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Dimensione criminale | La Russia è un impero morente che non ha mai accettato la fine del colonialismo.

Senza titoloda Raimondo Giustozzi

Il continente euroasiatico è popolato da una gran varietà di popoli, culture e storie soppresse dal giogo autoritario di Mosca, dall’epoca degli zar fino a Putin.

L’idea che la Russia non sia parte della storia del colonialismo europeo ha una risonanza sorprendente in Occidente e nei Paesi del Sud del mondo. Un racconto distorto che trova forza nella storia del sostegno sovietico ai movimenti rivoluzionari e indipendentisti in mezzo mondo, specialmente in Africa. Questa rappresentazione però non corrisponde alla realtà.

Effettivamente l’impero russo non ha mai avuto colonie in Africa e nelle Americhe come gli imperi coloniali dell’Europa occidentale, ma pur non avendo partecipato al colonialismo moderno delle potenze marittime ha trascorso secoli a conquistare e colonizzare il suo vicinato in Eurasia, abbattendo sovranità locali, invadendo territori, impegnandosi in pratiche genocide come le carestie mirate contro gli ucraini (Holodomor) e i kazaki (Asharshylyk), imponendosi con la forza su popolazioni che – a causa dell’impenetrabilità del colonialismo russo – oggi risultano quasi sconosciute.

Ma per chi l’ha vissuta, la natura della Russia come potenza imperiale è incontrovertibile, una storia coloniale che ha lasciato enormi ferite storiche e una lunga serie di conflitti disseminati tra i Paesi dello spazio post-sovietico, una definizione quest’ultima che da sola è sufficiente per riconoscere sulle mappe geografiche l’esistenza del colonialismo russo.

Dopo la prima guerra mondiale l’impero russo evitò lo smembramento definitivo che colpì altri imperi terrestri e multietnici, come l’impero ottomano e l’Austria – Ungheria. Successivamente, l’Unione Sovietica non solo riconquistò la maggior parte delle terre non russe che avevano dichiarato l’indipendenza da Mosca sulla scia della rivoluzione bolscevica del 1917 – tra cui l’Ucraina, la Bielorussia, la Georgia, l’Armenia e l’Azerbaijan –, ma nel corso della Seconda guerra mondiale riuscì anche a espandersi annettendo la Moldavia, la parte più occidentale dell’Ucraina, e altri territori.

Dopo la Seconda guerra mondiale neanche l’Unione Sovietica partecipò alla nuova fase di decolonizzazione. Mentre gli imperi di Francia e Regno Unito si dissolvevano seguendo il nuovo corso della storia del dopoguerra, l’impero sovietico aumentava la sua portata, rafforzando la presa nei Paesi dell’Europa centrale e orientale reprimendo con la violenza ogni tentativo di distaccarsi dal dominio di Mosca.

Neanche il crollo dell’Unione Sovietica e la disgregazione in quindici repubbliche indipendenti ha posto fine all’imperialismo russo. Qualche anno dopo aver cominciato a risollevarsi la Federazione Russa iniziò a dedicare un impegno sempre maggiore alla ricostituzione del suo impero, pezzo dopo pezzo. All’epoca l’invasione della Georgia nel 2008 per molti sembrò un’eccezione, una delle ultime azioni di forza di una “democratura” – oggi diremmo autocrazia – che si stava avviando su percorso di normalizzazione.

Invece era la regola, la fase successiva di una dottrina geopolitica di lungo termine che vede nell’istigazione dei movimenti separatisti nei Paesi vicini facendo leva sulle minoranze russe, nelle invasioni militari, nelle annessioni illegali, nello schieramento di mercenari, negli avvelenamenti degli avversari politici e nelle massicce campagne di disinformazione lo strumento per ricostruire la grandezza imperiale della Russia.

Anche all’interno della Federazione Russa, che resta un mosaico di terre e popolazioni conquistate e colonizzate dagli zar, gli sforzi di tenere unito il nucleo dell’impero si sono spinti fino a guerre atroci come quelle in Cecenia.

Gli europei ricordano poco questa storia, spesso la conoscono appena, e in generale non hanno un’idea compiuta delle popolazioni e delle nazioni dentro e intorno alla Russia. Fino a poco tempo fa, quando si parlava di spazio post-sovietico si fondeva facilmente la Russia con l’Unione Sovietica, minimizzando le storie, le culture e le identità nazionali dell’Europa orientale, dei Paesi baltici, del Caucaso e dell’Asia centrale; per non parlare dei popoli non russi che fanno parte dei vasti territori della Federazione Russa.

Tutto ciò ha creato inconsapevolmente un paradigma in base al quale le ex colonie russe sono percepite come parte dell’orbita della Russia anche molto tempo dopo il crollo dell’Impero russo e dell’Unione Sovietica. Ma è come se raggruppassimo il Marocco, l’Algeria e la Tunisia nell’orbita della Francia; o la Nigeria e il Sudafrica in quella del Regno Unito.

Il caso dell’Ucraina oggi è il più evidente, una nazione che per per centinaia di anni ha avuto una storia distinta dalla Russia, ma di cui fino a dieci/quindici anni la maggioranza delle persone sapeva troppo poco per rendersi conto di quanto fosse grande la differenza tra ucraini e russi, e quanto profonde le ferite storiche che li dividevano.

Una percezione simile a quella che si poteva avere della Bielorussa, Paese che fino a pochi anni fa appariva quasi indistinguibile dalla Russia, e che invece ha una sua identità nazionale e una voglia di libertà e indipendenza emersa con forza nelle proteste del 2020/2021.

Più suggestivo il caso dei Paesi dell’Asia Centrale, nazioni orientali lontane dall’Europa che hanno fatto parte dell’impero russo e dell’impero sovietico pur essendo storicamente, linguisticamente ed etnicamente legati al mondo turco e islamico. Popoli e Paesi poco conosciuti, se non per nomi suggestivi di città come Astana o Samarcanda, e per le mappe dell’antica Via della Seta.

Le conseguenze della guerra in Ucraina hanno spinto il Kazakistan, il Kirghizistan, il Tagikistan, il Turkmenistan e l’Uzbekistan a dimostrare con più assertività la propria soggettività e indipendenza dall’influenza della Russia, pur essendo ancora delle autocrazie e dittature nelle mani di élite di formazione sovietica che non hanno una visione ostile al Cremlino.

Anche la strumentalizzazione del termine “Eurasia”, originariamente una nozione del tutto geografica, riecheggia la volontà di creare un pensiero politico a sostegno del colonialismo russo. Quando Ucraina, Bielorussia, Moldavia, Georgia vengono poste sotto l’etichetta “Eurasia” – cosa che accade spesso con alcuni esperti di geopolitica – il messaggio implicito è che si tratta di ex colonie russe rimaste nella sfera di influenza della Russia.

Tuttavia, anche buona parte del mondo accademico occidentale presenta la Russia come il monolite dell’Eurasia, con poca attenzione per le popolazioni indigene del Paese. In questi anni in cui la Crimea è al centro dell’attenzione internazionale ci si è soffermati davvero poco sulla storia delle deportazioni dei tatari di Crimea nell’era di Stalin e la loro sostituzione nella penisola con coloni russi. Eppure, è proprio attraverso quell’operazione di pulizia e sostituzione etnica che oggi la penisola viene presentata come russa poiché in maggioranza è abitata da russi.

Una politica di violenza coloniale non molto diversa da quella che Putin sta applicando nei territori ucraini occupati, uccidendo e facendo scappare gli ucraini, e trasferendo bambini ucraini in Russia per affidarli a famiglie russe.

Mosca aveva molte opportunità di sviluppare una pluralità politica al suo interno e un’egemonia costruttiva nello spazio post-sovietico, ma a differenza degli imperi europei crollati sotto il peso della storia, la Russia non ha mai accettato la fine della dimensione coloniale, restando un impero morente che non è ancora venuto a patto con i suoi nuovi confini, non solo geografici.

Linkiesta – Esteri, 22 luglio 2023

Di Federico Bosco

 

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