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Libri. Gianpaolo Romanato, Giacomo Matteotti un italiano diverso. “Hanno ucciso un uomo. / Cieca è la mano che uccide”.

9788830107854_0_536_0_75di Raimondo Giustozzi

Il saggio di Gianpaolo Romanato, Giacomo Matteotti un italiano diverso, si aggiunge ai tanti libri, mostre, convegni, volti a ricordare il sacrificio dell’onorevole Giacomo Matteotti, assassinato dal Fascismo il 10 giugno di cent’anni or sono (1924 – 2024). L’autore, in realtà, dedica solo poche pagine al rapimento, all’uccisione e al ritrovamento del cadavere, al funerale del deputato socialista seguito da circa diecimila persone, secondo la cronaca che ne faceva, nel proprio diario, Pio Mazzucchi, il ricco possidente di Castelguglielmo. “Colpito dal tragico destino dell’uomo che aveva sempre osteggiato, ne scrisse questa volta con sincera commozione, probabilmente avendo partecipato di persona al funerale. Il diario, compresa la pagina” – riportata nel saggio – “è rimasto inedito, confinato tra le sue carte, fino al 1995. verosimilmente, si tratta della più fedele descrizione del funerale” (Gianpaolo Romanato, Giacomo Matteotti un italiano diverso, pag. 272, Giunti Editore S.P.A. /Bompiani, marzo 2024, Firenze – Milano).

La prima edizione di questo libro apparve nel 2011 presso un altro editore e andò rapidamente esaurita. Questa nuova edizione amplia e approfondisce ciò che avevo scritto sulla base della cospicua bibliografia apparsa nel frattempo e delle riflessioni che ho tratto. Ho preferito non variare il titolo, ma l’opera dalla quale ora mi congedo è per molte ragioni un libro nuovo e non un semplice aggiornamento del precedente” (Gianpaolo Romanato, introduzione, pag. 21, op. cit.). Il sottotitolo della presente recensione è di chi scrive. Sono due versi di Rafael Alberti dedicati alla tragica morte di Salvador Allende: “Hanno ucciso un uomo. / Cieca la mano che uccide. / Cadde ieri, ma il suo sangue / già oggi stesso si innalza”. Hanno ucciso Giacomo Matteotti. Stolti e insensati. Uccidendolo hanno creato un mito. “Uccidere un mito è molto più difficile che uccidere un uomo” (Gianpaolo Romanato, pag. 278; op. cit.). Hanno ucciso Alexei Navalny o hanno fatto del tutto perché morisse in una sperduta prigione russa. Le dittature passano. I miti restano. Terrorista è chi elimina il proprio avversario politico, non la vittima. “Sventurata la terra che ha bisogno d’eroi” (Bertold Brecht).

Il saggio di Gianpaolo Romanato su Giacomo Matteotti si segnala per la fedele ricostruzione storica dell’ambiente sociale in cui il giovane Matteotti inizia la propria militanza nel partito socialista. Nasce a Fratta Polesine il 22 maggio 1885. Il Polesine è il territorio situato tra il basso corso del fiume Adige, a Nord e del fiume Po, a Sud. Si estende per circa cento chilometri di lunghezza per venticinque di larghezza; è una porzione della più vasta regione veneta e fa parte della provincia di Rovigo. Confina ad Ovest con la provincia di Mantova, a Sud con quella di Ferrara, ad Est con il Mare Adriatico. Un mese prima che nascesse Giacomo Matteotti, il 29 aprile del 1885, si era conclusa l’inchiesta di Stefano Jacini (1826- 1891) sulle “condizioni della classe agricola in Italia” promossa dal parlamento e dal governo nel 1877. La relazione finale per quanto riguarda il Polesine fu stesa da Emilio Morpurgo (1836- 1885), parlamentare e professore di statistica all’Università di Padova, coadiuvato da Carlo Bisinotto per la provincia di Rovigo.

Le condizioni di vita in cui viveva la maggior parte della popolazione contadina erano desolanti. Nei comuni di Villamarzana, Arquà, Castelguglielmo, Polesella, vicini a Fratta Polesine, le case sono definite “tane e topaie”, mentre nell’entroterra veneziano si parla di “canili”. “La convivenza forzata, anche sei o sette persone in una stessa stanza, e la necessità di dormire non solo nello stesso locale, ma spesso nello stesso letto – genitori, figli, fratelli, sorelle – rendeva gli incesti tutt’altro che infrequenti. L’ufficiale sanitario di Cittadella, attualmente un fiorente centro industriale a nord di Padova, segnalava all’inizio del Novecento almeno un paio di casolari definiti vergognosi bugigattoli dove, in una convivenza raccapricciante, si stipavano uomini, polli, suini, che vengono a disputare il cibo ai loro padroni e tolgono l’ossigeno e l’aria”. Imperversavano malaria e tubercolosi.

La Difesa del Popolo”, un settimanale cattolico padovano, nel 1910, conduceva una memorabile battaglia contro i “casoni”, sorta di tuguri a una sola stanza con il pavimento in terra, le pareti formate da un’intelaiatura di legno spalmata di creta e una copertura di paglia e fogliame al posto del tetto, al centro del quale c’era la via d’uscita dei fumi del focolare. Adolfo Rossi (1857 – 1921), nato in una borgata contigua a Fratta Polesine, Valdentro di Lendinara, giornalista, scrittore, pubblicava, nel 1889, sulla Tribuna di Roma, alcune corrispondenze dal Polesine dove emergeva chiaramente, senza infingimenti, con una prosa sobria, lontanissima da quella paludata in auge su altri giornali del tempo, tutto l’inferno in cui viveva tutta la popolazione. Il degrado materiale e morale lo si percepisce con il dialogo continuo che ha con parroci e medici condotti del posto. Il giovane Giacomo Matteotti, figlio di una famiglia agiata, conosce da vicino la fame, la povertà dei contadini. Fa subito una scelta. Si batterà fino alla morte, perché quella popolazione abbia una vita migliore.

Tutto il primo capitolo del saggio: “Una provincia dimenticata. Il Polesine tra povertà e ribellione”, declinato in sei paragrafi di diversa lunghezza, delinea il quadro storico, sociale e materiale del Polesine dall’Unità d’Italia fino al primo decennio del Novecento. Questi i sei paragrafi del primo capitolo: Il contadino veneto (pp. 23 – 26), le incredibili corrispondenze dal Polesine di Adolfo Rossi (pp. 26- 33), alluvioni, rivolte, emigrazione (pp. 33- 40), le precarie condizioni geografiche, sociali e politiche della provincia (pp.40- 48), gli amari commenti di Emilio Morpurgo (pp. 48- 53), il Polesine che cambia: dalle bonifiche alle leghe contadine (pp. 53- 63). Se esiste nella storia d’Italia un territorio, che sintetizza tutti i passaggi tra il vecchio e il nuovo, questo è senz’altro il Polesine che si andava “trasformando in un’arena ribollente, dove il vecchio e il nuovo, la conservazione e il progresso si scontravano quotidianamente e generavano contrasti sempre più accesi. La lotta incessante fra socialisti e cattolici, le due forze del rinnovamento, con i socialisti in posizione di netto predominio, si dispiegò lungo il primo ventennio del Novecento, infiammando le piazze e riempiendo le cronache dei giornali. Poi, dopo la guerra, entrò in scena il fascismo, il terzo attore sul palcoscenico provinciale. È in questo senario di scontro tra disperazione e privilegio, conservazione e rivoluzione, speranze e delusioni, legalità e illegalità, in una provincia dimenticata, improvvisamente assurta a infuocato laboratorio sociale, che Giacomo Matteotti, spese gran parte della sua breve vita” (Gianpaolo Romanato, Giacomo Matteotti un italiano diverso, pag. 63, Giunti Editore S.P.A. /Bompiani, marzo 2024, Firenze – Milano).

Il giovane Giacomo Matteotti trovò in Nicola Badaloni (1854- 1945) la personalità di spicco che lo spinse ad interessarsi di politica ed abbracciare l’ideale socialista. Medico marchigiano, nato a Recanati, dopo la laurea conseguita presso l’Università di Napoli, si trasferì a Trecenta, dove era stato chiamato dall’ente locale per ricoprire il ruolo di medico condotto. Poche decine di chilometri separano Trecenta da Fratta Polesine, il paese di Giacomo Matteotti. Nicola Badaloni nel corso del suo lavoro poté toccare con mano le condizioni dei propri pazienti, affetti da patologie diffuse: febbri malariche e tubercolosi. Per tutta la sua vita coltivò con grande interesse gli studi di medicina e si doperò non poco per il riscatto della povera gente. Nel 1886 fu eletto deputato nella Lega della Democrazia, su sollecitazione di Jessie White, la moglie di Alberto Mario. Nel 1892 aderì subito al neonato Partito Socialista, “compiendo una scelta che pose definitivamente in crisi il vecchio radicalismo polesano di origine risorgimentale. Clinico assai stimato, studioso di valore e attivissimo agitatore sociale, rimase in parlamento fino al 1919 e fu la figura di spicco del socialismo polesano fini ai primi anni del Novecento. Nel 1912 aderì alla corrente riformista di Ivanoe Bonomi e Leonida Bissolati, uscì dal partito a causa della vittoria massimalista, ma fu rieletto nel 1913 nel suo fidato collego di Badia. I socialisti gli opposero Mussolini, che Badaloni schiantò ottenendo 5895 voti, contro i 145 assegnati al suo giovane competitore, allora direttore dell’Avanti. Dopo la guerra, ormai definitivamente fuori dal partito, ebbe da Giolitti nel 1921 la nomina a senatore” (ibidem, pag. 58).

Fin dall’inizio della propria attività politica, Nicola Badaloni si interesso subito di creare le condizioni perché le masse popolari, soprattutto quelle del Polesine, si scrollassero di dosso la povertà atavica. Il suo fu un socialismo costruito dal basso, con la fondazione di leghe contadine. A quanti lo tacciavano di essere sovversivo, rispondeva che “Il vero disordine sociale non veniva dalle leghe ma dal fatto che migliaia di contadini italiani muoiono di fame, non a causa di leggi cieche della natura ma di una cieca politica delle classi dirigenti” (pag. 59). Il testimone del socialismo passava nelle mani di Giacomo Matteotti nel 1910, quando il giovane agitatore socialista di Fratta decideva di impegnarsi a tempo pieno nell’attività politica invece di dedicarsi agli studi giuridici, come invece gli suggeriva di fare il suo professore d’Università e come ritornerà a pensarci anche lo stesso Giacomo Matteotti nei momenti più difficili, quando capisce che il Fascismo si appresta ad instaurare nel paese la dittatura, spazzando via ogni libertà prevista dallo Statuto Albertino, complice la borghesia, impaurita dal sovversivismo rosso, alimentato dal socialismo massimalista ma soprattutto dal nuovo Partito Comunista che prendeva ordini da Mosca, dove era andata al potere la rivoluzione.

Il Polesine, nei primi anni del nuovo secolo, entrava in un periodo di grandi trasformazioni sociali ed economiche. Nascevano sotto l’impulso dei giovani cattolici le prime casse rurali. In mancanza di istituti di credito, una piaga sociale ed economica era rappresentata dall’usura, il prestito in denaro, fornito da chi ce l’aveva a chi ne aveva bisogno, ma a tassi di interessi altissimi, con il risultato di impoverire sempre più chi era già povero. Il fenomeno era diffuso in tutto il Veneto, nel Trentino e nell’Istria. Adolfo Rossi, il grande cronista polesano, “capì subito che, per comprendere il cambiamento in atto nella sua provincia d’origine, bisognava partire da questa nuova realtà, che cresceva a vista d’occhio … L’elenco dei piccoli prestiti concessi dalla cassa rurale locale e le motivazioni per cui erano richiesti fotografavano meglio di ogni suo commento la situazione di estremo bisogno della popolazione, quanto la volontà di riscatto che si stava diffondendo” (Ibidem, pag. 61). La situazione migliorerà ancora nel 1901 con la nascita a Rovigo della Banca Cattolica del Polesine, che rafforzerà non poco l’organizzazione creditizia popolare.

La famiglia e gli studi giuridici” di Giacomo Matteotti è il titolo del secondo capitolo del saggio. Quella di Giacomo Matteotti era una famiglia benestante. È il primo paragrafo, seguito da altri tre: il periodo scolastico, gli studi giuridici e un giovane aperto al mondo. Il papà Girolamo Matteotti e la mamma Isabella Garzarolo avevano messo da parte una discreta fortuna, investendo i propri guadagni, derivanti dal commercio, nell’acquisto di terreni, arrivando a possedere circa 156 ettari, distribuiti in più comuni del Polesine. Girolamo aveva ereditato dal padre una bottega che in breve seppe trasformarla in una vera e propria “Arca di Noè”, dove si poteva trovare di tutto, “dall’ago al filo di cotone e di seta, dal nastro al velluto, dal fustagno al panno, dal chiodo alla croce di ferro per il cimitero”. La moglie Isabella, saggia e oculata amministratrice dei propri beni, rimasta vedova a cinquant’anni, seppe tenere le redini della famiglia e gestire con grande sicurezza il patrimonio. Quattro figli erano morti entro il primo anno di vita (Ginevra nel 1879, Dante nel 1880, Acquino nel 1882, Giovanni nel 1883).

Un’accusa che gravò su Giacomo Matteotti, utilizzata dai suoi avversari politici, fu che il padre Girolamo aveva messo assieme una discreta ricchezza, prestando i soldi ad interesse. Ciò risulta dalle carte del notaio Giacomo Zaio, esistenti preso l’archivio notarile di Rovigo: “Presso il suo studio, Girolamo Matteotti, nell’ultimo trentennio dell’Ottocento, cioè fino alla morte (1902), concesse a gente della zona una quarantina di prestiti di somme di denaro variabili fra le 500 e le 5500 lire, a tassi di interesse spesso anticipati e oscillanti tra il 6 e il 10 per cento, per periodi che andavano da un minimo di quattro anni fino ad un massimo di venti” (Ibidem, pp. 74- 75). Girolamo Matteotti non era il solo che prestasse soldi ad interesse, in mancanza di un istituto di credito in loco, ma si sa che le colpe vere o presunte dei padri ricadono sempre sui figli. Questo succede anche a Giacomo Matteotti, che per altro nelle lettere a Velia Titta, prima fidanzata, poi moglie e madre di tre bambini, non parla mai del padre, tranne in una lettera nella quale dice che lui somiglia di più al padre per il carattere di ferro. I contadini che lavoravano i terreni di Giacomo Matteotti ebbero sempre un atteggiamento filiale verso di lui e la sua famiglia. Parteciparono in massa al suo funerale a Fratta Polesine, disertato dai propri compagni socialisti, che accamparono tutte le ragioni e le scuse per non assistere alle esequie.

Chi non vive i problemi primari, se dotato di interessi, forza di volontà e passione nello studio, può liberare delle energie che sono impedite ad altri. Terminati gli studi superiori al Liceo Classico di Rovigo, Giacomo Matteotti si iscrive all’Università di Bologna, si laurea in Giurisprudenza il 7 novembre 1907. Del periodo trascorso a Rovigo, a pigione presso una famiglia della città, esiste tutta una biografia, curata da Aldo Parini, suo collaboratore e primo biografo, depositario di molte sue confidenze. Giacomo Matteotti, terminata l’Università, si getta a capo fitto nell’impegno politico. È vicesindaco di Fratta Polesine e consigliere presso altri consigli comunali del territorio polesano. Continua i propri studi giuridici, frequenta il teatro, gira l’Europa, andando in Francia, Germania, Belgio, Svizzera. Scrive e parla correttamente in Francese, Inglese, Tedesco. Allaccia rapporti con sindacati socialisti europei.

Nel territorio del Polesine cura e organizza le leghe socialiste. Consapevole che solo chi conosce il bene può operare perché il bene trionfi, sollecita che l’istruzione, soprattutto quella primaria, diventi subito un diritto di tutti e non riservato solo ai pochi fortunati, quelli come lui, nati in famiglie benestanti. “Il suo atto di fede nella forza rivoluzionaria della scuola pare quasi un’anticipazione delle idee di don Lorenzo Milani, che cinquant’anni dopo faranno tremare il sistema scolastico italiano” (Ibidem, pag. 89). Non me ne voglia il lettore, ma leggere questo mi ha rincuorato non poco, perché detto da uno storico; qualcuno poteva pensare che fossi io a scriverlo, fissato come sono, dirà qualcuno con il priore di Barbiana. Il riferimento a don Lorenzo Milani è chiaro anche nell’aperura del secondo capitolo, quando l’autore scrive: “Ho imparato che il problema degli altri è anche il mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia” (Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, 1967). Giacomo Matteotti e don Lorenzo Milani, due grandi italiani.

Giacomo e Velia. L’epistolario sconosciuto è il titolo del terzo capitolo del saggio, declinato da undici brevi paragrafi: l’incontro, il matrimonio, confinato in Sicilia, un altro Matteotti, il ritorno dalla Sicilia e l’entrata in parlamento, un parlamentare senza complessi, i primi discorsi contro il fascismo, il dopoguerra in Polesine, il triennio di sangue nel Polesine, Matteotti e Aldo Finzi, la solitudine. Le lettere a Velia rappresentano “Un corpus epistolare di enorme valore, l’unico che consente di andare a fondo nella psicologia dell’uomo politico, svelandone il lato umano, la forza interiore, ma anche i dubbi, le intime fragilità, le contraddizioni nascoste dentro un’energia e una volontà incrollabili, che esternamente apparivano quasi sfrontate. Malgrado le apparenze, che possono far pensare il contrario, il ruolo pubblico non esaurisce il personaggio, benché gli abbia garantito un posto di prima fila nel pantheon nazionale. Solo queste lettere però, rivelano la sua solitudine, i giudizi taglienti che dava su taluni compagni di partito, la stima che aveva per qulche avversario, pochi per la verità, i costi immani che inflisse alla famiglia con una scelta di vita radicale e senza vie di fuga, ma anche i dubbi, i ripensamenti, i pentimenti che ogni tanto offuscavano la sua granitica sicurezza. La vicenda umana di Matteotti, largamente ricostruibile attraverso le lettere alla e della moglie, rappresenta, insomma, una storica semisconosciuta, sulla quale è necessario soffermarsi” (Ibidem, pag. 96).

Sulle lettere a Velia rimando alla recensione del libro: Giacomo Matteotti, lettere a Velia, curato da Stefano Caretti, http://www.specchiomagazine.it/2023/12/libri-giacomo-matteotti-lettere-a-velia/

Giacomo Matteotti (1885 – 1924) e Aldo Finzi (1891 – 1944) si conoscevano bene in quanto ambedue erano polesani, Matteotti di Fratta Polesine, Aldo Finzi viveva a Badia, non lontano da Fratta. Proveniva da un’agiata famiglia di imprenditori israeliti di origini mantovane, coinvolta nei fatti risorgimentali. Totalmente assimilato e battezzato, era ricco, spavaldo, dotato di indubbio talento. Volontario nella Grande guerra nel Battaglione Aviatori, era stato impegnato nella quarantottesima Squadriglia e poi nella “Serenissima”, di stanza a San Pelagio, vicino a Padova. Seguì Gabriele D’Annunzio nel folle volo su Vienna, il 9 agosto 1918, lanciando sulla capitale austriaca volantini propagandistici. Dopo la guerra fu il pioniere di corse automobilistiche e motociclistiche e presidente del CONI dal 1923 al 1925. Strettamente legato a Mussolini, nel 1921 divenne deputato per il collegio di Badia e sottosegretario all’interno, dopo la marcia su Roma. Nel 1924, implicato nel rapimento e nell’uccisione di Giacomo Matteotti, fu costretto a dimettersi e ad abbandonare la vita politica. Si allontanò dl Fascismo dopo le leggi razziali. Fu mandato al confino, da cui ritornò dopo il 25 luglio 1943 con la caduta di Mussolini. Negli ultimi due anni di guerra ebbe contatti con il movimento partigiano, ma venne catturato a Roma dai tedeschi, il 15 marzo 1944, e rinchiuso nel carcere di regina Coeli. Dopo l’attentato di via Rasella e la rappresaglia tedesca del 24 marzo 1944 alle Fosse Ardeatine, venne prelevato dal carcere e fucilato assieme agli altri 335 prigionieri. Nessuno tra i fascisti fece nulla per salvarlo, nemmeno Mussolini.

Aldo Finzi era quasi coetaneo di Giacomo Matteotti, che conosceva molto bene. Dopo il discorso del tre dicembre 1921 durante il quale Giacomo Matteotti segnalò i brogli e le violenze fasciste nelle passate elezioni, Finzi replicò, attaccandolo con un argomento che molti sfruttavano: “Matteotti era inaffidabile perché uomo dalla doppia personalità, ultra collaborazionista a Montecitorio, internazionalista e rivoluzionario in Polesine. Era stata proprio la sua propaganda di odio, disse, che aveva portato il Polesine all’esplosione di violenze, percosse, furti, uccisioni dei mesi precedenti. Finzi rovesciò l’analisi fatta dl suo interlocutore. Non è colpa del fascismo di essere nato nei nostri paesi, più che altrove, siete stati voi, apostoli della fratellanza umana, che instaurando un regime di terrore avete obbligato tutti gli onesti, anche i più pacifici caratteri, a risorgere alfine, perché la situazione nostra era fisata nella scelta tragica, difendersi o morire” (Ibidem, pag. 167). Il biennio rosso (1919- 1920) toccò anche il Polesine. Ovunque ci furono eccessi, stigmatizzati da Matteotti, che faticava non poco a mettere in guarda quanti nel Partito Socialista guardavano alla Rivoluzione Russa da prendere quasi come modello. Giacomo Matteotti come aveva subito individuato nel Fascismo la natura della dittatura, aveva visto nella Rivoluzione Russa la dittatura del Partito Comunista. Pesava poi nell’opinione pubblica la distanza di Giacomo Matteotti dal movimento combattentistico, la freddezza dimostrata verso la salma del milite ignoto, quando tutto il popolo esaltava l’amor di patria e ricordava i sacrifici fatti negli anni di guerra.

Il quarto ed ultimo capitolo del saggio, Riformatore e rivoluzionario: un politico sempre in prima linea, viene declinato in altrettanti undici paragrafi di diversa lunghezza: Una vita senza respiro, l’anteguerra, verso il socialismo: la scuola, verso il socialismo: il comune, verso il socialismo: la lega, la guerra, il dopoguerra, lo sguardo sull’Europa, nel vortice del diciannovismo, generale di un esercito che continua a scappare, l’assassinio. “Negli anni in cui Giacomo Matteotti fu impegnato nelle amministrazioni locali lavorò con l’abnegazione di un monaco e con la costanza di un apostolo, convinto che l’elevazione delle classi inferiori passasse attraverso tre strumenti: la scuola, il comune, la lega. La scuola per istruire, educare e incivilire; il comune per rompere alla base il monopolio borghese del potere; la lega e il partito per creare la coscienza di classe” (Ibidem, pag. 191). L’istruzione era il primo gradino per l’elevazione dell’uomo, e qui non si può non citare don Milani, che fece proprio questo principio. Il secondo gradino era il comune per Giacomo Matteotti, che scisse un manuale per gli amministratori degli enti locali. Ogni consigliere comunale doveva conoscere a fondo parole come Patrimonio, Bilancio, Conto, Residui, Imposte. Comuni, province, cooperative, aziende agricole o industriali, e in qualsiasi economia, borghese o comunista dovevano impadronirsi della scienza economica e non demandare al segretario comunale o agli impiegati ciò che ogni lavoratore doveva conoscere e saper maneggiare.

Per Giacomo Matteotti “era incivile tollerare che in un Paese uscito vincitore dalla guerra e con una posizione di rilievo nell’arengo internazionale, milioni di persone vivessero nelle condizioni disagiate, al limite della sopravvivenza fisica. Occorreva un grande sforzo per redimerle. Ma come? Rovesciando la società con un atto rivoluzionario o cambiandola lentamente con le riforme? Sovvertendo le istituzioni o lavorando per modificarle? Operando da soli per essere contaminati da chi perseguiva altri scopi o cercando alleanze e convergenze? Su questo dilemma non si giocò soltanto il futuro del socialismo italiano. Si giocò il destino dell’Italia novecentesca” (pag. 178).

“La vita politica di Giacomo Matteotti si può dividere in tre momenti. Il primo periodo arriva fino al 1910. Sono gli anni di preparazione, degli studi universitari e gli inizi della carriera accademica. L’attività politica è ridotta a poco, schiacciata sotto il peso di altri interessi: è consigliere comunale di Fratta (dal 1908), partecipa a qualche convegno provinciale socialista e scrive di tanto in tanto brevi articoli per La Lotta” (pag. 179). Giacomo Matteotti subì l’influsso del fratello più grande, Matteo Matteotti, nato nel 1876, undici anni prima di lui, mentre non parla mai dell’altro fratello, Silvio Matteotti (1887), stroncato dalla tisi a soli ventitré anni, forse destinato ad affiancare la mamma nella conduzione delle proprietà di famiglia. Matteo Matteotti, laureato presso l’Università degli Studi di Venezia, alla Scuola superiore di commercio, la prima e la più prestigiosa istituzione sorta in Italia per la formazione in ambito commerciale, economico e linguistico, divenuta poi l’attuale Università Ca’ Foscari, morì a soli trentatré anni.

Il secondo periodo inizia nel luglio 1910, quando viene eletto quasi casualmente al Consiglio provinciale di Rovigo. Aveva rifiutato la candidatura perché in quei mesi era in Inghilterra per le ricerche sul sitema penale britannico e quindi nell’impossibilità di partecipare alla campagna elettorale. Scrisse da Oxford rinunciando alla elezione. Il Consiglio respinse la richiesta. Giacomo Matteotti si trovò così, suo malgrado, proiettato al centro della vita politica locale. È il periodo più fecondo, quello dell’impegno indefesso in Polesine, come amministratore locale in provincia e in numerosi comuni. Una legge del tempo consentiva di essere elettori ed eletti in tutti quei municipi nei quali si possedessero beni e si pagassero le tasse comunali. La famiglia Matteotti possedeva diversi terreni in più comuni del Polesine. In questo modo, prima della guerra, fu sindaco a Villamarzana dal 1912 al 1914, assessore effettivo a Frassinelle, consigliere e Villanova del Ghebbo, a Fiesso, nonché vicesindaco a Fratta.

Il terzo periodo della sua vita politica è quello della sua presenza nel parlamento italiano, dal 1919 al 1924, anno della sua morte. Del primo periodo c’è da annotare la sua precoce adesione al socialismo, certamente mediata dal fratello Matteo, il confronto con il cattolicesimo sulle colonne de La Lotta, dove confutava la promessa clericale della ricompensa in un’altra vita: “V’è stato detto che i vostri dolori troveranno una ricompensa al mondo di là. Noi non sappiamo dove e se quest’altro mondo ci sia. Ma non crediamo questa una buna ragione per rinunciare a un po’ di paradiso in questo mondo nel quale viviamo e sulla cui esistenza nessuno può dubitare” (pag. 182). A volte il confronto con i cattolici arrivava al dileggio vero e proprio. Eppure al suo funerale parteciparono in massa tutti i militanti del Partito Popolare, con alla testa Umberto Merlin, suo compagno di studi all’Università di Bologna e deputato del Partito Popolare.

Sul terzo periodo, quello di parlamentare, ci sarebbe molto da dire. Giacomo Matteotti aveva una fede nel socialismo, quello respirato alla scuola di Filippo Turati, di Nicola Badaloni, anche se col tempo, il deputato di Fratta Polesine andava maturando scelte più consapevoli. Visse con gande sofferenza la scissione del Partito Socialista al Congresso di Livorno (1921) e la nascita del Partito Comunista Italiano che lo isolò del tutto, considerandolo quasi un folle sognatore. “Secondo Antonio Gramsci, Matteotti non aveva capito che la battaglia per uscire dalla crisi della società italiana doveva spezzare i quadri dell’ordine politico ed economico del tempo, sostituendo ad esso un ordine nuovo di cose. Matteotti aveva preparato la rivoluzione, ma non previsto la creazione di un diverso sistema, aveva scosso le basi di uno stato eludendo il problema della creazione di uno stato nuovo. Soltanto con la creazione del partito di classe degli operai, del partito della rivoluzione proletaria, cioè del Partito Comunista, si sarebbe dato un senso e uno sbocco positivo al suo sacrificio” (pag. 249).

Per Matteotti, le libertà dell’individuo, le semplici libertà statutarie venivano prima di qualsiasi rivendicazione proletaria. Ai comunisti schierati con la Terza Internazionale non interessavano minimamente quelle che noi oggi chiamiamo libertà civili o garanzie costituzionali, in quanto non facevano parte del bagaglio politico del proletariato, erano destinate a scomparire con la rivoluzione. Giacomo Matteotti non lo dice esplicitamente ma si intuisce che metteva ormai il bolscevismo sullo stesso piano del fascismo, come aveva detto esplicitamente in una lettera inviata a Filippo Turati: “Il nemico attualmente è uno solo, il fascismo. Complice involontario del fascismo è il comunismo. La violenza e la dittatura predicata dall’uno divengono il pretesto e la giustificazione della violenza e della dittatura in atto dell’altro. I lavoratori italiani, ammaestrati dalle dure esperienze del dopoguerra, devono riunirsi concordi, contro il fascismo che opprime e contro l’insidiosa discordia comunista” (Ibidem, pag. 246).

Giacomo Matteotti rimaneva solo a reggere l’urto della violenza fascista. La divisione interna al partito socialista tra riformisti e massimalisti, la nascita del Partito Comunista che prendeva ordini da Mosca, l’incapacità dei governi liberali davanti alle trasformazioni in atto della società italiana, erano il via libera alla deriva fascista. Il gruppo parlamentare socialista, nel 1901, aveva votato a favore del governo Zanardelli, di cui Giolitti era l’espressione di punta. Due anni dopo, quando il presidente del Consiglio dovette passare la mano e il re conferì l’incarico proprio a Giolitti, questi si rivolse inizialmente ai socialisti perché entrassero nell’esecutivo e assumessero qualche dicastero. Filippo Turati declinò l’offerta. Un’altra possibilità di entrare nel governo i socialisti l’ebbero dopo le elezioni del 1919, quando portarono alla Camera 156 deputati. Nella stessa tornata elettorale, i Popolari ebbero 100 deputati. Assieme avrebbero avuto la maggioranza in Parlamento con l’appoggio di qualche liberale. I due schieramenti avevano la possibilità di cambiare l’Italia. Invece si ripeté, in un frangente molto più grave, il copione già visto nel 1903. Lasciarono sfumare l’occasione, dilapidarono in pochi mesi la fiducia che quasi un elettore su tre aveva concesso loro e in capo a tre anni consegnarono il Paese in mano al fascismo, un movimento che nel 1919 era nato da qualche mese soltanto” (Ibidem, pp. 226- 227).

Gianpaolo Romanato

Gianpaolo Romanato ha insegnato storia contemporanea all’Università di Padova e nella Facoltà di Scienze internazionali e diplomatiche dell’Università di Trieste-Gorizia. Numerosi viaggi in America latina lo hanno appassionato al mondo missionario, sul quale ha scritto Le Riduzioni gesuite del Paraguay. Missione, politica, conflitti (Morcelliana, 2021), L’Africa Nera fra Cristianesimo e Islam. L’esperienza di Daniele Comboni (Corbaccio, 2003), Giovanni Miani e il contributo veneto alla conoscenza dell’Africa (Minelliana, 2005). Il volume Pio X. Alle origini del cattolicesimo contemporaneo (Lindau, 2014) ha vinto il Premio Acqui Storia 2015. Proviene da una famiglia originaria di Fratta Polesine, dove presiede il Comitato scientifico della Casa Museo Giacomo Matteotti, con la quale ha avviato la collana dei “Quaderni di Casa Matteotti”. Dal 2007 fa parte del Comitato Pontificio di Scienze Storiche (Città del Vaticano), nominato da papa Benedetto XVI e confermato da papa Francesco (quarta pagina di copertina, risvolto).

Raimondo Giustozzi

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