bacheca social

FAI UNA DONAZIONE





Sostieni questo progetto


A tutti i nostri lettori

A tutti i nostri lettori . Andremo dritti al punto: vogliamo chiederti di proteggere l’indipendenza dello Specchio Magazine. Se tu e tutti coloro che stanno leggendo questo avviso donaste un caffè, potremmo permetterci di far crescere l’Associazione lo Specchio e le sue attività sul territorio. Tutto quello di cui abbiamo bisogno è il prezzo di una colazione o di una rivista nazionale. Questa è la maniera più democratica di finanziarci. Con il tuo aiuto, non negheremo mai l’accesso a nessuno. Grazie.
marzo 2023
L M M G V S D
« Feb   Apr »
 12345
6789101112
13141516171819
20212223242526
2728293031  

Quartiere San Marone: Le case popolari di via D’Annunzio, le Casermette, le Sette Sorelle

Le casermettedi Raimondo Giustozzi

Le Case popolari di Via D’Annunzio

Tutti, a Civitanova Marche, le conoscono come “Le case di via Napoleone”. La toponomastica della strada è un chiaro segno di riconoscenza verso l’Amministrazione Bonaparte che ha legato i propri destini, per più di cento anni, a quelli della cittadina adriatica. Sono le case popolari che si distribuiscono, sulla destra, all’incrocio di San Marone, subito dopo il centro SERT (Servizio Educativo Recupero Tossicodipendenti) ed il tabaccaio Paoloni, sul fronte della via G. D’Annunzio che conduce a Civitanova Alta. Per tutti gli anni cinquanta ed oltre, con l’arrivo dei salesiani è stato un po’ il fulcro delle diatribe tra la casa del Popolo e la Canonica. Niente di nuovo sotto il sole rispetto a quanto accadeva in tutta Italia attraversata allora da problemi di ogni sorta, primo tra tutti la ricostruzione materiale, ma anche civile e morale del Bel Paese dopo i lutti della guerra.

Sono state costruite, nell’immediato dopo guerra, dall’Istituto Case Popolari. Altri, a Roma, negli anni del boom economico “Andavano tutti in via Veneto”, a Milano, in via Monte Napoleone. Nella città rivierasca, dopo gli anni della guerra, si andava più modestamente ad abitare nel cortile di  via Napoleone. Assunta, vedova Cerquetti, il grande Pietruccio, autore della famosissima “Canzone degli sfollati”, vi entrava da sposa dopo il 6 Settembre 1947. Le case, quelle che si dispongono parallelamente sul fronte della strada, erano state consegnate, chiavi in mano, nel giugno dello stesso anno. Due lunghi corpi di fabbrica, con al centro un cortile rettangolare, sul retro del vasto complesso, si aprono gli spazi dell’oratorio salesiano. Le altre due abitazioni, quelle disposte perpendicolarmente al nastro stradale, sono state costruite dall’INA Case diversi anni dopo.

La fame di case, dopo i bombardamenti della guerra, era assai sentita a Porto Civitanova. I residuati bellici, come se non bastassero gli affanni esistenti a tingere di fosche prospettive il futuro individuale e collettivo, facevano di tanto in tanto danni incalcolabili che si sommavano a quelli già in atto. E’ quel che accadde infatti nella frazione Fontespina, poco lontano dall’area dove per anni era ubicato il Liceo Scientifico “L. Da Vinci”, già colonia estiva del Convitto di Macerata, ora occupata da un grande supermercato. L’esplosione di una bomba sventrò diverse case e causò anche delle vittime.

I sopravvissuti non trovarono di meglio che entrare, fino a non uscirne più, nelle palazzine che l’Istituto Autonomo Case Popolari aveva costruito dietro a quelle già esistenti sul fronte della strada. Il lungo cortile rettangolare, che delimitava sul retro le due file di costruzioni, si era ben delineato ed era luogo di incontro e di socializzazione, ma anche di “cagnare” che scoppiavano improvvise tra i diversi condomini. Bastava un nonnulla: un bambino che aveva rotto qualcosa, altri che schiamazzavano e disturbavano la quiete di chi voleva riposare nel primo pomeriggio. Qualcuno, ora diventato grande, ricorda che aveva quasi paura ad attraversare, da bambino, il cortile interno.

C’era poi anche tanta gelosia dell’uno verso l’altro. Chi vantava un lavoro ed una paga sicuri, veniva visto con malcelata invidia da chi invece faceva fatica a sbarcare il lunario. Era un cortile “casinaro”, ricordava la signora Assunta. L’ignoranza era tanta, frutto di tanti fattori: bisogni primari da soddisfare, lavoro che non c’era, vita materiale precaria, mancanza di istruzione. Ognuno insomma aveva i suoi motivi per esplodere in atti di rabbia improvvisi verso chiunque. “Quando si entrava in casa, ci si sgrullava li piedi”, ad indicare il gesto materiale, ma anche metaforico. Ci si liberava insomma della polvere, del fango o della neve, a seconda delle stagioni, ma anche di quello che si era visto o ascoltato in cortile. Bastava poco per compromettersi se si dava ascolto a tutte le chiacchiere.

Eppure, in questo quadro affatto idilliaco, c’era chi pensava ad innalzare il livello culturale della gente. Veniva su, giorno dopo giorno, con il lavoro di molti, la Casa del popolo, un luogo nel quale, tutti, secondo gli ideatori di questa struttura, avrebbero trovato spazi, mezzi e strumenti per crescere nella cultura e nell’istruzione. “Pietruccio solo sa quanti mattoni ho contribuito a portare sul posto per edificare la costruzione”, diceva Assunta. Col tempo, i locali sarebbero stati forniti di libri. L’istruzione come riscatto sociale. E’ stato l’orizzonte ideale non solo di Pietruccio, ma di tutti quelli che anelavano ed anelano, se mai ce ne sono ancora, all’innalzamento dell’umano, schiaffo e provocazione verso l’atteggiamento del miope benpensante abituato solo a tranciar giudizi ed a collocare il bene tutto da una parte ed il male tutto dall’altra. In ogni manifestazioni della vita quotidiana, anche nei confronti di quelle più discutibili, ci sono sempre delle ragioni che devono essere considerate con religioso rispetto. L’umanità vera è là dove c’è sofferenza ma sopportata anche tanta dignità. Certo, è abissale il tempo che ci separa da questo universo di pensiero. Tutti ad aspirare tutto, ma anche tanta frustrazione.

Cosa non è capace di fare il consumismo sfrenato, predicato a piane mani da tutta una pubblicità! “Alla fine degli anni sessanta e nei primi anni settanta”, annotava con rammarico Pier Paolo Pasolini, “sono iniziate a scomparire le lucciole”. Scompariva tutto un mondo, assieme a queste care compagne della propria infanzia, e sulle sue rovine ne nasceva un altro, quello attuale, migliore per la maggiore disponibilità di beni materiali, ma più povero di umanità, più chiuso ed egoista perché sono cambiati parametri del confronto.

Dietro le case di via Napoleone si apriva la campagna inondata di grano dalle spighe mature nei giorni immediatamente precedenti lo “mète”. A notte comparivano lucciole fosforescenti. Si sentiva il profumo inebriante del fieno lasciato ad essiccare. Si raccoglievano frutti ad ogni volgere di stagione: uva, pesche, ciliegie. Nel terreno crescevano “smoracce”, “grespegne”, “grugni”, “caccialepre”, le erbe che in tanti andavano a raccogliere per preparare il frugale pasto di mezzogiorno o della sera. Fatte bollire ed insaporite con un po’ d’olio e di sale, si accompagnavano all’immancabile sardella, mai intera; facevano da primo e da secondo.

Là dove è ora la tettoia dell’oratorio San Domenico Savio, per lunghi anni luogo di incontro di anziane signore, le “beate” chiamate amichevolmente dai ragazzi, che amavano trascorrere diverse ore in compagnia, c’era la casa colonica di Marinelli. Annina e Maria avevano gli occhi lucidi quando ricordavano il bel tempo andato. Nell’aia chiocciavano le galline e starnazzavano papere ed oche. Era ancora viva nel loro ricordo l’asina “Olga”, la mascotte di bambini e bambine di allora, ora nonne vispe ed arzille con tanta voglia di vivere, di parlare e di raccontare. Quando Olga morì si celebrò quasi una sorta di funerale, tanto le erano affezionati.

Da Marinelli si andava per prendere il latte ed era una manna per chi doveva allattare il proprio bebè e non aveva il latte al seno; ogni recipiente era buono, anche una qualsiasi casseruola, in barba all’igiene e ad altro. I figli crescevano sani e forti. Il contadino stesso aveva le “poste”, i clienti ai quali portava direttamente il latte richiesto. Bello il termine dialettale. Nell’antica Roma, le “Positae” erano le stazioni di servizio disseminate lungo le strade consolari, nelle quali si poteva consumare un pasto, cambiare i cavalli o pernottare. Dalle “Positae” alle “Poste”, passando attraverso secoli di storia. Sono i poveri che inventano le parole perché queste rispondano ai loro bisogni ed a volte lo fanno in modo egregio, meglio di cattedratici e luminari che irridono i primi considerati come zotici e villani perché non parlano il loro idioma. Bastavano solo quattro soldi per acquistare un po’ d’olio dal negozio “Valentini”. Marì, ‘Ngioletta, le “pesciarole” storiche che giravano per il cortile di via Napoleone.

Ma la storia corre.  Arrivano i primi anni Settanta. Nel febbraio 1975 escono i Decreti Delegati. Sono il banco di prova delle prime forme di partecipazione dei genitori nella vita della scuola.  E’ un fervore di idee. Si vive una stagione esaltante, quella di voler cambiare radicalmente il volto delle istituzioni. Sono i semi buoni del ’68. Chi non aveva mai partecipato alla vita politica, trova una strada nuova per farlo, quella delle elezioni per le rappresentanze studentesche nelle scuole, operaie nelle fabbriche, di semplici cittadini nei comitati di quartiere. Anche la parrocchia di San Marone vive questa atmosfera. Da alcuni compagni vicini al Partito Comunista Italiano viene la proposta di redigere una lista unica per le elezioni dei genitori nel Consiglio di Istituto delle Scuole Elementari. I più disponibili al confronto sono quelli della “vecchia guardia”, i più combattivi si dimostrano i più giovani. L’invito veniva fatto proprio dal compianto e indimenticabile don Giorgio Rossi, incaricato dell’oratorio. Il parroco don Raffaele Montinovo appoggiava l’iniziativa, anche se suggeriva accortezza e discernimento nelle scelte. Due gli schieramenti che si fronteggiano. Da un lato i sostenitori dell’ortodossia marxista vedono nei cattolici i nemici di sempre, dall’altro, i difensori della  dottrina cattolica guardano ai primi come agli avversari di sempre.

Tra i due opposti allineamenti, si mettono i dissidenti dell’una e dell’altra fronda. Sono proprio quest’ultimi ad aver ragione. Viene redatta una lista unica di genitori. Il motivo: non disorientare i figli circa le mete educative di fondo. Bianchi e Rossi hanno a cuore la formazione della gioventù. Prevalgono il dialogo e l’apertura mentale verso chi è dall’altra parte del fiume. E’ quello che viene raggiunto dopo interminabili riunioni trascorse nella sala dell’oratorio. E’ un altro capitolo di storia iscritto negli Annali della Parrocchia San Marone e del quartiere di via Napoleone.

Il Villaggio Ina Casa ovvero “Le Casermette”.

Civitanova metà degli anni cinquanta. Il vecchio tram sferragliava lungo la via D’Annunzio per diverse volte nel corso della giornata. Saliva verso la Città Alta e ridiscendeva per Porto Civitanova. Sulla piattaforma, il solito capannello di operai che lavoravano alla “Cecchetti”. Era un parlottare continuo, di tutto e di più. Il conducente, Secondo Antonelli, burlone come nessun altro, superata la semi-curva, all’altezza della casa colonica di Cerolini, detto “Vapore”, getta uno sguardo fuori dal finestrino ad  osservare la collina soprastante, sulla sinistra. Era attivo il cantiere edile. Le abitazioni commissionate dall’istituto per le case popolari venivano su giorno dopo giorno. “Toh! A me sembrano proprio le casermette”. Da allora, nel linguaggio comune sono chiamate così. Se si chiede ad un qualsiasi abitante di Civitanova Marche dov’è “Il villaggio Maria Ausiliatrice”, nessuno saprebbe rispondere. Tutti lo conoscono come “Le Casermette” e questo basta, anche se ad alcuni abitanti del villaggio, la cosa all’inizio non andava proprio giù.

In quattro, cinque anni, le case venivano ultimate. Mancava solo l’assegnazione delle abitazioni a chi ne aveva fatto richiesta. Correva l’anno 1959, ricordato da tutti a Civitanova Marche come quello dell’alluvione. Il 5 Settembre del ’59, il Castellaro era esondato ed aveva fatto anche delle vittime, in altre parti della città le stesse scene di desolazione e distruzione. Gli alluvionati erano tanti. Si temeva che ad occupare se pur temporaneamente le case costruite lungo la via D’annunzio fossero loro. Non avvenne nulla di tutto questo. Alcuni cittadini, tra cui Domenico Aggarbati, si recarono a Macerata presso l’Istituto Autonomo per le case popolari, per sollecitare chi di dovere. Le case vennero assegnate alle 52 famiglie in meno di un mese. Era il 2 Ottobre del 1959. I Contratti di locazione per gli alloggi INA- CASA  vennero firmati e dati tutti nello stesso giorno, concluso con una grande festa collettiva. In molti ancora lo ricordano con grande soddisfazione. Era il coronamento di un sogno.

Tutto attorno al villaggio era campagna profonda, campi coltivati a grano e viti. Forse anche questo contribuiva nell’immaginario collettivo ad identificare le case come delle piccole caserme, lontane dal centro abitato. Erano già stati costruiti negli anni precedenti altri alloggi INA- CASA, quelli lungo via Dante: le “Sette Sorelle” negli anni trenta  e le case popolari all’inizio di via D’Annunzio, ricordate nell’articolo precedente. Indubbiamente il posto delle “Casermette” era migliore: stradine di servizio che scendevano lungo il pendio e che si raccordavano con altre due, l’una posta in alto, parallela alla via Mercantini, l’altra in basso, parallela alla via D’Annunzio. Ogni casa aveva il suo orto, trasformato col tempo in giardino, poi tanti spazi comuni: una pinetina, dove prendere il fresco durante le sere d’estate, alberi piantumati dagli operai che lavoravano per la ditta “Giustozzi fiori” e commissionati sempre dall’Istituto.

L’ingegnosità degli abitanti arricchiva di anno in anno il villaggio di un piccolo bocciodromo, dove giocare a bocce, di panche, tavolini attorno ai quali parlare dei fatti del giorno o socializzare momenti di vita comune. Ogni famiglia aveva chi due, chi tre bambini ed il giardino era un vociare ed un rincorrersi continuo di “frichi” e “friche”. Non era raro il caso che di tanto in tanto si rompesse qualcosa. Gli adulti provvedevano a riparare. Era tradizione la cena del villaggio. Ognuno portava qualcosa di suo. Chi confezionava dolci e torte, chi metteva la pasta, la grigliata di carne, chi il vino e si trascorrevano ore in perfetta armonia. Col tempo si è persa questa tradizione, mi raccontavano molti anni fa con rimpianto uomini e donne che mi hanno fornito tutte le informazioni per impiantare il pezzo.

Alcune delle famiglie assegnatarie degli alloggi: Aggarbati, Sagripanti, Marinelli, Comodo, Borraccini, Offidani, Ercoli, Troiani, Moretti, Tosoni, Gregori, Formiconi, Lupi, Macellari, ecc. Mettere tutti i cognomi sarebbe lungo. Basso il canone d’affitto: 4.580 lire mensili, come nel canone d’affitto: “da corrispondersi anticipatamente in valuta legale entro i primi cinque giorni di ciascun mese, nel luogo indicato dal locatore”.  Quattro le famiglie per ogni palazzina, con l’ingresso in comune. Alcune abitazioni sono un po’ più grandi, quelle che si affacciano sulla via D’Annunzio. Hanno una stanza in più, ovviamente il canone d’affitto era di poco superiore a chi aveva solo tre stanze. Il riscaldamento era assicurato dalla stufa economica, quella con i cerchi in ghisa, che si toglievano uno ad uno per rimpinzarla meglio di legna. Serviva per cucinare e per riscaldarsi.

Molte le norme che regolavano la vita comune: “I locatari stessi dovranno avere cura di usare quelle precauzioni e quegli accorgimenti atti a garantire la cordiale convivenza e la tranquillità reciproca; in particolare, coloro che hanno in custodia bambini, dovranno impedire che questi arrechino danni all’immobile e molestia ai vicini. Dovranno essere osservati i regolamenti municipali riguardanti la pulizia e l’igiene, nonché le ordinanze emanate in proposito dalle competenti Autorità”. Regolamento, testimonianze, ricordi, tutto rimanda ad una idea di Comunità Villaggio quale si andava diffondendo allora in Italia, con norme precise: “Sono a carico del locatario le spese per il servizio di portierato, l’illuminazione delle parti comuni…. Lo sgombero delle immondizie, della neve, nonché qualunque altra spesa che riguardi la prestazione di un servizio” (Cfr. Contratto di locazione per gli alloggi INA- CASA).

Quasi tutte le famiglie hanno riscattato col tempo le proprie abitazioni, fino a diventarne proprietari; anche questo giorno viene ricordato con una certa soddisfazione. Rimane però un rammarico. Le case erano troppo piccole per ospitare più di una famiglia; ecco allora che i figli man mano che crescevano ed erano nell’età canonica per prendere moglie o marito, andavano via per abitare da soli. Nel villaggio rimanevano gli anziani, custodi delle memorie del bel tempo andato. Ma la piccola storia del villaggio INA Case “Le Casermette” non finisce qui. Con l’arrivo del Salesiani a San Marone, il villaggio cambia nome. E’ stato don Germano Orazio a ribattezzarlo “Villaggio Maria Ausiliatrice”, nome caro ai figli di don Bosco. In fondo alla stradina, parallela alla via D’Annunzio, fa bella mostra di sé una statua di Maria Ausiliatrice, con l’inconfondibile manto celeste.

Il sacerdote di San Giovanni Rotondo, rimasto a San Marone per diversi anni, era di casa presso il villaggio INA Case. Tutti lo stimavano. Oggi il posto è rimasto ancora quello di una volta, quando ci si raccoglie in preghiera nel mese di maggio. Era il punto di partenza della solenne processione che ogni anno, al termine del mese mariano, si snodava per le vie del quartiere San Marone. Canti, rosario e litanie portavano, in un ambiente lontano dal rumore e dal caos cittadino, una dimensione di forte spiritualità. La distanza dalla parrocchia non consente agli anziani di partecipare alle funzioni religiose. La famiglia Barbaresi, abitante in via Aleramo, poco distante dal villaggio, metteva a disposizione per diversi anni, il proprio garage per la celebrazione nei giorni festivi della messa delle 11.00. Oggi le messe si celebrano nelle tre chiese della Parrocchia: Santuario San Marone, Santa Maria Ausiliatrice, Centro Pastorale don Bosco.

Simpatica è stato l’iniziativa del “Cerca quartiere” attuata nell’ambito della “Estate Ragazzi 2003”. I ragazzi, divisi in gruppi: “Ninive”, Profeti”, “Giaffa”,”Tarsis”, “Marinai” e “Balene” avevano incontrato gli abitanti del villaggio Ina Case, intrattenendo con loro una simpatica conversazione. Ad una nonnina ultranovantenne venne chiesto: “Qual è il segreto di una così lunga longevità?”.  Andare a letto presto alla sera. Ah! La saggezza dei nostri nonni!  Ci si augura che il villaggio rimanga sempre così: una comunità di persone che amano trovarsi e stare insieme, anche nella soluzione di problemi comuni.

Le “Sette Sorelle” di Via Dante Alighieri

A Civitanova Marche le conoscono come “Le Sette Sorelle”. Sono le case di via Dante Alighieri, la strada per Macerata, l’antica carrareccia o “via antiqua quae venit a mare”. Latino e  linguaggio popolare, antico e moderno, miseria e nobiltà si fondono in un tutt’uno nella cittadina adriatica. Negli anni trenta  vivamente sentito era il problema degli alloggi popolari, in quanto i pochi esistenti erano “malsani, umidi, male esposti, scarsamente illuminati, inadatti e privi di requisiti minimi richiesti dalle più elementari norme di igiene” (Cfr. M. Diomedi, San Marone, Quartiere industriale e residenziale a ridosso del centro urbano, in “Civitanova Immagini e Storie”, N° 9). Si sentiva l’esigenza di aderire all’istituto Autonomo Fascista per le Case Popolari della Provincia di Macerata. E’ quanto veniva approvato in una delibera dall’allora Podestà. Importante era quindi trovare l’area dove sarebbero sorte le nuove abitazioni destinate alle classi sociali meno abbienti.

L’area veniva presto individuata. Era una porzione di terra che faceva parte della tenuta Bonaparte, proprio lungo la via Dante Alighieri, in quanto poteva offriva la possibilità di un futuro ampliamento verso nord. Espletate tutte le pratiche per l’acquisizione dell’area dagli eredi Bonaparte, gli attuali sette edifici erano in corso di costruzione fin dal settembre del 1938 e vennero  completati definitivamente l’anno successivo. Il progetto originario prevedeva la costruzione di un vero e proprio villaggio popolare con spazi da destinare a strutture pubbliche, quali l’asilo, la chiesa, i bagni e le organizzazioni del regime, come d’altronde accadeva in altre città.  “Anche la toponomastica della strade rispecchiava il periodo enfatizzato dalla proclamazione dell’impero: via dell’Impero, via IX Maggio, via III Gennaio, via delle Vittorie, via Adua” (Ibidem).

Le ristrettezze economiche imposero dei tagli a tutto il progetto. Vennero solo costruite sette abitazioni per quattro famiglie ciascuna, rispetto alle 24 casette preventivate. I primi assegnatari: Pietro Ripari, Domenico De Marco, Antonio Barboni, Luciano Tre Re, nella prima abitazione verso Porto Civitanova, Ulderico Marinelli, Angelo Beato, Tullio Natalini e Gustavo Rogani nella seconda, Alberta Preziotti, Antonio Giri, Vincenzo Buccolini e Primo Palmini, nella terza, Gino Bernacchia, Giuseppe Iancarelli, Aurora Tosoni e Giulio Verdecchia, nella quarta, Nicola Micucci, Umberto Mengarelli, Emilio D’Alloro, e Umberto Fagioli, nella quinta, Silvio Palombini, Italo Cherubini, Agostino Fioravanti e Adolfo Celidoni, nella sesta, Ottavio Granatelli, Filippo Mataloni, Marino Marangoni e Arduino Del Monte, nella settima ed ultima casa (Cfr. M. Diomedi, San Marone, Quartiere industriale e residenziale a ridosso del centro urbano, in “Civitanova Immagini e Storie”, N° 9).

Stella Buccolini entrava nel 1939, ad appena otto mesi, nella casa del babbo Vincenzo, non ancora del tutto ultimata. Questi aveva chiesto un appartamento più piccolo rispetto agli altri, perché costava di meno. Il canone era di 90 £ mensili, con una stanza in più sarebbe aumentato di 15. Chi lavorava presso le officine Cecchetti dava più garanzie. Le abitazioni non erano né sono tutte uguali, le più piccole di 66 mq, di poco più grandi le altre, quelle che hanno tre camere.  Ventotto gli appartamenti. Il vicino, ricordava Stella Buccolini era un qualcosa di sacro. Piergiorgio Giri era innamorato del posto. Molti i giovani. Si cresceva insieme. Ci si ritrovava in casa per festeggiare i compleanni, il Carnevale o per ballare, sotto lo sguardo vigile dei genitori. Si usciva tutti insieme per andare all’oratorio o al cinema.

I genitori erano l’ombra dei figli. Non era un’educazione bacchettona, quale noi oggi possiamo definire, con il senno del poi, ma c’era tanto rispetto dei ruoli. In caso di bisogno, i più grandi correvano sempre, per portare conforto in occasione di qualche funerale, ma anche per condividere momenti di felicità comune. Ci si ritrovava poi in un’area munita di un piccolo giardino con panche, sedili e giochi per i bambini. Si attingeva acqua ai due pozzi comuni. Si calava il secchio, la ‘mbozzatora” attraverso la carrucola fissata in alto e si tirava su l’acqua, buona anche per bere.

Oggi è difficile che un giovane sappia il significato del termine ‘mbozzatora. Le parole durano per il tempo in cui vengono usate, poi cadono nel dimenticatoio. E’ importante riesumarle di volta in volta dal gran serbatoio della memoria, perché ci danno la misura del tempo che scorre e non uniformemente, ma a vari livelli. C’è un tempo che consuma. E’ quello dell’avvenimento: un trattato di pace, un ultimatum relativo alla dichiarazione di guerra, l’elezione del re e della regina.  Storia événementielle  la chiamano i Francesi. C’è un tempo che permane. E’ quello della vita materiale e delle mentalità.

Poche le case nei dintorni, ricorda Stella, ma solo campagna e terreni coltivati da Ciribè, Curzi, Ercoli, quelli più conosciuti. I campi erano cintati per non permettere ai ragazzi più intraprendenti di fare di tanto in tanto qualche scorribanda per sottrarre frutta, cocomeri e meloni. Dietro alle case si apriva un piccolo orto dove si coltivava tutto quello che serviva per il fabbisogno della famiglia: pomodori, fagiolini, insalata, cavolfiori, a seconda delle stagioni. Col tempo, alcuni proprietari hanno trasformato questo piccolo lembo di terra per attrezzare un giardino, altri hanno mantenuto la destinazione d’uso originaria.

L’autorità riconosciuta in casa era il padre. Disimpegnava ogni pratica e risolveva ogni piccolo o grande problema, tanto che se ne sentiva la mancanza, appena dopo la sua scomparsa. Oggi di quel periodo lontano sono rimaste ben poche cose. L’attaccamento per i figli è quello di sempre, tanto che se prima il proprio marito giudicava troppo gelosi i suoceri, ora, diventando padre, la gelosia verso i figli è stata fatta propria. Civitanova Marche è ancora una città tranquilla rispetto ad altri grandi agglomerati urbani, ma i segni del cambiamento sono passati anche di qui.

Invia un commento

Puoi utilizzare questi tag HTML

<a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>