbiamo imparare da questa ondata populista non per ripeterne gli slogan xenofobi e nazionalisti, ma per prendere sul serio le richieste legittime che ne sono all’origine” (Michael J. Sandel, la tirannia del merito. Perché viviamo in una società di vincitori e di perdenti, quarta pagina di copertina, Universale Economica Feltrinelli / Saggi, Milano 2023).

Una delle tante risposte, disseminate nel testo, alla tirannia del merito, è riportata nell’ultima pagina del saggio: “La convinzione meritocratica che le persone meritino qualsiasi ricchezza il mercato conferisca ai loro talenti rende la solidarietà un progetto quasi impossibile. Per quale ragione chi ha successo deve qualcosa ai membri meno avvantaggiati della società? La risposta a questa domanda dipende dal riconoscimento del fatto che, pur con tutti i nostri sforzi, noi non ci auto – realizziamo e non siamo autosufficienti; ritrovarci in una società che premia i nostri talenti è la nostra fortuna, non è quanto ci è dovuto. Un vivo senso di contingenza della nostra sorte può ispirare una certa umiltà: Se non fosse per la grazia di Dio o per accidente della nascita, o per il mistero del destino, sarei io al suo posto. Un’umiltà come questa è l’inizio della via del ritorno dalla dura etica del successo che ci separa. Va oltre la tirannia del merito, verso una meno rancorosa e più generosa vita pubblica” (Ibidem, pag. 228).

Questi termini: Grazia, nascita, destino, umiltà, hanno ancora valore? Vengono coltivati nella vita sociale, nelle scelte politiche e nella vita quotidiana delle persone? Viviamo in una società di vincitori e di perdenti perché non si è fatto abbastanza per colmare le differenze e di fare propri in politica e nell’economia gli appelli che vengono da lontano: “Se una società libera non può aiutare i molti che sono poveri, non può salvare i pochi che sono ricchi” (J. F. Kennedy). Non si è voluto aiutare nessuno, perché secondo una mentalità diffusa ognuno è artefice del proprio destino. Nella ricca e opulenta società americana e nelle democrazie più avanzate dell’Occidente, solo in pochi hanno tratto benefici dalla globalizzazione tanto decantata e presentata all’inizio e in corso d’opera come il rimedio di tutti i mali. Il risultato è che forme di governo autoritarie, fondate sulla repressione di ogni forma di dissenso, contrastano, a livello globale, la democrazia e la libertà di pensiero.

Il saggio di Michael J. Sandel, la tirannia del merito, consta di 284 pagine, con un prologo, un’introduzione, 7 capitoli declinati in piccoli paragrafi di diversa lunghezza, una conclusione, note al testo, un indice analitico e i ringraziamenti. Nell’introduzione, ampio spazio viene riservato al sistema che l’autore definisce “Porta sul retro”, l’ammissione cioè nei grandi college americani per la frequenza di prestigiosi master post laurea, che garantiscono il conseguimento di meriti da spendere sul mercato del lavoro. Avviene che una grossa donazione, fatta da ricche famiglie americane a qualche università prestigiosa, è il lasciapassare per i propri figli, anche se poco qualificati, per essere ammessi. La vecchia storia del Pierino del dottore di milaniana memoria dura a morire, anzi, secondo il parere di chi scrive, non morirà mai.

Nel primo capitolo, Vincitori e perdenti, l’autore sviluppa il tema attraverso sei piccoli paragrafi: Diagnosticare il malcontento populista, tecnocrazia e globalizzazione amica del mercato, la retorica dell’ascesa, l’etica meritocratica, la politica dell’umiliazione, merito tecnocratico e giudizio morale, la rivolta populista. Il secondo capitoloGreat because good” (ottimo perché buono). Una breve storia morale del merito viene declinato in otto paragrafi: perché il merito conta, una meritocrazia cosmica, salvezza e auto – aiuto, il pensiero provvidenzialistico: allora e adesso, salute e ricchezza, provvidenzialismo liberal, la parte giusta della storia, l’arco dell’universo morale.

La retorica dell’ascesa è il titolo del terzo capitolo, con gli otto paragrafi: Impegnarsi e meritare, mercati e merito, la retorica della responsabilità, fin dove il tuo talento ti porterà, ottenere ciò che si merita, reazione populista, ce la puoi fare se ci provi? Vedere e credere. Il quarto capitolo: Credenzialismo. L’ultimo pregiudizio accettabile è declinato in dieci paragrafi: Usare come armi le credenziali al college, l’istruzione come risposta alla disuguaglianza, il migliore e il più brillante, la cosa intelligente da fare, le élite che guardano in basso, governare sulla base della laurea, il divario determinato dalla laurea, il dibattito tecnocratico, tecnocrazia contro democrazia, il dibattito sul cambiamento climatico.

L’etica del successo è il titolo del quinto capitolo con quindici piccoli paragrafi: Meritocrazia contro aristocrazia, il lato oscuro della meritocrazia, meritocrazia ripensata, una meritocrazia perfetta sarebbe giusta? Ci meritiamo i nostri talenti? Lo sforzo ci rende meritevoli? Due alternative alla meritcrazia, rifiutare il merito, mercati e merito, il valore del mercato contro il valore morale, meritevoli e titolati, gli atteggiamenti verso il successo, il caso e la scelta, valorizzare il talento, l’ascesa della meritocrazia. Il sesto capitolo La macchina selezionatrice si articola nei seguenti quindici paragrafi: Il colpo di stato meritocratico di James Conant, indizi della tirannia del merito, l’eredità meritocratica di Conant, i punteggi del SAT tracciano la ricchezza, la meritocrazia consolida la disuguaglianza, perché i college d’élite non sono motori di mobilità sociale, rendere più equa la meritocrazia, la selezione e l’assegnazione della stima sociale, vincitori feriti, ancora salti mortali, tracotanza e umiliazione, una lotteria di qualificati, smantellare la macchina selezionatrice, la gerarchia della stima, castigare la tracotanza del merito.

Dare riconoscimento al lavoro è il titolo del settimo capitolo con otto brevi paragrafi: L’erosione della dignità del lavoro, morti per disperazione, fonti di risentimento, ripristinare la dignità del lavoro, il lavoro come riconoscimento, giustizia contributiva, il dibattito sulla dignità del lavoro, “Maker” e “taker” (ordini che forniscono liquidità e ordini che sottraggono liquidità). Il merito e il bene comune è il titolo delle conclusioni del saggio, con due paragrafi: Oltre l’uguaglianza di opportunità, Democrazia e umiltà. Ogni capitolo meriterebbe una recensione, tanto sono profonde e indicative le argomentazioni portate dall’autore a sostegno della propria tesi. La tirannia del merito. Il saggio andrebbe letto da ogni insegnante, dirigente scolastico, imprenditore, sindacalista, ma anche semplice cittadino che desidera crescere nella propria sovranità di essere libero.

Spigolature

Il saggio descrive ampiamente le trasformazioni della società americana degli ultimi trent’anni ma anche delle società più evolute dell’occidente europeo, dalla Gran Bretagna alla Germania con qualche riferimento alla Francia, ma del tutto assente l’Italia. Lo slogan: “L’America è grande perché l’America è buona” nasconde il concetto che “La grazia di Dio non è un dono non guadagnato ma qualcosa che noi meritiamo e che abbiamo di fatto ottenuto. L’equilibrio tra merito e grazia non è facile da sostenere. Dai puritani ai predicatori del vangelo della prosperità, l’etica del guadagnare e del conseguire ha esercitato un fascino pressocché irresistibile, minacciando sempre di scavalcare l’etica più umile della speranza e della preghiera, della riconoscenza e del dono. Il merito scaccia la grazia, oppure la ridisegna a propria immagine, come qualcosa che meritiamoL’arco dell’universo morale può tendere verso la giustizia, ma Dio aiuta quanti si aiutano” (pag. 63).

“Tutti gli americani hanno il diritto di essere giudicati unicamente in base al merito individuale e di andare proprio là dove li porteranno i loro sogni e il duro lavoro”. Ronald Regan aveva iniziato ad usare lo slogan in America, Margaret Thatcher l’aveva usato nel Regno Unito. Col tempo si affermava di qua e di là dell’Atlantico la retorica della responsabilità, senza tener conto dell’assenza di regole, che animavano il mercato mondiale in tempi di globalizzazione. Si cavalcava anche la retorica dell’ascesa per ottenere ciò che si merita. Per sfortuna di Hillary Clinton, nel 2016, la retorica dell’ascesa perse la sua capacità di ispirare Donald Trump, il candidato che la sconfisse. Durante la campagna elettorale Trump non parlò mai di mobilità sociale verso l’alto o della convinzione che gli americani potessero salire fin dove li avrebbero portati i loro talenti e il loro duro lavoro. L’antipatia populista per le élite meritocratiche, unita ad un populismo diffuso, in qualche caso macchiato anche di xenofobia e di razzismo e di ostilità verso il multiculturalismo, ridisegnò un nuovo quadro politico (pp. 76- 77).

“La tirannia del merito deriva da qualcosa che va oltre alla retorica dell’attesa. Consiste in un complesso di atteggiamenti e di circostanze che, messi assieme, hanno reso tossica la meritocrazia. Primo: reiterare, in condizioni di dilagante disuguaglianza e di mobilità sociale bloccata, il messaggio che noi siamo responsabili per il nostro destino e meritiamo ciò che otteniamo erode la solidarietà e demoralizza quanti sono lasciati indietro dalla globalizzazione. Secondo: insistere che una laurea al college è la via primaria per un impiego rispettabile e per una vita decente crea un pregiudizio fondato sulle credenziali che mina la dignità del lavoro e sminuisce quanti non sono stati al college. Terzo: insistere che i problemi sociali e politici vengono risolti al meglio da esperti con un’istruzione superiore e neutrali rispetto ai valori è un concetto tecnocratico che corrompe la democrazia e toglie potere ai cittadini comuni” (pag. 78).

Nonostante il sogno americano contrasti con i fatti, si ha la tendenza, scrive l’autore, è importante non renderlo noto; meglio preservare il mito, in modo che le persone continuino a credere che sia possibile salire fin dove le porteranno i loro talenti e il loro duro lavoro. Ciò trasformerebbe il sogno americano in quella che Platone descriveva come una “nobile menzogna”, una credenza che, sebbene sia falsa, sostiene l’armonia civica inducendo i cittadini ad accettare come legittima una certa disuguaglianza. Nel caso di Platone, era il mito secondo cui Dio aveva creato le persone con metalli differenti nelle loro anime, attribuendo una ratifica divina a un assetto in cui una classe di guardiani guidati da un re – filosofo governa la città. Nel caso americano, potrebbe trattarsi del mito secondo cui in America, nonostante il divario considerevole tra ricchi e poveri, persino quanti stanno in basso possono farcela se ci provano (pp. 82- 83).

Altro criterio coltivato per emergere, soprattutto quando si concorre per occupare un ruolo pubblico importante, è quello di esibire nei luoghi che contano le proprie credenziali. Anche queste spesso sono comprate, né corrispondono a meriti o a talenti particolari. “Governare bene richiede saggezza pratica e virtù civica, l’abilità di deliberare per il bene comune e di perseguirlo con efficacia. Ma oggi nessuna di queste capacità viene sviluppata molto bene nella maggior parte delle università, anche in quelle con la reputazione più alta. L’esperienza storica recente suggerisce una scarsa correlazione tra la capacità di giudizio politico, che implica sia qualità morale sia intuizione e l’abilità di ottenere un buon punteggio ai test standardizzati e nel vincere l’ammissione alle università d’élite. L’idea che il migliore e il più brillante faccia meglio al governo dei propri concittadini con meno credenziali è un mito prodotto dalla tracotanza meritocratica” (pag. 104).

Retorica dell’ascesa e tecnocrazia

La retorica dell’ascesa con la sua attenzione univoca all’istruzione come risposta alla disuguaglianza, è in parte da biasimare. Costruire delle politiche attorno all’idea, che un diploma di laurea al college è la condizione per un lavoro dignitoso e per la stima sociale, ha un effetto corrosivo sulla vita democratica. Svilisce il contributo di quanti non hanno una laurea, alimenta il pregiudizio contro i membri meno istruiti della società e, di fatto, esclude la maggior parte dei lavoratori dal governo rappresentativo, provocando una reazione populista” (pag. 109). Anche il dibattito pubblico a favore della tecnocrazia (potere alla tecnica), presentato come una questione di “intelligente contro stupido”, fatto proprio dall’amministrazione Obama, ha portato a grosse difficoltà: “Uno dei difetti dell’approccio tecnocratico alla politica è che pone il processo decisionale nelle mani delle élite, togliendo così il potere ai cittadini comuni. Un altro difetto è che rinuncia al progetto della persuasione politica. Incentivare le persone ad agire in modo responsabile – per il risparmio energetico, per il controllo del proprio peso o per il rispetto di pratiche etiche di business – non è soltanto un’alternativa a costringerle; è anche un’alternativa a persuaderle” (pag.113).

Prima di ogni progetto tecnocratico occorre costruire la fiducia dei cittadini verso il potere, verso la moralità di chi amministra il bene di tutti: “Uno dei fallimenti delle élite meritocratiche dotate di ottime credenziali è che non pongono queste questioni al centro del dibattito politico. Ora, mentre ci ritroviamo a domandarci se le norme democratiche sopravvivranno, le lamentele sulla tracotanza delle élite meritocratiche e sulla ristrettezza della loro visione tecnocratica possono apparire futili. Ma la loro è stata la politica che ha portato fin qui, che ha prodotto il malcontento sfruttato dall’autoritarismo populista. Affrontare i fallimenti della meritocrazia e della tecnocrazia è un passo indispensabile per risolvere quel malcontento e per reimmaginare una politica del bene comune” (pag.17).

L’etica del successo, basato sui meriti acquisiti, ha fatto della meritocrazia il centro attorno al quale, negli ultimi decenni, sono state fatte precise scelte politiche, con scarso riconoscimento degli aspetti negativi: “Anche di fronte a una diseguaglianza sempre più profonda, la retorica dell’ascesa ha fornito ai partiti del centro sinistra e del centro destra il lessico principale del processo morale e del miglioramento politico. Coloro che lavorano sodo e giocano rispettando le regole dovrebbero essere in grado di salire fin dove il loro talento li porterà. Le élite meritocratiche si sono talmente abituate a intonare questo mantra da non accorgersi che stava perdendo la sua capacità di ispirare. Sorde ai risentimenti crescenti da parte di coloro che non avevano condiviso il bottino della globalizzazione, non hanno colto il sentimento di malcontento. La reazione populista le ha prese alla sprovvista. Non hanno colto l’insulto implicito nella società meritocratica che stavano offrendo” (pag.158).

“Sconfiggere la tirannia del merito non significa che il merito non dovrebbe avere alcun ruolo nell’assegnazione dei posti di lavoro e dei ruoli sociali. Significa piuttosto ripensare il modo in cui concepiamo il successo, per mettere in discussione l’idea meritocratica secondo cui chi sta in cima ce l’ha fatta da solo. E significa affrontare le disuguaglianze nella ricchezza e nella stima che vengono difese in nome del merito ma che alimentano il risentimento, avvelenano la nostra politica e creano tra noi divisioni. Questo ripensamento dovrebbe focalizzarsi sui due ambiti della vita più centrali nella concezione meritocratica del successo: l’istruzione e il lavoro. Sono i temi sviluppati nel sesto e nel settimo capitolo” (pag.157). La macchina selezionatrice attraverso la quale scegliere chi dovesse entrare nei prestigiosi college americani per frequentare esclusivi master post laurea fu pensata da James Conant, questo per mettere all’angolo e rovesciare l’élite ereditaria per sostituirla con una nuova élite, quella meritocratica. Lo strumento della selezione fu la predisposizione di Test che misurassero, attraverso domande vero / falso, scelte multiple, a completamento, le conoscenze indispensabili in ogni ambito lavorativo. “La visione meritocratica di Conant era egualitaria nel senso che voleva aprire Harvard e altre università d’élite agli studenti più talentuosi del paese, per quanto modesto fosse il loro retro – terra sociale ed economico. In un’epoca in cui i college erano dominati da famiglie con privilegi consolidati, era un’ambizione nobile. Ma Conant non si preoccupava di estendere l’accesso all’istruzione superiore. Non voleva aumentare il numero di studenti che frequentavano il college; voleva semplicemente garantire che quanti lo frequentassero fossero davvero i più capaci” (pag. 163).

La meritocrazia consolida la disuguaglianza. I favoritismi verso i giovani delle boarding school (collegi privati) dell’alta borghesia si sono rarefatti nel corso degli anni sessanta e settanta, così come la consuetudinaria ammissione ai college della Ivy League (le migliori università degli Stati Uniti) di qualsiasi figlio poco qualificato Gli standard accademici sono migliorati e i punteggi medi dei SAT (Scholastic Assessment Test), test di ingresso, sono aumentati. I college d’élite non sono comunque motori di mobilità sociale, tanto che si auspica di rendere più equa la meritocrazia (pp. 169- 174). “Riparare i danni causati dalla macchina selezionatrice richiede di più rispetto all’aumento delle risorse per la formazione professionale. Richiede di ripensare al modo in cui valutiamo i diversi tipi di lavoro. Un modo per iniziare è quello di smantellare la gerarchia della stima che accorda maggiore onore e prestigio agli studenti iscritti ai college e alle università di fama anziché a quelli iscritti ai community college (centri di formazione professionali) o ai programmi di formazione tecnica e professionale. Imparare a diventare un idraulico o un elettricista o un igienista dentale dovrebbe essere rispettato come un prezioso contributo al bene comune, non considerato come un premio di consolazione per coloro che non hanno ottenuto i punteggi SAT o non hanno i mezzi finanziari per entrare alla Ivy League” (pag. 193).

Per ultimo occorre castigare la tracotanza del merito: “Il più potente rivale del merito, dell’idea che noi siamo responsabili della nostra sorte e meritiamo ciò che otteniamo, è l’idea che il nostro destino sovrasta il nostro controllo, e che siamo in debito per il nostro successo e pure per i nostri problemi nei confronti della grazia di Dio, o dei caprici della fortuna o del colpo di fortuna alla lotteria … Vivere con l’idea che non abbiamo nessun ruolo nell’essere salvati nell’aldilà o nell’avere successo in questo mondo è difficile da conciliare con l’idea di libertà e con la convinzione che noi otteniamo ciò che meritiamo. Ecco perché il merito tende a scacciare la grazia; prima o poi, quanti hanno successo rivendicano – e arrivano a credere – che il proprio successo sarà grazie al proprio agire, e che quanti sono lasciati indietro lo sono perché meno meritevoli di loro. Ingeneroso verso i perdenti e opprimente per i vincitori, il merito diventa un tiranno” (pag. 195). Ma dire questo è andare ben oltre quanto sostiene il borioso di turno quando cita a sproposito la favola della volpe e dell’uva.

Altra grande operazione culturale da fare è dare dignità al lavoro. Dal 1979 al 2016, il numero dei posti di lavoro nel settore manifatturiero degli Stati Uniti è sceso da 19,5 milioni a 12 milioni. La produttività è aumentata, ma i lavoratori hanno raccolto una quota sempre più piccola di ciò che producevano, mentre i dirigenti e gli azionisti una più grossa. Alla fine degli anni settanta, gli amministratori delegati delle principali aziende americane guadagnavano 30 volte di più del lavoratore medio; nel 2014, 300 volte di più. Ma le difficoltà economiche non sono l’unica fonte del loro malessere. L’era meritocratica ha anche inflitto ai lavoratori un danno ancora più insidioso: l’erosione della dignità del lavoro. Valorizzando i cervelli necessari a un buon punteggio ai test di ammissione al college, la macchina selezionatrice svilisce quanti non hanno credenziali meritocratiche. Dice loro che il lavoro che svolgono, meno apprezzato dal mercato rispetto a quello di professionisti ben pagati, è un contributo minore al bene comune, e quindi meno degno di riconoscimento e stima sociali. Legittima le laute ricompense che il mercato concede ai vincitori e l’esigua paga che offre ai lavoratori senza un diploma di laurea al college. Questo modo di ragionare su chi merita che cosa non è moralmente difendibile” (pp. 198 – 199).

La perdita del lavoro, la stagnazione dei salari, la selezione meritocratica, la globalizzazione, hanno portato al risentimento verso le élite, aumentato il malcontento e portato al populismo. Nel corso degli anni sono aumentati i suicidi per disperazione, morte per droga, consumo di alcol. “L’editorialista del New York Times, Nicholas Kristof, scriveva che ogni due settimane muoiono per disperazione più americani di quanti ne siano morti durante i diciotto anni di guerra in Afganistan e in Iraq. L’aumento delle morti per disperazione si registra per lo più tra quanti non hanno una laurea universitaria. Coloro che hanno una laurea quadriennale ne sono esenti; a essere più a rischio sono quelli senza una laurea” (pag. 201).

Attraverso il lavoro l’uomo “realizza se stesso come uomo, anzi, in un certo senso diventa più uomo e intende il proprio lavoro anche come incremento del bene comune elaborato insieme con i suoi compatrioti” (Giovanni Paolo II, Sul lavoro umano, Lettera Enciclica, 1981). Un’economia politica incentrata soltanto sulla dimensione e sulla distribuzione del Prodotto Interno lordo (PIL) mina la dignità del lavoro e contribuisce a un impoverimento della vita civile. Scriveva Robert F. Kennedy: “La fratellanza, la comunità, il patriottismo condiviso, questi valori essenziali della nostra civiltà non derivano unicamente dall’acquisto e dall’insieme dei beni di consumo. Derivano invece da un impiego dignitoso retribuito con una paga decente, il tipo di impiego che permette a un uomo di dire alla sua comunità, alla sua famiglia, al suo paese e, soprattutto, a se stesso: Ho contribuito a costruire questo paese. Partecipo alle sue grandi imprese” (pp. 213- 214).

“Pochi politici oggi parlano così. Nei decenni che seguirono a Robert F. Kennedy, i progressisti abbandonarono in gran parte la politica della comunità, del patriottismo e della dignità del lavoro, per offrire invece la retorica dell’ascesa. A quanti si preoccupano della stagnazione dei salari, della delocalizzazione, della disuguaglianza e della paura che immigrati e robot venissero a prendersi il loro lavoro, le élite al potere offrirono consigli rincuoranti: andate al college. Preparatevi a competere e a vincere nell’economia globale. Quello che guadagnerete dipenderà da quello che riuscirete a imparare. Potete farcela se ci provate. Questi erano ideali adatti a un’epoca globale, meritocratica, guidata dal mercato. Lodava i vincitori e insultava i perdenti. Nel 2016, il suo tempo era scaduto. L’arrivo della Brexit e di Trump, e l’ascesa in Europa di partiti iper- nazionalisti e anti – immigrati, annunciarono il fallimento del progetto. La domanda ora è quale potrebbe essere un progetto alternativo” (pag. 214).

Il lavoro di ognuno deve sempre essere messo a denominatore comune, per costruire assieme a tutti il senso della comunità. Oggi siamo ad una svolta: “La selezione meritocratica ci ha insegnato che il nostro successo è frutto del nostro agire, e così ha eroso il nostro senso di essere in debito. Ora siamo nel bel mezzo del vortice di rabbia che questo scioglimento ha prodotto. Per ripristinare la dignità del lavoro, non possiamo non riparare i legami sociali che l’era del merito ha rovinato” (pag. 223).

Michael J. Sandel insegna Teoria del governo a Harvard. Ogni anno migliaia di studenti frequentano Justice, il corso da cui è nato Giustizia. Il nostro bene comune, pubblicato da Feltrinelli nel 2010. Oltre che negli Stati Uniti, Sandel ha tenuto lezioni in Europa, Cina, Giappone, India e Australia ed è stato visiting professor alla Sorbona. Fra i suoi libri pubblicati da Feltrinelli: Il liberalismo e i limiti della giustizia (1994) e Quello che i soldi non possono comprare. I limiti morali del mercato (2013).  (Quarta pagina di copertina del libro: La tirannia del merito …).

Raimondo Giustozzi

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