
Fonte internet
di Arianna Marchente
LA NECESSITÀ DI RIPROPORRE LA QUESTIONE DERRIDIANA DELL’EVENTO
“Le numerose immagini e parole che possediamo – fotografie, filmati, registrazioni
audio testimonianze scritte – di questo evento (…) rivelano l’impossibilità di
rappresentare l’evento e la sua enormità”: attraverso queste parole Belpoliti (2005: 50)
esprime bene l’irrappresentabilità di quanto è accaduto l’11 Settembre.
Un fatto balza subito all’occhio di chi ha vissuto gli attentati che l’11 settembre
2001 hanno colpito l’America, quando si ferma a osservare l’arco degli ultimi dieci
anni: ogni cosa a partire da quella data sembra essere cambiata. A seguito dell’11
settembre infatti si è parlato di un nuovo equilibrio internazionale, di un nuovo modo
di concepire lo straniero, di nuove forme culturali (si è proposta una nuova forma
estetica letteraria e rappresentativa che insegue il tentativo di esprimere attraverso
l’arte ciò che di fatto non può essere espresso). È dunque avvenuto un cambiamento
che non ha investito solo gli ambiti pubblici istituzionali, ma ha anche e soprattutto
toccato quegli aspetti che riguardano la sfera sociale e culturale che sono
indissolubilmente legati alla vita quotidiana di ogni singolo individuo.
Il mondo si è così confrontato con un mutamento particolare: non graduale e
settoriale, ma radicale e omnicomprensivo che ha prodotto una condizione di forte
instabilità.
L’effetto principale di questa instabilità è stato il consolidarsi della tendenza,
iniziata proprio allora, a considerare ciò che è avvenuto dieci anni fa come un major
event, un evento storico in piena regola. Tuttavia questa definizione risulta essere per
certi versi sbrigativa e ingenua: muoversi all’interno del campo semantico dell’evento
richiede infatti estrema cautela.
Oggi la ricorrenza del decennale degli attentati terroristici del 2001, come spesso
accade quando si ha a che fare con le date, è un’occasione per commemorare ma
anche per ripensare a quanto è accaduto, con l’obiettivo di sviluppare una nuova
consapevolezza capace di sfidare e ridefinire le categorie linguistiche abitualmente
utilizzate per definire l’evento.
Cogliere questa occasione con uno sguardo filosofico significa allora porsi un
interrogativo preciso: l’11 Settembre è oppure non è un major event? La risposta a
questa domanda richiama un ulteriore interrogativo che un’approfondita riflessione
sulla realtà non può non sollecitare: che cos’è un evento e che cosa ha diritto di
ricadere sotto questo termine?
Nel panorama filosofico contemporaneo nessuno più di Jacques Derrida ha
affrontato in maniera diretta questi due interrogativi, partendo da una solida teoria
filosofica sull’evento, tema che svolge un ruolo centrale nella riflessione derridiana,
soprattutto nel suo lavoro più recente.1
Quello dell’evento è un pensiero complesso, strettamente legato ad altri due
concetti fondamentali per Derrida: il possibile e l’impossibile. In altri termini si può dire
che, attraverso la riflessione sull’evento, Derrida abbia voluto decostruire i concetti
classici di possibilità e impossibilità, riferendosi in particolare al trascendentale
kantiano. Nella logica tradizionale del quotidiano l’evento è comunemente definito
come qualcosa che si limita ad accadere in un orizzonte di possibilità, quindi come una
possibilità tra le altre di cui si può avere esperienza Derrida invece ribalta questa
concezione e arriva a sostenere che si può parlare di evento solo a condizione che
accada l’impossibile.
Quando ciò che si si manifesta è semplicemente una possibilità prevista, quando
ciò che si sviluppa è un programma, allora non si può parlare di evento. L’evento è
qualcosa di totalmente inatteso, che genera una sorpresa assoluta, lacera l’orizzonte di
attesa e di pre-comprensione, trascende qualsiasi sorta di programma o di sviluppo
teleologico. “Una quercia senza ghianda” (Derrida 1975: 134), ossia una quercia che
non lascia intravedere alcuno sviluppo teleologico che dalla ghianda avrebbe
1 Si è spesso tentato di distinguere due fasi all’interno della riflessione derridiana: una prima fase
dedicata allo sviluppo di tematiche strettamente teoretico-filosofiche, e una seconda fase, più tarda,
dedicata a tematiche etico-politiche. Stando a questa distinzione dunque il pensiero sull’evento
dovrebbe appartenere alla seconda fase del lavoro derridiano. In realtà una tale distinzione non è
attendibile: nel pensiero di Derrida non si possono rintracciare rotture, ma solo una continuità in via di
sviluppo. A riprova di ciò è sufficiente osservare come la legge che sottostà al concetto stesso di evento,
vale a dire la legge dell’impossibilità come condizione di possibilità, è in realtà presente in nuce fin dalla
prima opera del filosofo francese, Introduzione a L’origine della geometria di Husserl (Derrida 1987),
dove viene sviluppata in relazione al problema della costituzione del senso. Si può quindi affermare che
“la predilezione per le tematiche etico-politiche non solo non segna una rottura o un cambiamento di
rotta che configurerebbe un ‘secondo Derrida’ da contrapporre al primo, ma rappresenta una
radicalizzazione destinata della pratica decostruttiva (Di Martino 2001: 164).
condotto ad essa: con questa immagine, in uno dei suoi più recenti contributi, Derrida
sottolinea l’impossibilità dell’evento.
Un evento previsto è già presente, già presentabile, è già arrivato e neutralizzato
nella sua irruzione. (…) Im-prevedibile, un evento degno di questo nome non
deve soltanto eccedere ogni idealismo teleologico, ogni astuzia della ragione
teleologica che dissimuli a se stessa ciò che può capitarle e che può colpire la sua
ipseità in modo autimmunitario – ed è la ragione stessa che ci ordina di dirlo,
lungi dal lasciare questo pensiero dell’evento abbandonato a qualche oscuro
irrazionalismo. L’evento deve annunciarsi come im-possibile; deve quindi
annunciarsi senza prevenire, annunciarsi senza annunciarsi, senza orizzonte
d’attesa, senza telos senza formazione, senza forma o preformazione teleologica.
Di qui il suo carattere sempre mostruoso, impresentabile, e mostrabile come
immostrabile. (…) L’evento di un’invenzione tecnoscientifica per esempio, se reso
possibile da un insieme di condizioni di cui si può rendere conto e che si possono
identificare o determinare in modo saturabile (…), esso allora non è più
un’invenzione o un evento. (Derrida 2003: 204)
L’evento dunuqe è posto sotto l’egida di questo im-possibile che lungi dal
significarne la negazione è invece ciò che apre le porte al suo stesso accadere nel suo
essere irriducibile alla mera possibilità, nel suo essere quindi più che semplicemente
possibile, possibile in quanto impossibile.
Più precisamente l’evento non dovrebbe essere definito come impossibile ma
come come “l’impossibile, la figura stessa dell’impossibile” (Derrida 1996: 9). Questo
vuol dire che è imprevedibile, totalmente inaspettato, a-teleologico e soprattutto che
non è possibile averne quell’esperienza intuitivo-fenomenologica in cui solitamente
consiste il nostro rapporto con il mondo. Dell’evento non si può avere esperienza
diretta perché non appare mai come tale, non si fa mai oggetto cognitivo o
fenomeno. Appare senza apparire, si manifesta senza manifestarsi. Beninteso, ciò non
significa in alcun modo che all’evento corrisponda una non-esperienza. Si può averne
un tipo particolare di esperienza, quella dell’impossibile che si configura come un atto
di pensiero e che Derrida tenta di spiegare facendo riferimento alla “dialettica
trascendentale di Kant, come rapporto tra il pensare e il conoscere, il noumenico e il
fenomenico” (ivi: 32). In quest’ottica l’evento si pone in qualche modo sullo stesso
piano del noumeno kantiano che non può essere esperito o conosciuto ma può e deve
essere pensato.
L’evento è dunque questo più che possibile, questo impossibile che sorprende,
che irrompe in maniera “mostruosa” e smisurata, che eccede non solo le possibilità del
mondo, ma anche le nostre stesse possibilità e capacità: noi non possiamo conoscerlo
perché non disponiamo di concetti che siano in grado di adattarsi ad esso, non lo
possiamo rappresentare né tantomeno nominare perché non abbiamo significati che
siano in grado di descriverlo. Davanti all’evento ci mostriamo deboli: anche il
linguaggio, che da sempre la filosofia ha ritenuto essere il tratto distintivo della
superiorità umana, deve dichiarare la sua impotenza. Quest’ultimo punto è
particolarmente importante; proprio perché eccedente l’evento intrattiene, alla
stregua di tutti i concetti fondamentali del pensiero derridiano, un rapporto
particolare con il linguaggio: non è nominabile, non è mai completamente esprimibile
attraverso la parola perché è qualcosa che non si può dominare, di cui non ci si può
appropriare.
L’EVENTO E L’11 SETTEMBRE
Inappropriabile, imprevedibile, inconoscibile eppure pensabile in quanto figura
dell’impossibile. Questa definizione richiama una domanda cruciale: quando, nella
realtà che ci circonda, si può dire di avere avuto esperienza dell’impossibile, di aver
assistito a un evento in senso derridiano? Da questo punto di vista i grandi
avvenimenti storici dell’attualità, offrono l’occasione di pensare in modo nuovo alla
problematica dell’evento nel pensiero di Derrida, perché permettono di considerarla in
rapporto a ciò che l’individuo ha vissuto in prima persona, ossia come un mezzo per
rendere conto dell’oggi, “di ciò che di singolare succede oggi” (Derrida 1997: 96),
rilanciando così quello che per Derrida è e deve essere il compito ineludibile di ogni
pensiero filosofico che possa dirsi responsabile.
Mosso da questa intenzione Derrida, che si trovava a New York a pochi giorni di
distanza dall’11 Settembre 2001, accetta di lasciarsi intervistare da Giovanna Borradori,
professoressa presso il Vassar College, da sempre interessata all’analisi filosofica di uno
dei lati più inquietanti del nostro “oggi”: il terrorismo. Guidato dalle domande della sua
intervistatrice, Derrida cerca di rendere conto di quanto è accaduto quel giorno negli
Stati Uniti, impegnandosi in una riflessione filosofica complessa che si sviluppa
attraverso due concetti fondamentali: l’evento e l’autoimmunità.
Giovanna Borradori decide di aprire l’intervista con questa domanda: l’11
settembre, che ci ha tanto dato l’impressione di essere un major event, può davvero
essere considerato come un evento in senso derridiano? La risposta a questo
interrogativo non può essere semplice, univoca e lineare, perché conduce dentro il
pensiero dell’evento che si impone a noi come complesso, tortuoso, impossibile.
È indubbio, dice il filosofo francese, che l’11 settembre abbia dato, a chi l’ha
vissuto, l’impressione di essere un major event. Tuttavia l’evento e la sua impressione
non sempre coincidono e quindi è importante soffermarsi sulla natura di questa
credenza che si è sviluppata in noi, cercando di capire da dove essa sia scaturita. Più
precisamente non bisognerebbe parlare di un’unica impressione, bensì di due
impressioni diverse, indissolubilmente intrecciate che sarebbero legate a due
differenti processi di produzione.
Da una parte l’impressione legata all’impatto emotivo di questo avvenimento
sulle persone che vi hanno assistito: un sentimento privato all’interno del quale la
compassione incondizionata e la tristezza infinita nei confronti delle vittime
divengono un’intensa esperienza soggettiva che porta a ritenere di avere assistito a un
evento.
Dall’altra parte l’impressione pubblica: quella filtrata, interpretata, prodotta da
quel sistema tipico di ogni società contemporanea che è costituito dalla retorica
linguistica e visiva dei giornali e di tutti i sistemi di comunicazione in generale. Questo
tipo di impressione induce l’opinione pubblica alla credenza (Derrida usa qui una
terminologia appositamente empirista) di aver assistito ad un major event.2 Quando si
parla dell’11 settembre infatti non è possibile evitare di prendere in considerazione
l’importante ruolo giocato dai sistemi di comunicazione: ciò che è accaduto quel
giorno è stato fotografato, ripreso e raccontato da tutti i giornali e le reti televisive del
mondo. La diretta mediatica costante e l’istintiva fiducia che la sete di informazioni
suscita ha indotto ad attribuire un valore di verità alle immagini mostrate che
sembravano essere in tutto e per tutto rappresentative di un evento storico.3
Ma la diretta mediatica è davvero pura, trasparente, sincera? Mostra davvero
l’attualità così come essa accade nel mondo? Se così fosse allora potremmo affermare
senza esitazioni che l’11 settembre è un evento, ma le cose stanno diversamente.
Secondo Derrida la diretta non è mai completamente pura, ma è sempre un “effetto di
diretta” (Derrida and Stiegler 1997: 42), ossia è sempre il prodotto di una scelta, di una
selezione del reale: ciò che vediamo è frutto di una certa angolazione, di un certo
interesse o di un certo punto di vista. Quello si può sapere del nostro tempo, del
contesto entro cui ognuno di noi vive, non è mai dato in modo puro, semplice e
diretto, ma è sempre prodotto, “continuamente trasformato, nella struttura e nel suo
contenuto, dalla tecnologia di ciò che chiamiamo così confusamente informazione o
comunicazione” (Ib.: 3). Non bisognerebbe dunque parlare di “attualità”, ma di
2 Più precisamente Derrida parla di una “valutazione che ci fa credere che si tratti di un major
event. La credenza, il fenomeno del credito e dell’accreditamento, ecco una dimensione essenziale della
valutazione, persino della datazione, ovvero dell’inflazione compulsiva della quale parliamo” (Derrida e
Borradori 2003: 97).
3 Mettendo in rilievo l’artificiosità dell’attualità causata dai grandi mezzi di comunicazione,
Derrida non intende però condannarli o metterne in luce unicamente i lati negativi. Se è vero infatti che
possono ingannarci inducendoci a credere a qualcosa che di fatto non è accaduto è anche vero che
mezzi come il telefono, internet e soprattutto i giornali, sono la condizione di possibilità di
quell’opinione pubblica che a sua volta è alla base della coscienza democratica. “Il giornale garantisce
un luogo di visibilità pubblica atto a informare, formare, riflettere o esprimere, dunque a rappresentare
una opinione pubblica che ci troverebbe lo spazio della sua libertà” ( Derrida 1991: 73).
artefattualità,4 per sottolineare che l’oggi, l’attuale non sono altro che prodotti
artificiali. Vi è quindi una vena passiva dell’attualità, che non si dà, ma viene creata,
lavorata: gli avvenimenti singolari e contingenti di cui essa è composta sono in realtà
creazioni, e questa è una delle ragioni per cui è così difficile stabilire quando sia
davvero possibile parlare di evento. La macchina dell’interpretazione e della
tecnologia produce quasi sempre pseudo eventi che non sono tali ma danno
semplicemente l’impressione di esserlo. Nonostante ciò Derrida richiama l’attenzione
sul fatto che la consapevolezza della natura artefattuale dell’oggi non deve portare ad
assumere un atteggiamento ingenuo che liquida tutto ciò che accade come finzione o
non evento. É vero infatti che l’impressione di un evento è in parte prodotta e quindi
non del tutto veritiera, ma è altrettanto vero che non è possibile separare
completamente un evento dalla sua impressione: una credenza scaturisce sempre da
una determinata origine e non si sviluppa mai a partire da se stessa.
Da questo punto di vista dunque sembra esserci in ciò che è accaduto l’11
settembre qualcosa dell’evento, tesi che sembra essere confermata dal modo stesso in
cui ci si riferisce linguisticamente a quanto è accaduto. Come si è infatti già osservato
l’evento intrattiene un rapporto particolare con il linguaggio: non è mai
completamente esprimibile attraverso una parola perché in quanto “figura
dell’impossibile” (Derrida 1996: 9) eccede tutte le nostre capacità ed è qualcosa di cui
non ci si può appropriare. Il fatto stesso di nominare l’attentato terroristico del 2001
mediante una data, un deittico, una metonimia, esprime bene la mancanza di mezzi,
l’incapacità di spiegare veramente ciò a cui si è assistito, l’impossibilità di
appropriazione e di comprensione nei confronti di qualcosa che ha terrorizzato e che è
fin da subito sembrato trascendere la realtà. Il linguaggio dichiara così la sua
impotenza:
In verità l’indice puntato su questa data, la denominazione nuda e cruda, il
deittico minimale, ovvero la mira minimalista di questa datazione significa anche
altre cose. Che cosa? Ebbene che forse non disponiamo di nessun concetto e
nessun significato per chiamare altrimenti questa cosa che è appena accaduta,
questo supposto “evento”. (…) “Qualche cosa” ha avuto luogo, abbiamo la
sensazione di non averla vista arrivare ed è una “cosa” a cui fanno seguito
innegabilmente delle conseguenze. Ma anche questo, il luogo e il significato di
questo “evento” rimangono ineffabili come un’intuizione senza concetto,
un’unicità senza generalità all’orizzonte, persino senza orizzonte, quasi fosse al di
là della portata di un linguaggio che confessa così la propria impotenza e,
infondo, si limita a pronunciare meccanicamente una data, a ripeterla come una
sorta di incantesimo rituale e al tempo stesso un poema di scongiuro, una litania
4 Afferma Derrida: “Schematicamente due caratteristiche designano ciò che costituisce (fait)
l’attualità in generale. Potremmo arrischiarci a dargli due soprannomi-baule: l’artefattualità e
l’attuvirtualità” (Derrida & Stiegler 1997: 3).
giornalistica, un ritornello retorico che confessa di non sapere di cosa stia
parlando. (Derrida e Borradori 2003: 94)
Grazie a questa constatazione di carattere linguistico la domanda con cui Giovanna
Borradori ha aperto l’intervista sembra aver trovato una risposta affermativa: stando a
quanto si è detto fin qui infatti l’11 settembre sembra essere a tutti gli effetti un
evento. Ma è proprio a questo punto che Derrida si sofferma su una questione decisiva
che mette in crisi il cammino precedentemente compiuto. La caratteristica per
eccellenza dell’evento infatti è quella di essere totalmente imprevedibile, inatteso, di
lacerare non solo l’orizzonte di possibilità ma anche e soprattutto quello di attesa, di
produrre cioè una sorpresa assoluta. L’attentato terroristico del 2001 invece tradisce
proprio questo principio di imprevedibilità dell’evento: “non era impossibile prevedere
l’attacco sul territorio americano, da parte di quelli che vengono chiamati terroristi”
(Derrida e Borradori 2003: 99) e questo per due ragioni fondamentali. In primo luogo
perché non era la prima volta che si tentava di colpire le Torri Gemelle attraverso un
attentato terroristico, e tutto ciò che non accade per la prima volta può essere sempre
ripetuto e quindi atteso e previsto. In secondo luogo perché, proprio in quanto si
riteneva possibile un attacco contro la potenza statunitense, sono stati creati degli
organismi, quali la Cia e l’FBI, appositamente costituiti per prevedere ed evitare gli
attentati. In questo senso risulta dunque impossibile affermare che quanto è accaduto
sia propriamente un evento.
Ma se è vero che l’11 Settembre non può essere considerato in tutto e per tutto
un major event è altrettanto vero che non si può nemmeno negare che in esso vi sia
qualcosa dell’evento e questo anche perché, come afferma Derrida “ogni volta che
qualcosa accade, e anche nella più banale esperienza quotidiana, c’è una parte
d’evento e di singolare imprevedibilità: ogni istante segna un evento, come anche
tutto ciò che è altro, ogni nascita e ogni morte” (Ib.: 99). Per rispondere davvero agli
interrogativi che sono stati posti bisogna dunque cercare di comprendere quale sia la
“parte di evento” presente all’interno degli avvenimenti del 2001, bisogna
circoscriverla, perché solo così sarà possibile identificare la causa dell’impressione
evenemenziale che noi tutti abbiamo avuto e la sua reale portata. Derrida ritrova
questa “parte di evento” in quella che egli stesso definisce “la legge implacabile che
regola ogni processo autoimmunitario” (ivi: 102). Affinché sia dunque possibile
proseguire lungo la strada percorsa dal filosofo francese è necessario abbandonare la
questione dell’evento da cui il pensiero sull’11 Settembre ha preso le mosse e
prendere invece in considerazione quella dell’autoimmunità, che è la marca
fondamentale dell’oggi.
LA NATURA AUTOIMMUNITARIA DELL’11 SETTEMBRE: IL SUICIDIO SIMBOLICO DEL MONDO
Derrida cerca di spiegare ciò che si intende con il termine “autoimmunità”
soprattutto in Fede e sapere (Derrida e Vattimo 1995). L’autoimmunità viene qui
spiegata a partire dal suo opposto, ossia dal termine “immunità”. La coppia di termini
“immunità” e “autoimmunità” si colloca nell’orizzonte semantico della biologia e si
riferisce in primis all’organismo. Se immune è l’organismo indenne, cioè quello puro e
non contaminato, e l’immunità è la capacità che un organismo ha di mantenersi puro,
difendendosi dai pericoli esterni, l’autoimmunità si configura invece come una sorta di
paradossale immunità elevata alla seconda potenza. Essa consiste infatti nel processo
tramite cui l’organismo distrugge le sue stesse difese per proteggersi da quelle cellule
che gli sono proprie, ma che egli riconosce erroneamente come estranee. Questa
perversa autoimmunità, a partire da una portata strettamente biologica, può essere
poi estesa ad altri campi, come quello religioso e politico e poi, via via, a tutta la realtà
contemporanea. Per questo Derrida parla di una “logica generale
dell’autoimmunizzazione” (Derrida e Vattimo 1995: 48). Nella sua portata generale
questa logica consiste in una tendenza suicida del vivente (che qui coincide con la
politica e gli equilibri internazionali), in una eccedenza della vita che, nella sua
eccessiva premura e preoccupazione, finisce con il rivoltarsi contro se stessa, o meglio,
in una pulsione di morte in senso freudiano che abita il vivente sempre e
costantemente.
Proprio l’attentato terroristico dell’11 settembre 2001 rappresenta un esempio di
questa logica autoimmunitaria: Derrida lo definisce appunto come un triplice suicidio.
Più precisamente si dovrebbe parlare di un suicidio reale che rimanda a un duplice
suicidio metaforico, cioè quello di un paese e quindi del mondo, relativamente
all’assetto politico internazionale e culturale che si sarebbe stabilito a seguito della
Guerra Fredda. Al termine della Guerra Fredda, infatti, è stato attribuito un ruolo
particolare agli Stati Uniti, i quali sono divenuti garanti di tutto l’ordine mondiale, non
solo da un punto di vista politico-militare, ma anche da un punto di vista culturale
(almeno per quanto riguarda l’occidente). Ora, il fatto stesso che sia stata colpita la
potenza garante dell’ordine mondiale, è di per sé un sintomo di autoimmunità.
Tuttavia ciò che rende questa azione ancor più allarmante e paradossale è il fatto che
essa sia, in un certo senso, avvenuta dall’interno. Non solo gli stessi Stati Uniti hanno
fornito le armi all’Afghanistan, ai tempi della Guerra Fredda, per combattere contro
l’URSS, ma l’azione è avvenuta ad opera di immigrati che hanno preso le loro armi in
suolo statunitense e sempre lì hanno imparato a usarle. Si tratta quindi di un vero e
proprio suicidio, sia in senso letterale che in senso metaforico. Un suicidio in senso
letterale perché, come solitamente accade nella logica dell’attentato kamikaze, alcune
persone si sono tolte la vita. Un suicidio in senso metaforico e simbolico perché non si
tratta semplicemente di aver mosso un attacco alla potenza statunitense, ma,
attraverso di essa, è stato colpito il mondo intero nel suo cuore militare e commerciale
e il mondo occidentale nel suo apparato concettuale. Osserva Derrida:
Al di là degli stessi Stati Uniti, il mondo intero si sente oscuramente colpito da
un’effrazione che non è soltanto presentata, in quanto effrazione, come senza
precedenti nella storia (la prima violazione del territorio degli Stati Uniti dopo
quasi da quasi due secoli – in ogni caso questo è il fantasma che prevale da
sempre), ma come un’effrazione di tipo nuovo. Di che tipo? (…) Questa effrazione
viola il territorio di un paese che anche agli occhi dei suoi nemici, e soprattutto
dalla così detta “fine della Guerra Fredda”, gioca un ruolo virtualmente sovrano tra
gli stati sovrani. E dunque il ruolo di garante o di tutore dell’ordine mondiale.
(Borradori e Derrida 2003: 102)
Come tutti i processi autoimmunitari anche quello dell’11 settembre ha prodotto un
effetto traumatico, solo che in questo caso il trauma ha assunto una dimensione
temporale ben diversa da quella che assume normalmente. Di solito un evento
traumatico è considerato tale relativamente al passato e al presente: il momento
passato può essere riattivato nel presente tramite il ricordo. Nel caso dell’11 settembre
questo schema temporale va complicato e va necessariamente aggiunto anche il
futuro: ciò che spaventa chi ha vissuto questo avvenimento non è tanto il passato,
nemmeno il presente, ma il fatto che qualcosa di più grande, ancora più doloroso e
traumatizzante possa accadere. Il trauma maggiore è quello del futuro: se con questa
data si è conclusa definitivamente la Guerra Fredda perché si sono rotte quelle forze
che sancivano l’equilibrio che essa aveva prodotto, ora non resta che aspettarsi
qualcosa che sia “peggio della Guerra Fredda” (Ib.: 104). Derrida sostiene che quando
si ha a che fare con la sensazione che il peggio sia ancora a-venire, allora si ha
automaticamente un lutto senza rielaborazione, una ferita che rimane costantemente
aperta. E ciò che rende questa minaccia costante così terribile è il fatto che, a
differenza della Guerra Fredda, essa non proviene da un nemico identificabile, ma da
forze anonime, non individuate e quindi, per forza di cose difficilmente gestibili.5
Ecco dunque che cos’è accaduto l’11 settembre 2001: non un major event in
piena regola, ma un avvenimento all’interno del quale è possibile scoprire una “parte
di evento”. Seppur piccola questa parte risulta enormemente importante nella misura
5 Per certi versi infatti il terrorismo è la forma di conflitto mondiale che si adatta ai cambiamenti
geopolitici che interessano l’epoca in cui viviamo e a cui Derrida è solito riferirsi non con il termine di
“globalizzazione” ma con quello di “mondializzazione”. Ciò che caratterizza la mondializzazione è prima
di tutto un mutamento del concetto stesso di politica, che non si mostra più legata al luogo e al confine
territoriale, perché a causa dello sviluppo inaudito delle tele-tecno-scienze (tecnologie come l’email, il
fax, il telefono) si eliminano le distanze spaziali e temporali e quindi anche le differenze culturali: non ci
sono più Stati o Nazioni, ma c’è un concetto di mondo che si sta mondializzando. Il terrorismo in quanto
guerra senza luogo, in cui il nemico non ha volto né provenienza, sembra appunto assecondare quella
“dislocazione dei luoghi” (Derrida and Stiegler 1997: 20) che caratterizza il nostro mondo.
in cui mostra la legge autoimmunitaria che regola l’andamento del mondo in cui
viviamo e sancisce in qualche modo la fine di un’epoca, quella della Guerra Fredda,
aprendo le porte a ciò che ancora resta a-venire. La paura nei confronti di questo avenire
che si è aperto è ciò che costituisce l’aspetto traumatico dell’11 settembre. Ma
cosa davvero ci spaventa? in che cosa potrebbe consistere questo “peggio” che deve
ancora arrivare?
Nell’arco dell’intervista Derrida fornisce una risposta anche a questo interrogativo.
Ciò che ci spaventa non è, come abbiamo già visto, la possibilità che quanto è
accaduto si ripeta, ossia l’insorgere di nuovi attacchi terroristici, ma l’idea che una
forma completamente nuova di conflitto internazionale possa stabilirsi. Per quanto a
prima vista il terrorismo sembri essere la guerra della nuova epoca che si sta aprendo,
in realtà esso rimane ancora assimilabile al concetto arcaico di una guerra grande,
visibile, disastrosa e dirompente. Ciò emerge se si pensa a come la guerra sarà ancora
destinata a modificarsi nei prossimi decenni, soprattutto grazie allo sviluppo delle
nanotecnologie e della biologia. Derrida tratteggia a questo proposito le linee di una
sorta di “guerra a-venire”: una guerra silenziosa, priva di morti, che attraverso
tecnologie nuove e microscopiche riuscirà a colpire il cuore economico di una nazione
distruggendola in modo irreparabile. Una guerra senza guerra: ecco cosa ci spaventa,
ci teorizza e ci porta a pensare che “un giorno si dirà: l’11 settembre accadde ancora ai
vecchi tempi dell’ultima guerra, quando le cose erano ancora nell’ordine del
gigantesco” (Ib.:109).
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