Raimondo Giustozzi
“Non c’è vergogna nella scelta di resistere: ma ce n’è molta nel non fare nulla” (Aleksej Navalny). Le parole di Aleksej Navalny, morto nella lontana regione artica della Federazione Russa, rappresentano il suo testamento umano più commovente. “La morte di Aleksej Navalny in un carcere di Stato, è un atto d’accusa per il regime che lo ha imprigionato e un rimprovero per il mondo libero che sapeva tutto e non ha fatto nulla, aspettando soltanto – da spettatore – che ciò che era scritto nella logica del potere finisse per compiersi nella realtà” (La Repubblica, 16 febbraio 2024). Arrogante la giornalista russa che, invitata in una televisione italiana, suggeriva al conduttore della trasmissione ad interessarsi dei problemi dell’Italia: inflazione, costo della vita e altro. Eppure in un passato lontano, solo un secolo fa, era il 10 giugno 1924, anche il nostro paese, visse una tragedia simile. Il deputato socialista Giacomo Matteotti, dopo la denuncia di brogli elettorali commessi dal Fascismo, veniva rapito da cinque delinquenti e ammazzato in macchina; uno contro cinque, bella prova di forza e di vigliaccheria. Il suo corpo veniva ritrovato solo il sedici di agosto nel bosco della Quartarella, nel comune di Riano, poco lontano da Roma.
“Io, il mio discorso l’ho fatto. Ora voi preparate il discorso funebre per me”. Coraggio da vendere ne aveva Giacomo Matteotti, che in un’altra occasione aveva detto: “Uccidente pure me, ma l’idea che è in me non l’ucciderete mai”. Cieca è la mano che uccide, sia di chi commette direttamente il crimine sia di chi lascia morire il detenuto, come nel caso di Aleksej Navalny, morto in una colonia penale russa o di Antonio Gramsci, lasciato marcire nelle galere fasciste. La libertà non ha prezzo. L’Italia ha dovuto superare una delle pagine più brutali per riconquistarla: una lunga lotta di resistenza durata vent’anni, affrontata all’inizio da pochi e l’immane tragedia della guerra persa con tutte le conseguenze che ne sono derivate. Nella Federazione Russa, tranne qualche manifestazione di protesta, subito repressa dalla forza pubblica, non c’è stata nessuna sollevazione popolare per la morte di Navalny. Al momento, è stato impedito anche il funerale pubblico. La madre può farlo, ma in privato, diversamente, il cadavere verrà sepolto nella segretezza più assoluta nel terreno adiacente alla colonia penale, dove Navalny è morto.
Nell’Iliade, stando al racconto del poema, il corpo di Ettore viene restituito al vecchio padre Priamo, perché possa procedere ai solenni funerali all’interno della città di Troia. “Ma quando il divino Achille fu sazio di pianto, / gli svanì quella voglia dal corpo e dal cuore, / s’alzò di scatto dal seggio, sollevò per la mano il vecchio, / mosso a pietà dalla sua testa bianca, dal suo mento bianco, / e, articolando la voce, gli diceva parole che volano / «Infelice, molti affanni davvero hai patito in cuor tuo. / Come hai osato recarti da solo alle navi degli Achei, / al cospetto dell’uomo che numerosi e gagliardi / figli t’ha ucciso? Hai un cuore forte come l’acciaio! / Ma su, riposati su questo seggio, ed anche se afflitti, / lasciamo comunque dormire nel cuore i dolori; / dal lamento che ci raggela non viene un guadagno: / gli dei stabilirono questo per gl’infelici mortali, / vivere in mezzo agli affanni; loro invece sono sereni” (Iliade, Libro XXIV). Achille ha pietà di Priamo. Piange con lui. Gli restituisce il corpo di Ettore.
Molti giovani russi, nel timore di essere arruolati nella guerra – operazione militare speciale, viene chiamata con un eufemismo, contro l’Ucraina, s’iscrivono nelle vicine scuole finlandesi. Prima dell’invasione alcuni si erano già trasferiti in Finlandia. Altri, settecento mila, sono scappati in Kazakistan, Georgia e in altre repubbliche della ex Unione Sovietica. Il regime di Kiev, come detto da Putin all’inizio dell’invasione su larga scala dell’Ucraina, era ed è in mano ad una “Banda di drogati e nazisti”. I giovani russi, che temevano di essere arruolati nell’operazione militare speciale, scappati dalla Russia, sono stati definiti dallo stesso: la feccia. Non pago di tutto ciò, proprio nel giorno dell’invasione, in uno stadio moscovita, scomodò perfino il Vangelo, dicendo che non c’è scelta più bella di chi sacrifica la propria vita per gli amici. Tutti hanno percepito la bestemmia, senza nessun fraintendimento. Solo il patriarca russo Kyrill l’aveva benedetta. Quando il trono e l’altare vanno a braccetto, iniziano i guai più seri e per tutti. La storia ce lo insegna.
Quello che sta accadendo da due anni in Ucraina è la continuazione di ciò che è accaduto prima in Cecenia, con due guerre, poi in Siria con la distruzione di Aleppo, l’uccisione degli oppositori al regime, l’annessione unilaterale della Crimea e i torbidi successi nel Donbass dal 2014 fino all’inizio dell’invasione. L’Ucraina ha sbagliato forse, mandando subito i carrarmati, pensando di risolvere la questione da sola. L’Europa è stata assente per troppi anni, facendo affari con Putin fino ad accorgersi troppo tardi su come stessero veramente le cose. Lo ha detto chiaramente Lavrov, il ministro dello zar. Tutti gli Stati, che un tempo facevano parte dell’Unione Sovietica, non possono rivendicare apertamente l’indipendenza. Entrano tutti nell’influenza russa o nel mondo russo. Chi rivendica l’indipendenza viene bastonato. La sovranità degli altri è carta straccia. Conta solo quella della Federazione Russa.
La dittatura è uguale sotto qualsiasi cielo, latitudine e longitudine diverse. Si regge perché è appoggiata da loschi individui, questo è successo per il Fascismo, il Nazismo e il Comunismo. Medvedev, “eterno numero due” (Redazione Ansa Bruxelles, 22 febbraio 2024), ha irriso la vedova di Navalny, dimostrando una cattiveria senza aggettivi, augurandole una brillante carriera politica, dopo la morte del marito. L’ha chiamata “vedova allegra”. Mussolini, alla richiesta di chi gli chiedeva dove fosse Matteotti, rispondeva che non si trovava, forse perché era andato a donne. Nei giorni della morte di Mikhail Gorbačëv (1931 – 2022), Medvedev accusava l’anziano leader, già nella bara, di essere stato proprio lui la causa della guerra in Ucraina. Medvedev, in questi due anni, ha minacciato più volte l’apocalisse nucleare senza nessuna remora, dicendo chiaramente che, se la bomba atomica è stata usata dagli USA nella guerra contro il Giappone, nessuno può impedire alla Federazione Russa di fare altrettanto nella guerra contro l’Ucraina.
Non credo minimamente alle parole di Vladimir Putin dette a Irene Cecchini, studentessa lombarda in una università di Mosca: “l’Italia ci è sempre stata vicina, ricordo come sono stato accolto da voi, mi sono sempre sentito a casa”. È pura disinformazione russa, volta a disorientare l’opinione pubblica. Basta vedere come lo dice, mentre si alliscia le mani e guarda di traverso, mai negli occhi. Quel mi sono sempre sentito a casa, richiama lo slogan di Silvio Berlusconi: “L’Italia è il paese che amo”. Con una differenza: Berlusconi aveva tutto il diritto di dirlo, Putin no, e con lui, prima Sergey Razov, ora Alexey Paramonov, ambasciatori russi in Italia, sempre pronti a sparlare, raccontando di mani tese e di vipere e di altro.
In “questo giorno ch’omai cede alla sera”, ripenso al testamento spirituale di mons. Luigi Bettazzi che invita ad aprire percorsi di pace giusta, imporre sanzioni al paese aggressore, fornire aiuti umanitari all’aggredito ma non armi, perché non si vince una guerra con un’altra guerra. Nel cuore di ogni impegno civico ci metto anche la partecipazione per la tragedia avvenuta a Firenze, presso un cantiere edile, il cui crollo ha travolto, uccidendoli, cinque operai. Erano muratori, magutt in dialetto milanese. Quattro di loro, tutti di origine straniera, provenivano dalle province di Brescia e Bergamo. Qualche decennio fa, il lavoro da magutt era svolto da muratori del luogo. Lungo la provinciale Bergamo – Como non erano rari incidenti mortali che vedevano coinvolti muratori che rincasavano a sera tarda dopo una giornata di lavoro trascorsa nei cantieri edili della zona. Qualche pulmino, pieno di muratori, andava a schiantarsi sugli alberi a margine della strada. Mi sono cari quei luoghi perché li conosco bene per esserci vissuto per circa vent’anni.
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