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Errore strategico | L’Armenia si è fidata di Mosca e guardate com’è finita

Senza titolo«È ovvio che quanto accaduto abbia avuto il consenso tacito della Russia», spiega l’analista di Obct Giorgio Comai. La Federazione, più debole nel Caucaso, vuole mantenere buoni rapporti con Baku: i peacekeeper non sono intervenuti neppure prima, quando il Nagorno-Karabakh è rimasto isolato.

Il 19 settembre, con un blitz durato circa ventiquattro ore, le truppe dell’Azerbaijan hanno attaccato e conquistato la regione del Nagorno-Karabakh. Da allora oltre centoventimila persone di etnia armena hanno lasciato il territorio per paura di rappresaglie da parte dell’esercito azero. L’attacco è arrivato dopo che per nove mesi la popolazione è rimasta isolata a causa del fermo al transito – imposto dall’esercito di Baku – nel corridoio di Lachin, l’unico collegamento della regione con l’Armenia.

Il blocco si è fatto più serrato man mano che passavano i mesi e ha raggiunto il suo apice a giugno quando sono stati fermati anche gli aiuti umanitari, lasciando più di centomila persone in trappola senza cibo, medicinali e beni di prima necessità. Il tutto in aperto contrasto con quanto stabilito nel cessate – il – fuoco firmato nel 2020 con la regia di Mosca.

La tenaglia dell’isolamento
L’Azerbaijan è nettamente più ricco dell’Armenia grazie alla grande quantità di risorse naturali che negli anni gli hanno consentito di sviluppare un esercito potente con mezzi all’avanguardia. Già durante il conflitto del 2020 Baku aveva dimostrato la propria superiorità bellica costringendo Erevan a lasciargli il controllo di diversi territori all’interno dei propri confini.

Ciò che aveva impedito un’ulteriore avanzata azera era stato l’intervento della Russia, storico alleato dell’Armenia, che avrebbe dovuto garantire attraverso l’invio di quasi duemila soldati (peacekeeper) la sicurezza del territorio armeno e del corridoio di Lachin.

Ma l’invasione russa in Ucraina, oltre a distogliere in parte l’attenzione del Cremlino dalla regione, ha rafforzato il potere dell’Azerbaijan diventato nel frattempo un fornitore di gas strategico per i paesi dell’Ue e un viatico fondamentale per Mosca nell’intento di aggirare le sanzioni occidentali. In questo contesto l’Armenia, che per la propria protezione si è affidata esclusivamente alla Russia in quello che il primo ministro armeno Nikol Pashinyan ha definito «un errore strategico», si è trovata completamente isolata.

Abbiamo chiesto a Giorgio Comai, ricercatore e analista presso l’Osservatorio Balcani Caucaso che da anni si occupa della regione, di aiutarci a comprendere meglio come si è arrivati a questa situazione.

«C’è stato un indebolimento del ruolo della Russia in tutta l’area. L’Armenia si sarebbe aspettata un intervento che di fatto non è arrivato. Non mi riferisco solo all’attacco delle ultime settimane, ma anche alle azioni militari che si sono concretizzate già nel 2022 e che hanno coinvolto aree situate all’interno dei confini internazionalmente riconosciuti dell’Armenia, lontano dai territori contesi del Nagorno-Karabakh. Dopo queste provocazioni Mosca non è intervenuta ed Erevan ha iniziato a prendere coscienza del fatto che fare affidamento per la propria difesa solo sulla Russia era stato un errore strategico».

Segnali diventati ancor più evidenti nel momento in cui i russi non sono intervenuti dopo il fermo imposto da Baku dell’unico collegamento con la regione. «A partire dal dicembre del 2022 con una serie di pretesti –continua Comai – l’Azerbaijan ha imposto un blocco del transito attraverso il corridoio di Lachin. Con il passare dei mesi e senza alcun intervento da parte dei peacekeeper russi, il blocco è diventato sempre più esplicito e a partire da giugno è stato completamente interrotto il transito verso il Nagorno-Karabakh anche per i convogli umanitari. In piena violazione degli accordi del 2020 che anche Baku si era impegnata a rispettare».

Equilibri fragili
Salvo qualche debole appello pubblico, i leader internazionali non hanno condannato esplicitamente il governo azero continuando ad optare, senza successo, per la via diplomatica. Come riportato da Politico, pochi giorni prima dell’azione militare ci sarebbe stato un tentativo in extremis per provare a fermare l’offensiva di Baku, in uno dei rarissimi incontri diplomatici dell’ultimo anno e mezzo in cui, oltre a Stati Uniti e Unione europea, è stata coinvolta anche la Russia.

Usa e Ue sono consapevoli dell’influenza che il Cremlino può ancora esercitare nella regione e per questo si sono seduti allo stesso tavolo negoziale. Ma il tentativo non è andato a buon fine, probabilmente perché in questo momento a Vladimir Putin va bene così.

«È ovvio che quanto accaduto – sottolinea Comai – abbia avuto il consenso tacito della Russia. Peraltro, in questa fase, Mosca vuole mantenere buoni rapporti con Baku visto che ha in previsione anche la realizzazione di una nuova infrastruttura in sinergia con l’Iran che dovrebbe attraversare proprio l’Azerbaijan. L’Unione europea ha provato fino all’ultimo la via diplomatica ma il governo azero ha disatteso le promesse».

«È vero che non ci sono state critiche esplicite però Bruxelles ha fatto un tentativo serio per fermare l’escalation. Lo spazio di manovra era molto limitato sia dal punto di vista geopolitico (si pensi alla Turchia, stretta alleata di Baku) che dal punto di vista commerciale. L’Europa ha introdotto una missione di osservazione all’interno al confine armeno che dovrebbe fungere da deterrente rispetto a nuove possibili azioni di Baku. La speranza ora è che le pressioni internazionali limitino l’azione dell’Azerbaijan e che la Russia non ostacoli gli sforzi di mediazione in corso», conclude Comai.

Le prossime settimane saranno probabilmente decisive. Mosca avrebbe tutto l’interesse a sostituire Nikol Pashinyan alla guida dell’Armenia con una figura più vicina al Cremlino e sta facendo di tutto per far ricadere su di lui la colpa del conflitto. Il leader armeno si è allontanato da Putin nel momento in cui la Russia si è girata dall’altra parte di fronte all’isolamento forzato di un’intera regione che ha costretto oltre centoventimila persone prima alla fame e poi ad abbandonare le proprie case.

Ma è difficile che quanto accaduto non lasci strascichi politici in Armenia e Pashinyan potrebbe essersi giocato una buona fetta di consenso interno. A Mosca questo scenario non dispiace affatto. Con un’Armenia sempre più fragile e magari con un nuovo esecutivo alle dipendenze del Cremlino, Putin potrebbe replicare il modello bielorusso e paradossalmente rafforzare la propria influenza nella regione.

Linkiesta, 06 ottobre 2023 – Esteri

di Matteo Fabbri

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