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Libri Luigino Bruni, La civiltà della cicogna. Un’indagine storico – teologica alle radici della meritocrazia

Senza titolodi Raimondo Giustozzi

“La meritocrazia sta diventando la nuova religione del nostro tempo, i cui dogmi sono la colpevolizzazione del povero e la lode per la disuguaglianza. La sua origine si perde infatti nella storia delle religioni e dei culti idolatrici. La religione biblica è quella che si è più intrecciata con l’economia. Ma dove l’economia è più penetrata nella Bibbia è nella teologia retributiva. I beni e i mali che riceviamo nella vita sono il pagamento delle colpe e dei meriti nostri o dei nostri genitori. E così i ricchi erano ricchi due volte: per la vita e per la religione. Per difendere la loro idea di Dio giusto, quelle antiche religioni economiche condannavano i poveri, che venivano scartati dalla vita e da Dio. Poveri erano i mendicanti, ma poveri erano anche lebbrosi, ciechi, muti, zoppi, tutti accomunati dall’essere scorie della comunità” (Luigino Bruni, la civiltà della cicogna, un’indagine storico – teologica alle radici della meritocrazia, pp. 9- 10, Edizioni Sanpino, Torino, ottobre 2022).

Luigino Bruni (Ascoli Piceno 1966), economista e storico del pensiero economico, accademico, saggista e giornalista italiano, con interessi per l’etica, la teologia e la letteratura, ripercorre le radici storiche e teologiche della meritocrazia. Il risultato dell’indagine è il saggio di cui sopra. Il grazioso volumetto è diviso in due parti. Nella prima parte, l’autore richiama i fondamenti filosofici e teologici del merito, che da categoria teologica diventa dogma economico. Il tema viene sviluppato attraverso otto brevi paragrafi: le radici profonde della meritocrazia, il nome nuovo della diseguaglianza, gli effetti della meritocrazia, il sogno del dio Kratos, la meritocrazia spirituale dei leader, il tempo infinito della cura, del merito e delle ricompense, la civiltà della cicogna. Nella seconda parte attraverso alcune brevi escursioni viene dibattuto il concetto di merito nella Bibbia attraverso nove paragrafi: La fede non è un mercato: Qohelet 4, le scorie elementari del merito: Qohelet 9, la civiltà del pane donato: Qohelet 11, ma il buon futuro è senza merito: Giobbe 1, l’altra mano invisibile: Giobbe 13, il veleno della falsa misericordia: Giobbe 22, mai col sangue dei figli: 2 Re 9, doni che chiamiamo meriti: Salmi 127 – 128, i talenti, il merito, la rendita.

“Ci sono voluti millenni perché le civiltà umane (non tutte ancora) riuscissero finalmente a dire che la disabilità non è una maledizione, che l’indigenza materiale e psicologica non è uno stigma (condanna) morale ma una domanda e un grido dalla cui risposta dipendono la qualità civile e morale di una società. Ma quell’antica idea di povertà – maledizione non è stata mai sconfitta; ha cambiato forme (disoccupazione, inefficienza, immigrazione), si traveste e mimetizza (meritocrazia), ma è sempre più forte la sua capacità di convincerci che la povertà meritata degli altri non abbia nessun rapporto con le nostre ricchezze meritate, perché colpevolizzare le vittime è la più antica e semplice strategia per liberarci da ogni responsabilità – anche Caino provò a non essere responsabile per suo fratello, non rispose alla domanda di Dio (Dov’è tuo fratello?), negando che dovesse essere lui il custode” (ibidem, pag. 11).

Anche il Cristianesimo ha continuato a sviluppare il rapporto tra economia e fede, tanto che si parla di economia della salvezza. Talenti, dracme, monete, mercanti, amministratori popolano le parabole e molte immagini evangeliche. L’interpretazione della parabola dei talenti è diventata, attraverso i secoli, una lode alla logica imprenditoriale e capitalistica e persino della meritocrazia; è uno degli equivoci attraverso i quali il linguaggio della fede è diventato linguaggio economico. “Nel XX secolo, in Europa, abbiamo combattuto la diseguaglianza come un male; nel XXI secolo, è bastato cambiarle nome (meritocrazia) per trasformare la disuguaglianza da vizio a virtù pubblica. Destino bizzarro, se si pensa che la meritocrazia è stata ed è presentata come una lotta alla disuguaglianza – per questo la bizzarria che i fanatici della meritocrazia siano persone che in buona fede vorrebbero una società migliore e più giusta. Parola chiave di questo nostro tempo economico e politico, meritocrazia, è tra le poche parole capaci di raccogliere il consenso di (quasi) tutti, e così chi osa porre qualche domanda, magari distinguendo tra meritocrazia e meritorietà (preferendo la demo – crazia alla merito – crazia), viene subito additato come un sostenitore del demerito, magari per giustificare il proprio” (ibidem, pag. 13).

Per una definizione di termini che ritornano spesso nel saggio: Talento, nell’antica lingua greca, vuol dire “un peso”; la parola ebraica è kikkâr vuol dire “tondo”, probabilmente per la forma del peso. Nell’Antico Testamento è il peso più grande, circa 30 chilogrammi. Anche gli Assiri usavano la stessa unità di misura. Ezechia diede ad Assiria 300 talenti d’argento. Presso i Babilonesi esisteva un doppio talento, di circa 60 chilogrammi. Nel Nuovo Testamento, le stime di un talento vanno da 20 a 50 chilogrammi, “mezzo quintale”. In realtà non è una moneta, ma un valore molto alto, che varava secondo l’epoca e il luogo. Il talento romano valeva 6000 denari (Mt. 18:24; 25:15-28). Merito. La parola deriva dal verbo merěo, merěs, merui, meritum mērere, significa guadagnare, ottenere; dal verbo latino derivano le parole mercede, lucro, meretrice. Meritocrazia, termine composto da merito (verbo latino mērere = guadagnare) e il termine greco kratos = potere); potere al merito, spesso confuso con il talento, che è un dono ricevuto non conquistato.

La meritocrazia, prima di diventare dogma economico, era una categoria religiosa e teologica. Lucrare meriti, guadagnarsi il paradiso, sono temi ed espressioni che sono stati per secoli al centro della pietà cristiana e continuano ad accompagnare ancora oggi la vita dei cattolici. Da qualche anno la meritocrazia è uscita dai dibattiti delle aule delle facoltà di teologia, ha dimenticato le dispute dottrinali di Paolo, Agostino, Pelagio, Lutero ed è entrata nelle aule più eleganti e moderne delle business school, dove questi temi sono affrontati senza competenza teologica. Vilfredo Pareto, alla fine dl 1800, dimostrò che le diseguaglianze nei redditi rispondono a leggi distributive simili in tutte le società perché legate alle intelligenze diseguali, e, in quanto naturali dovevano semplicemente accettarle come un dato di natura (pag. 15).

Nonostante questo pensiero, tutto il XX secolo si è adoperato non poco, tranne i mostri prodotti, a ridurre le diseguaglianze, consentendo alle donne di poter studiare e lavorare, ai bambini di non lavorare più per andare a scuola, agli anziani di poter smettere di lavorare e avere una pensione per vivere con dignità l’ultima stagione della vita. Tutto cambia quando si impone la meritocrazia che amplifica le diseguaglianze, considerando i talenti naturali non come dono ma come merito. Chi invoca la meritocrazia pensa che il merito sia qualcosa di unidimensionale, tutto sommato semplice da individuare, pesare e usare come criterio per le buone scelte. Se questo è vero per alcuni ambiti nei quali si ricercano competenze specifiche, non lo è più quando si devono valutare meriti e titoli da usare per assegnare un posto da dirigente nell’area del personale di una grande o media impresa. Meriti e titoli coronati da un master in “risorse umane” presso le più prestigiose università sono facili da pesare ma non sono sufficienti alla prova dei fatti. Meriti relazionali e qualitativi sono difficili da ordinare e valutare, anzi per non sbagliare, si tolgono del tutto. Si assumono solo manager con master e PhD (dottorato), ma demeritevoli in relazioni, etica e umanità.

“Oggi le imprese non soffrono e chiudono solo per mancanza di fatturato e di capitali finanziari, ma anche per carestia di capitali relazionali e spirituali, e per un relativismo relazionale ed emozionale che porta a non saper più dire parole come “scusa”, “perdonami”, parole che, quando mancano, bloccano le imprese come e più del razionamento del credito. Il cosiddetto “capitale umano” è la prima risorsa di ogni impresa, ma è un capitale plurale, fatto di molte dimensioni e competenze” (pag.24). C’è bisogno di una ridiscussione pubblica di cosa sia il merito e della sua natura plurale.

La meritocrazia allontana sempre più gli individui gli uni dagli altri. Uccide il tempo infinito della cura, distrugge la gratitudine perché sinonimo di libertà e di dono. Tutto viene regolato dal principio del merito acquisito attraverso titoli e master, simboli di una corsa senza fine. Chi ha la fortuna di nascere in un ambiente e in una famiglia con solide basi economiche può frequentare tutte le università più prestigiose e scalzare chi non può frequentarle perché privo di risorse finanziarie. La sua affermazione incontrastata porterà di qui a breve alla scomparsa delle civiltà della cicogna: “Le civiltà della cicogna sono quelle che hanno saputo tenere insieme la gratitudine verso i vecchi e l’amore per i bambini” (Ibidem, pp. 53 – 54).

Il merito nella Bibbia: escursioni

Per Qohelet 4 la fede non è un mercato. Qohelet non si limita ad osservare le vanità della vita civile “sotto il sole” (“Vanità delle vanità, tutto è vanità”), ma passa al setaccio il culto, le preghiere e la principale pratica religiosa del suo tempo: i sacrifici. La vita religiosa richiede attenzione, cura, custodia, “shamar” in ebraico, che Caino non conosce. “Dov’è Abele, gli chiede Elohim?”. “Sono forse il custode di mio fratello?” (Genesi 4,9). Adam, se non vuole diventare come Caino deve prendersi cura del fratello e della terra, ma deve prendersi cura anche del suo rapporto con Dio. Quando manca la cura, la custodia, le religioni si trasformano in culto idolatrico, o semplicemente in stupidità, dice Qohelet. Prendersi cura della vita religiosa significa prima di tutto silenzio, ascolto. Qohelet preferisce un Dio lontano a un dio troppo vicino. Meglio restare sempre nell’attesa di Dio, più che incontrarsi con uno stupido feticcio. Il rapporto tra gli uomini e Dio non è di tipo mercantile; dare per avere. La fede di Israele nasce all’interno delle culture mesopotamiche, dove era normale leggere la religione come un rapporto di scambio con un Dio – sovrano, una sorta di “partita doppia” tra il fedele e la divinità, dove i sacrifici e i voti diventavano la moneta di questo commercio. Qohelet e i profeti, prima, Cristo, dopo, hanno il compito di portare la fede fuori da questi schemi.

Nell’Antico Israele ma anche nelle prime comunità cristiane le disuguaglianze venivano viste come volute da Dio. Se non era possibile superarle in questo mondo, c’era però un altro mondo, dove sarebbero state superate. In questo modo, il ricco e il potente erano “benedetti” senza essere chiamati a nessuna conversione. I poveri e gli sventurati erano condannati due volte: dalle sciagure della vita e da Dio. Rimaneva per loro la consolazione che al termine della vita sarebbero stati premiati e i ricchi ma empi, puniti. Se la terra è ingiusta, il paradiso non lo è. Rimaneva la logica economica – retributiva, ma l’orizzonte della sua applicazione usciva dal tempo storico per estendersi all’eternità o almeno ad un’altra vita. Sono le ultime scorie del merito che faticano a scomparire: “La produzione di massa di sensi di colpa diventa la grande scoria della nostra economia, alimentata dall’aggressività, superbia e spocchia che accompagnano i laudatores della meritocrazia. Qohelet dice che leggere la nostra vita e quella degli altri come una contabilità meriti / premi, demeriti / punizioni è una soluzione vana e ingannatrice alla domanda di giustizia sotto il sole, perché il meccanismo del merito non può rispondere alle domande più profonde sulla giustizia, neanche su quella economica” (pag. 67).

La legge della vita feconda è l’eccedenza, la magnanimità, la generosità. Il grano del pane cresce e ci sfama se seminiamo più di quanto dovremmo, se andiamo oltre il calcolo d’efficienza, se gettiamo nel terreno più semi dello stretto necessario: “Chi sta a guardia del vento non semina, chi è guardiano delle nuvole non raccoglie … Semina la tua semente al mattino, e non ti cada la mano fino a sera. Perché il buon seme non lo conosci. L’uno o l’altro può essere, o ciascuno” (Qohelet 11, 4-6). Quella indicata da Qohelet è una sapienza dell’eccedenza, del superamento dei confini del ragionevole e della convenienza, sociale e religiosa. L’amore puro è pericoloso, è sovversivo.

“Il libro biblico di Giobbe è quello che più di tutti ha combattuto la logica economica – retributiva della fede. Satan sfida Elohim e Giobbe, Dio e l’uomo, per provare se è possibile che sulla terra ci sia almeno un uomo che tema – ami Dio gratuitamente, senza essere pagato. Sappiamo essere buoni e giusti per il valore intrinseco della bontà e della giustizia, o solo perché speriamo in qualche ricompensa? Siamo capaci di amore puro o, invece siamo soltanto dentro un registro commerciale di dare – avere? Si comprende allora che il tema della gratuità è profondamente legato a quello della libertà: che cosa resta della libertà nostra e di quella degli altri, se, in realtà, nel cuore delle nostre azioni c’è un padrone che pagando ci fa fare quello che vuole – il primo ad essere liberato in ogni superamento delle religioni retributive, ieri e oggi, è Dio stesso che finalmente esce dai palazzi dei re e viene ad abitare in mezzo a noi” (Il buon futuro è senza merito, Giobbe 1. pag. 75, op. cit.)

“La felicità e il dolore di una civiltà dipendono molto dalla sua idea di Dio. Questo vale per chi crede ma anche per chi non crede, perché ogni generazione ha un suo ateismo profondamente legato alla sua ideologia dominante. Credere in un Dio all’altezza della parte migliore dell’umano, è un grande atto di amore anche per chi in Dio non ci crede. La fede buona e onesta è un bene pubblico, perché essere atei o non credenti in un dio reso banale dalle nostre ideologie, rende tutti meno umani. Se oggi le fedi vogliono fare casa all’uomo e alla donna del nostro tempo dal cielo vuoto, devono recuperare l’ombra dentro la luce di Dio, abitandola e attraversandola insieme ai tanti Giobbe che popolano il mondo” (Ibidem, l’altra mano invisibile, Giobbe 33, pp. 80 – 81).

“Il canto di Giobbe è un canto essenziale per chi crede ancora nella religione meritocratica. Quando una persona, una comunità, una organizzazione, una corrente di pensiero viene catturata dall’ideologia, arriva non solo a negare l’evidenza, ma, quasi sempre d’inventare fatti, storie, parole. Se è vero che non c’è giustizia senza misericordia, Giobbe ci dice che non può essere vera neanche una misericordia sena giustizia” (Ibidem, Il veleno della falsa misericordia, Giobbe 22, op. cit. pp. 85 – 91).

“L’ideologia del merito è anche l’ideologia del demerito, i sistemi che premiano i meritevoli devono necessariamente punire i demeritevoli, o ogni merito – crazia è anche una demerito – fobia. Senza punire chi ha meritato le punizioni non è possibile premiare chi ha meritato i premi. Ma siccome siamo molto più capaci di trovare le colpe (negli altri) dei meriti, i sistemi meritocratici sovrabbondano di pene, perché alla base di ogni sistema meritocratico c’è un profondo pessimismo antropologico, anche quando è mascherato da belle parole sulle virtù e sui premi” (Ibidem, Mai col sangue dei figli, 2 Re 9, pp. 91 – 96).

L’eccedenza più importante non è quella che esce dal nostro cuore, è quella che vi entra. È quella che riceviamo non quella che doniamo, è quella che vediamo accadere in noi e attorno a noi, quel pane che nutre noi e i nostri amici mentre dormiamo. Quando un giorno finalmente capiamo che le cose più belle che hanno benedetto la nostra vita non sono frutto del nostro impegno, ma solo e tutto dono, solo e veramente grazia, solo e sempre provvidenza. L’eccedenza è il cuore dei Salmi 127 e 128: “Se il Signore non costruisce la casa, invano si affaticano i costruttori. Se il Signore non veglia sulla città, invano veglia la sentinella. Invano vi alzate di buon mattino e tardi andate a riposare, mentre voi un pane di fatica mangiate, l’amico di Dio mentre dorme lo riceve “(Ibidem, Doni che chiamiamo meriti: Salmi 127 – 128, pp.97 – 102, op. cit.).

L’ultimo paragrafo del libriccino invita a leggere bene il vangelo. I talenti sono affidati dal padrone: non sono né regalati né legati al merito dei servi (Talenti, merito e rendita Ibidem, pp.102- 108). “la critica biblica al merito, soprattutto quella sapienziale, è fondamentale per capire i pericoli insiti in una intera vita sociale costruita a partire dalla logica del merito” (Conclusione, pp. 109- 110).

Raimondo Giustozzi

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