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Hitchcock e Hunter. Uccelli tra un grande regista e un grande scrittore

Fonte Internet

Fonte Internet

di Valerio Calzolaio

Sessant’anni fa il sommo maestro del cinema Alfred Hitchcock (1899 – 1980) decise di fare un film con protagonisti migliaia di uccelli ostili ai sapiens, una sfida complicata senza tutte le tecnologie evolutesi nei decenni successivi, sfida per sceneggiatori e produttori, attori e attrici, per i tecnici e per se stesso. Il 18 agosto 1961 vi era stata un’invasione di uccelli marini “impazziti” sopra molte residenze della costa californiana, a Capitola e Santa Cruz; era successo in minor misura anche l’anno precedente; continuava a venir fuori che lì vicino corvi attaccavano agnelli e il regista si era tenuto costantemente informato sulle varie vicende. Anni prima era uscito il bel testo di Daphne du Maurier (1907 – 1989), The Birds (1953); dalla grande scrittrice inglese Hitchcock aveva già tratto ispirazione per un film del 1940 premiato con due Oscar, tra cui quello per miglior film; l’omonimo amatissimo capolavoro Rebecca, la prima moglie era stato pubblicato nel 1938.

Il regista era già un personaggio mitico non solo in patria (con permanenti frequentazioni italiane, specie sul lago di Como), Psycho era stato il grande successo più recente. Dichiarò di aver letto il racconto sugli uccelli in una di quelle raccolte seriali a lui intitolate, appunto “Alfred Hitchcock racconta” e di aver saputo che tanti volevano adattarlo per la radio o la televisione, senza riuscirci.

Visto che non si faceva riferimento ad avvoltoi o uccelli da preda, bensì ai tranquilli comuni uccelli di tutti i giorni, decise di provarci, cominciando a pensare ai trucchi o fotomontaggi necessari e concentrandosi sui gabbiani. Sapeva che l’aggressività dipendeva da una malattia (studi scientifici parlarono poi di avvelenamento amnesico da molluschi, di consumo di acido domoico) ma non approfondì, decise anzi di non motivare le azioni rabbiose degli uccelli per accentuare l’inedito effetto straniante sugli spettatori. Non siamo nel campo della distopia, lo stridio riguarda la mente umana contemporanea, pur se l’occasione e il pericolo che inducono l’introspezione vengono dal contesto vitale non umano: una moltitudine di minacciosi uccelli appollaiati ci scruta.

 

Il racconto letterario di Daphne du Maurier era pure ispirato ad accadimenti reali e aveva una trama abbastanza circoscritta ed elementare: è la storia via via più inquietante del rapporto fra una famiglia sulla costa inglese, i genitori e due figlioletti, con stormi di numerosi volatili. Dapprima gli umani osservano le stagionali abitudini stanziali e migratorie. Poi il ritmo diventa drammatico e incalzante, rispetto all’irrequietezza delle varie specie di uccelli, che crescono di numero e appaiono sempre più pericolosi e aggressivi, senza che se ne capisca le ragioni. Il capofamiglia percepisce in loro l’istinto di distruggere l’umanità “con l’abile precisione delle macchine”, insomma si parla del rapporto tendenzialmente cruento fra noi e altre specie animali apparentemente inoffensive, come metafora del nostro rapporto antropocentrico e ambivalente col resto della natura.

 

 

Hitchcock realizzò una splendida opera cinematografica sulla stessa materia, con un’ambientazione californiana e una trama articolata piena di metafore: la storia inizia a San Francisco e si sviluppa poi sulla baia, a Bodega Bay; per una buona parte siamo di fronte a una commedia, concentrata sul reciproco lento corteggiamento fra un sarcastico seducente avvocato e una ricca viziata ragazza, per il tramite del regalo alla sorella di lui di due “love birds” (canarini o pappagallini, che si rivelano buoni fino in fondo); mostra presto un’altra possibile faccia di (altri) uccelli, una sanguinosa beccata in fronte, qualche attacco ai bambini, l’ingresso in casa per il camino, fino al configurarsi in varie cittadine di una vera e propria aggressione violenta di incontrollabili uccelli “assassini”, descritta dalla radio, prima che saltino i collegamenti e la drammaturgia claustrofobica si dedichi solo alla fattoria dove fratello, sorellina, madre e ospite sono assediati. Terrore a comando in scena, tensione allo stato puro e occhi sbarrati in sala.

 

La prima del film avvenne il 28 marzo 1963, fu accolto maluccio dalla critica, entusiasticamente dal pubblico; nei primi mesi di proiezioni incassò oltre 11 milioni di dollari, nei decenni successivi è stato sempre più ammirato come un meraviglioso tragico poema antropologico. La realizzazione fu lunga e accurata, come sempre per Hitchcock. Il regista voleva presentare un fantasioso costrutto intellettuale, non una narrazione realistica; si ingegnò alla grande affinché il pubblico fosse scosso e non riuscisse mai a indovinare la scena successiva (anche il finale è aperto). Tralasciamo qui le difficoltà e i contrasti nelle riprese (gli uccelli beccavano davvero, fra l’altro), l’addestramento protetto degli animali viventi (oltre a quelli meccanici o a cartone animato), i tanti effetti comunque speciali, i fondali quasi tutti dipinti, la guida certosina di attori non noti, la sperimentale colonna sonora (a partire dai battiti d’ali), i costi alti e crescenti, il cameo con i cani al guinzaglio. Concentriamoci sul soggetto. Tutti i personaggi (anche l’ex del fratello) e le loro relazioni non c’erano nel testo letterario, sono invenzioni dello sceneggiatore, un maestro della scrittura alta che, non a caso, ebbe rapporti laboriosi con Hitchcock, parliamo dell’eccelso Evan Hunter.

 

Quando Hunter nacque a Manhattan il 15 ottobre 1926 si chiamava Salvatore Albert Lombino, famiglia originaria dell’italiana Lucania profonda, figlio di un postino, tre nonni italiani su quattro. Ben presto decise di voler fare lo scrittore e divenne definitivamente tutto americano. Mai parlato italiano per la contrarietà della madre, terminati il biennio militare e gli studi universitari artistici, dopo decine di racconti firmati rifiutati, nel 1953 cambiò ufficialmente nome e scelse lo pseudonimo con il quale aveva pubblicato le prime quattro “prove” pulp e noir con piccole case editrici, per l’appunto Evan Hunter. Il nuovo bravissimo romanziere pubblicò un primo capolavoro già nel 1954, The Blackboard Jungle, Il seme della violenza; le sue innovazioni e la relativa riduzione cinematografica meritano una storia a sé; il film fu addirittura ritirato dalla prima al festival di Venezia per un intervento censorio dell’allora ambasciatrice Luce.

 

Hunter cominciò, comunque, a guadagnare abbastanza, e presto moltissimo, grazie a Ed McBain, lo pseudonimo scelto nel 1956 per la celeberrima serie poliziesca dell’Ottantasettesimo Distretto. Dopo il 1960 il vero nome anagrafico restò per decenni solo nella vita privata e nelle occasioni della letteratura “alta” (nell’insieme 25 opere); inventò altri personaggi, anche fissi (come l’avvocato Matthew Hope, in 13 avventure), e adottò pure altri pseudonimi per i libri di genere giallo (quasi venti romanzi); i lettori di Hunter (non pochi) e di McBain (innumerevoli, in tante lingue) si sono quasi sempre ignorati, sia in patria che all’estero; a fine carriera giocò spesso con i due autori che lo rappresentavano davanti ai lettori. Morì il 6 luglio 2005 a Weston in Connecticut. Negli ultimi anni il comune di Ruvo del Monte in provincia di Potenza ha promosso varie attività su Lombino-Hunter, fra l’altro realizzando coraggiosamente nell’estate 2019 l’ottima traduzione e l’edizione italiana dell’autobiografico Streets of Gold (1974), Le strade d’oro, dedicato al nonno italiano Giuseppantonio Coppola, narrato in prima persona in forma romanzata.

 

La serie dei 55 gran bei libri (e molto altro) dedicati all’87° Distretto di Isola (all’incirca Manhattan ruotata di novanta gradi) costituisce fin dal principio una notevole e acclarata svolta nella storia della miglior letteratura di genere giallo-noir-mystery-policier-Kriminal, o comunque la si voglia chiamare, non solo americana. McBain consolida la regola dell’incipit con il morto ucciso, introduce per la prima volta un protagonista investigatore collettivo, la squadra di poliziotti a coppie, con poi tutti gli abituali riti del genere noir: molti colori della pelle rappresentati fra di loro, la tattica complice del buono e cattivo, pecore nere pure fra i buoni tutori della legge; inoltre, cattivi di ogni risma e obiettivo intorno a famiglia-potere-denaro, gerarchie interne e lotta di classe esterna, una serialità mai ripetitiva su ogni accidente delle esistenze metropolitane. Soprattutto, risulta alta letteratura: la scrittura è magnifica, vividi i paesaggi urbani e i climi stagional-meteorologici, lo stile secco ma denso di umori, sapori, colori, odori, visioni. Se non lo avete mai letto, non è mai troppo tardi per iniziare.

 

Fra Hitchcock e Hunter non poteva che esserci un rapporto turbolento e arricchente. Ovviamente, il regista ne ha parlato sempre poco, Hunter gli ha dedicato, invece, molti commenti e un grazioso libro (quando l’altro era già morto), significativamente intitolato Me and Hitch! Il volumetto uscì nel 1996 (l’anno dopo in Italia, Hitch e io. Scrivere film per Alfred Hitchcock) e costituisce una sorta di autocoscienza sul contrastato rapporto. Il primo incontro fra i due risaliva al 1959, l’ultimo fu egualmente cordiale, pochi anni dopo, a cena con consorti, a un tempo distante dalla rottura artistica. Alternando lettere e digressioni, ricordi appuntati e dialoghi memorizzati, stralci di sceneggiature e spunti di autobiografia, scadenze di lavoro e pasti conviviali, sempre con arguta sintesi, ci viene raccontato un organico spaccato dei rapporti fra un datore di lavoro di circa 62 anni e uno stipendiato di circa 33, entrambi famosi e benestanti (l’uno più, l’altro in quel momento molto meno), entrambi bravi ed egocentrici, nella Hollywood schiavistica dello studio-System.

 

In quell’agosto di sessant’anni fa l’affermato cineasta britannico-californiano Hitchcock chiese al giovane qualificato romanziere newyorkese Hunter di scrivere la sceneggiatura degli Uccelli di Daphne du Maurier, prendendo dal racconto solo il titolo e l’idea, mantenendo tuttavia arte e rispettabilità. Hunter-McBain aveva già curato la trasposizione cinematografica di alcuni suoi romanzi e di tre episodi di “Alfred Hitchcock presenta”. Per Gli Uccelli Hitch ebbe sempre da ridire su tutto e, comunque, Hunter non uscì infine contento né del finale né dell’intera prima visione. Pur essendo ancora abbastanza giovane e parzialmente inesperto, non era la prima volta che aveva a che fare con le riduzioni cinematografiche di testi letterari, ma un conto era un testo suo o lo schema di telefilm, un conto il compito contrattuale di partire da scritti altrui per un’attesa nuova grande opera di un mito. Hunter ebbe affidato un incarico anche per il successivo film di Hitchcock, Marnie (1964), con la medesima attrice protagonista Tippi Hedren. Già il primo maggio 1963 fu bruscamente sostituito, il prodotto uscì l’anno dopo con brutte recensioni (e Hunter non ne gioì), la collaborazione professionale finì lì. Memorabile.

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