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Un Cristianesimo vivo nella storia La testimonianza di mons. Luigi Bettazzi

don Tonino Bello mons. Luigi BettazziIl titolo è il tema di un libro che raccoglie la maggior parte degli articoli apparsi sul “Giorno” nella rubrica “Religione e mondo moderno”, curata da Giancarlo Zizola (13 aprile 1936, Valdobbiadene – 14 settembre 2011, Monaco di Baviera), uno dei grandi vaticanisti che seguì da vicino tutti i lavori del Concilio Vaticano II, grazie alla segnalazione di Giovanni XXIII e del suo segretario Loris Capovilla. Non possiedo il volume, edito nel 1974 dall’Editrice Morcelliana, Brescia, ma ho ancora molti articoli, che uscivano sul quotidiano “Il Giorno”, nella rubrica ricordata sopra. Sono fogli ingialliti per il tempo intercorso. Sono incollati su un quadernone. Hanno conosciuto tre traslochi. Costituiscono per me, al pari di altri documenti, il legame con il passato e con il presente.

Fede cristiana e neutralità” è il titolo di un articolo firmato da Luigi Bettazzi (26 novembre 1923, Treviso – 16 luglio 2023, Castello Vescovile, Albiano d’Ivrea). Nelle settimane passate, molti hanno ricordato il vescovo di Ivrea, mons Luigi Bettazzi, che al momento della sua morte, avvenuta ad Albiano d’Ivrea, era l’ultimo vescovo italiano che aveva preso parte al Concilio Vaticano II. Mi è sembrato giusto ricordarlo, riportando per intero il suo articolo. Tutti ricordano le battaglie per la pace. Partecipò nel 1992 alla marcia pacifista, organizzata dai Beati costruttori di pace e da Pax Christi, insieme a don Tonino Bello, nel mezzo della guerra civile in Bosnia ed Erzegovina. Don Tonino Bello morirà nel proprio letto, confortato da Luigi Bettazzi.

Fede cristiana e neutralità

“Di fronte ai problemi che travagliano il mondo, soprattutto di fronte ai drammi e alle tragedie che colpiscono l’umanità, spesso si chiede alla Chiesa di prendere posizione. Lo si chiede alla Santa Sede, lo si chiede ai vescovi. E ci si rammarica, o si protesta, perché non parlano, perché non fanno dichiarazioni, perché non firmano manifesti. Il silenzio della Chiesa – in particolare dei vescovi – viene così individuata come omissione colpevole di un preciso dovere che è quello di difendere la verità e di orientare le coscienze.

La prima motivazione con cui si giustifica il silenzio è il dovere per la Chiesa di non prendere posizioni politiche, che sviserebbero la sua missione prettamente spirituale. Il fatto che il vescovi non abbiano firmato dichiarazioni contro l’oppressione della Cecoslovacchia o a favore degli intellettuali sovietici controbilancerebbe l’assenza di firme prelatizie in calce alle proteste contro il colonialismo portoghese o le incarcerazioni politiche del sud Vietnam, contro il regime dittatoriale del Brasile o il golpe del Cile.

Vorrei innanzitutto chiarire che la Chiesa ha sempre dichiarato la propria neutralità di fronte alle singole scelte tecniche, ma non quando la politica, si sul dire, tocca l’altare. E lo si è visto ripetutamente, e in situazioni diverse, dall’antichità ai giorni nostri: la Chiesa ha fatto le sue opzioni politiche, appoggiando le azioni dei reggitori di popoli (donando anzi qualifiche di cattolici e di cristianissimi), di partiti politici e movimenti sociali, secondo le posizioni assunte di professione dei principi cristiani e di difesa e di appoggio delle istituzioni sociali.

Forse la realtà da chiarire ulteriormente è che la Chiesa sta ora prendendo consapevolezza che il suo atteggiamento non deve essere tanto di chiusura in se stessa, e di difesa esclusiva della propria missione di salvezza, quanto di fermento di una salvezza che scende fino al centro dell’uomo e lo porta al di là dei limiti della finitezza umana.

La liberazione dal peccato e dalla morte eterna non può non riflettersi sulle vicende terrene, diventando stimolo e fermento di liberazione dall’egoismo, dalla violenza, da ogni forma di dominio dell’uomo sull’uomo, di discriminazione, di emarginazione, che sono tipiche conseguenze del peccato e che costituiscono – soprattutto nei nostri tempi – un ostacolo all’autenticità del sentimento religioso, troppo spesso visto come tormentatore delle coscienze e freno al rinnovamento della società. Il Regno dei Cieli non è un altro mondo: è il mondo visto nella luce di Dio, che proietta certamente nell’al di là, ma che ha le sue radici nell’al di qua, nello sforzo cioè di fare un mondo come i Cieli, (cioè Dio) lo vorrebbero, senza violenze, senza sfruttamenti, senza oppressioni.

In questa luce la Chiesa non dovrebbe lasciarsi prendere dalla preoccupazione della neutralità, tacendo su tutto per non rischiare compromissioni politiche. Oltre tutto, per un’istituzione solidamente inserita in un certo sistema di strutture e di poteri, vale il proverbio che “Chi tace, consente”, cioè il tacere risulta praticamente un appoggio incondizionato a quanto si compie all’interno del sistema stesso, tanto più a quanto viene operato da chi si professa sostenitore e difensore dei principi cristiani e della Chiesa.

La Chiesa dovrebbe saper essere così incarnata nella realtà, ma anche così libera da poter dire la sua parola autorevole con chiarezza e coraggio, richiamando principi e orientamenti non solo in astratto – questo è facile e innocuo – ma sapendoli applicare alle situazioni storiche in cui vive, in quell’atteggiamento di coscienza critica che più volte Paolo VI ha rivendicato alla Chiesa e proposto a ogni cristiano.

Questo vale non solo per i problemi che tradizionalmente chiamiamo morali – e che non sono poi quelli del sesso, sui quali siamo pronti e coraggiosi nelle nostre proteste – ma per tutti i problemi non meno morali che riguardano le speculazioni e le ingiustizie, le frodi e gli arrivismi, le mafie di tutti i generi, problemi molto più deleteri per la società e molto più scandalosi, specialmente per i giovani, ma sui quali siamo molto più prudenti, se non addirittura muti. E sono le situazioni delle Nazioni e dell’umanità, per le quali il richiamo chiaro e coraggioso andrà rivolto non soltanto a chi opprime e conculca la libertà e i principi delle religione e della fede, bensì a chiunque attenta alla dignità dell’uomo e ne opprime la libertà: la parabola del buon Samaritano è drastica nella preferenza di chi, pur estraneo sul piano religioso, è però pronto a porsi al servizio dell’uomo assalito e oppresso, nei confronti degli addetti al culto, frettolosi verso i loro riti ma disinteressati alle sofferenze degli uomini.

Forse il discorso va allargato al significato più ampio di Chiesa. In realtà, soprattutto dopo il Concilio, non si può identificare la Chiesa con la gerarchia: la Chiesa è l’insieme dei credenti, e ogni cristiano ne porta in sé una parte di responsabilità e di rappresentatività. Forse anche questo trattiene i vescovi da prendere posizioni che non siano condivise dalle loro comunità.

Sin qui andrebbe bene, a patto che poi le comunità cristiane assumessero le loro posizioni di coscienza critica nelle varie situazioni storiche e sapessero criticare i fatti senza sposare le opposte ideologie. Vedessero cioè nei fatti di Cecoslovacchia o nel silenzio imposto agli intellettuali russi un fatto da condannare come conseguenza di un modo errato e riprovevole di realizzazione del nostro potere popolare, senza trasformarlo  in una condanna di ogni legittima aspirazione a una maggiore partecipazione del popolo alle scelte sociali, politiche ed economiche che determineranno poi la vita di tutti, e vedessero nei fatti delle colonie portoghesi e del Vietnam, del Brasile e del Cile non delle normali situazioni di governo e di ricerca del progresso economico, che legittimerebbe ogni soffocamento di libertà, sulla base delle affermazioni dei militari cileni, che quando una Nazione è malata, bisogna prima guarirla e poi si parlerà di democrazia (ma quando è che è malata? Solo quando i prezzi salgono? Solo quando è sconvolto l’ordine costituito e garantito dalle classi dominanti? Ma allora si fa presto a far ammalare qualcuno per avere poi un motivo per guarirlo!).

Quello contro cui la Chiesa dovrebbe chiaramente protestare sarebbe che con la scusa del prestigio e dell’economia si sopprima l’uomo; che in Mozambico e in Brasile, a Saigon, lo si torturi e lo si sfrutti (e non da governi atei, ma da governi che si professano cattolici e si atteggiano a protettori della Chiesa); che in Cile si tradisca dai compagni di viaggio un uomo legalmente nominato presidente e si scateni la caccia all’uomo e si tengano in prigione e si uccidano arbitrariamente non solo i colpevoli di fatti specifici, ma gli oppositori, reali o presunti.

Non è un’opzione politica che la Chiesa è chiamata a fare, forse nemmeno una valutazione della validità delle motivazioni addotte. È una difesa dell’uomo, della lealtà da usare anche in politica, della libertà di opinione, della sacralità della vita umana. E questo non è detto a sufficienza. In più la Chiesa non dovrebbe dimenticare le aspirazioni dei poveri e degli umili a voler uscire dalla situazione di oppressione e di totale dipendenza. E dovrebbe appoggiare e favorire quanto offre a loro nuove possibilità di partecipazione e di socializzazione come di un principio fondamentale della dottrina cristiana e poi nella pratica lo si ignori e non se ne prenda mai la difesa concreta.

Se il vescovo non appoggia dichiarazioni per timore di trovare opposizione o di non essere capito dalla sua comunità, forse più che manifestare il rispetto che il vescovo deve avere per la sua gente, rivela una mancata educazione di questa a una maggiore fedeltà al Vangelo e a una più acuta sensibilità sociale. O dimostra che la sua gente valuta l’istituzione, l’ordine, il benessere più dell’uomo. Senza dire che la sua gente sono anche coloro che nella Chiesa non hanno peso, non hanno voce, o che forse non sono più nella Chiesa proprio perché la Chiesa non si interessa sufficientemente dell’uomo.

Il silenzio dei vescovi diventa così segno rivelatore di una situazione di Chiesa; può diventare stimolo di riflessione evangelica, inizio di un rinnovamento profondo e doveroso” (Luigi Bettazzi).

Annotavo in quegli anni lontani, di fianco all’articolo di mons. Luigi Bettazzi e di altri (Davide Maria Turoldo, Raniero la Valle, Jurgen Moltmann, Carlo Carretto, Giancarlo Zizola), alcune riflessioni di un ventenne che viveva tutti i fermenti culturali di allora: “Il meraviglioso amore dei cristiani verso l’umanità rischia di essere inefficace senza l’apporto del marxismo. E il mondo, in cui il marxista crede, rischia di essere un mondo senza stelle, mancando l’apporto del pensiero cristiano. La liberazione deve avvenire su diverse dimensioni”. “Non può esistere un vero socialismo senza vera democrazia, né vera democrazia”(Rosa Luxemburg). “La qualità della vita è più importante dell’aumento dei consumi; essere vale di più che l’avere; la gioia di vivere è più importante dei profitti; la pace vale più del dominio e del potere. Il compito della liberazione spetta a tutti, dagli economisti ai politici, ai sociologi, perché non esiste un unico modello di liberazione. L’uomo muore nelle grandi metropoli occidentali, come anche in quei paesi socialisti che hanno assunto come liberazione primaria la libertà economica, la liberazione del bisogno”. Trucioli di utopia che hanno alimentato e alimentano ancora quello in cui ho sempre creduto e assieme a me anche altri?

Gli anni del dopo concilio, coniugati ai grandi cambiamenti epocali nel tessuto sociale, hanno portato alla realizzazione di opere e progetti pensati per servire l’umanità più povera e lontana. A livello locale, per quanto riguarda la diocesi di Fermo, basta pensare a figure di primo piano come don Lino Ramini, don Davide Beccerica, don Vinicio Albanesi, don Franco Monterubbianesi, che hanno sollecitato il laicato cattolico ad impegnarsi in prima persona nel servire gli ultimi. Grazie al loro impegno sono nate: la Comunità di Capodarco (Fermo), fondata da don Franco Monterubbianesi e gestita ora da don Vinicio Albanesi, Comunità di San Claudio (Corridonia), fondata da don Lino Ramini e gestita attualmente dalla Fondazione, intitolata allo stesso sacerdote, “Famiglia Nuova”, fondata da don Armando Marziali, attuale direttore don Vincenzo Marcucci, e la Caritas Diocesana, fondata da un nutrito gruppo di sacerdoti ma in particolare da don Lino Ramini e don Davide Beccerica. Ci saranno poi altre realtà sparse nella diocesi di cui non sono a conoscenza data la mia lontananza per anni dai luoghi in cui sono nato.

Nella realtà brianzola, come l’ho conosciuta nei vent’anni della mia permanenza in terra lombarda, l’attenzione verso gli ultimi è stata una costante delle parrocchie e delle ACLI con cooperative edilizie, case di accoglienza e scuole di italiano per immigrati extracomunitari, “Comunità Nuova”, fondata da don Gino Rigoldi, nel versante dei minori e non solo. Sono solo realtà operanti a Giussano (Mb), città dove ho vissuto per vent’anni, e Besana Brianza (Mb). Nei primi anni dell’emigrazione meridionale e veneta nelle fabbriche del mobile e non solo (anni 60 e 70) operò l’operazione San Paolo per l’inserimento degli immigrati nel territorio.

Raimondo Giustozzi

 

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