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Il Quartiere San Marone: Le case dei ferrovieri

AR_ANGELOLSEN_BIGTIME_RETOUCH_11 DSC02003“Mi affacciavo al balcone di casa e vedevo davanti a me le barche che ritornavano dalla pesca.  Non c’era nulla di quello che vedo ora e che vedrò ancor di più di qui a poco: case e cemento”, così iniziava il racconto della signora Maria che ha abitato da sempre in un appartamento di via De Amicis, all’ultimo piano, case dei Ferrovieri, quelle che danno proprio sulla strada. Civitanova primi anni cinquanta. Non c’era ancora la chiesa di Cristo Re né i grandi condomini alla fine di corso Umberto, né nulla di nulla al di là della carreggiata, fiancheggiata su ambedue i lati da secolari piante di acacia. Le hanno tolte perché, secondo alcuni, nella stagione estiva si infestavano di zanzare e mosconi. Le robinie erano pericolose per le troppe auto in circolazione, poi per far posto sull’altro lato della via  ad altre case e negozi. Eppure la strada, immortalata in una fotografia ai tempi di una delle tante edizioni delle mille miglia, aveva il suo fascino. Le case dei Ferrovieri facevano bella mostra di sé, nuove com’erano.

A mezzogiorno, la nazionale diventava il palcoscenico di un rito che si ripeteva quotidianamente. Chi aveva fatto il turno alla “Cecchetti”, inforcata la bicicletta, sfrecciava in direzione Fontespina per consumare il pranzo. Chi aveva il turno al pomeriggio e veniva da Fontespina, superata la curva sul ponte del Castellaro, pigiava sui pedali con forza per superare la leggera salita che porta al bivio San Marone e da qui, con la svolta  a sinistra, lungo la via Cecchetti per entrare in tempo prima che il  fischio della sirena annunciasse l’inizio del turno pomeridiano. Era un nugolo di tute blu, ruote che giravano vorticosamente, tubolari che quasi sibilavano sull’asfalto, un parlottare colorito e vivace tra quanti si salutavano frettolosamente ed una folata di vento che significava giovinezza, lavoro ma tanta operosità.

Gli anni di costruzione delle due palazzine sono quelli dell’immediato secondo dopoguerra. I treni avevano ripreso a sferragliare lungo la tratta Grottammare – Civitanova Marche – Ancona. Antonio Santori partiva tutte le mattine dalla prima cittadina dove risiedeva, Mariano Mori da Pedaso ed assieme venivano a lavorare a Civitanova. Si viaggiava su carri bestiame. La necessità aguzza l’ingegno. Antonio con gli scarti di pile che trovava nelle stazioni, si era costruito una provvidenziale torcia che serviva ad illuminare il buio della notte. Le due palazzine erano già terminate nel 1948 e subito vi entravano le prime famiglie assegnatarie dell’alloggio. Nella prima scala, venendo dal cimitero: Mariano Mori, Pompeo Chiovini, Serenelli, Zallocco, Stella, Italo Cesari, Baldoni, Carrano, Vintigni. Nella seconda scala: Di Giorgio, Giuseppe Vesprini, Mosconi, Nazzareno Cestola, Rossi, Gismondi Giuseppe, Rigetti, Antonio Santori, Otello Gasparroni, Ferdinando Emiliano, Di Nanno, quest’ultimo subito trasferito ed il suo posto preso da Giuseppe Fontana. Nella terza e quarta scala c’erano altre famiglie. Non mi è stato possibile trovare tutti i primi assegnatari.

Sul retro delle due palazzine non c’erano ancora le altre due costruzioni, sempre di proprietà delle ferrovie, che vennero edificate molti anni dopo. C’era un enorme prato utilizzato per usi diversi. Di Nanno vi aveva costruito un capanno dove starnazzavano felici papere, oche o chiocciavano le galline. L’Ente Ferrovia aveva provveduto ad  innalzare un piccolo lavatoio coperto a regola d’arte. Altri ancora, in un angolo del cortile, alzati due tronconi di rotaie, vi avevano legato orizzontalmente, ad intervalli regolari, dei fili sui quali le donne mettevano ad asciugare i panni. Tutto il grande spiazzo era il ritrovo di tanti ragazzi che lo avevano scelto come il loro campo d’azione. Ogni famiglia aveva mediamente dai due ai tre figli, in qualche caso  anche quattro. Era tutto quello spiazzo erboso. I giochi praticati erano quelli di una volta: “Ai quattro cantoni”, “Uno, due, tre stella”, “palla avvelenata”, “ruba fazzoletto”. In tanti lo ricordano con nostalgia, associandolo alla adolescenza e alla propria giovinezza.

Il riscaldamento nelle case era assicurato dalla cucina economica, quella con i due fornelli ed i cerchi in ghisa sui quali si cucinava. Il combustibile per alimentare il fuoco era costituito dal carbone e dal legno delle traversine depositate sul retro delle case stesse. Ad ogni famiglia toccavano mediamente circa 10 quintali di carbone che veniva riposto in soffitta e 20 traversine all’anno. L’inverno era rigido, ecco allora che gli uomini, dopo il lavoro, si ritrovavano con accette, mazze, seghetti, a spaccare, tagliare il legno delle traversine, che messo dentro ai secchi veniva portato dai ragazzi nelle singole case. Il carbone invece scendeva dalla soffitta. Era un andirivieni continuo lungo le scale tra chi saliva e chi scendeva. Era un modo come un altro per socializzare momenti di vita comune. Ogni quindici venti giorni, c’era da pulire il tubo della stufa per la troppa fuliggine che vi si depositava. Il legno delle traversine era impregnato di catrame. Succedeva a volte che la canna fumaria diventasse rossa fino a prendere fuoco. Era il segnale che bisognasse provvedere subito.

Un gran serbatoio riforniva le singole abitazioni di acqua potabile; galleggiante e pompa dovevano essere sempre in perfetta efficienza. Si sa che Ferrovieri e “Cecchettari” erano allora i più invidiati in quanto potevano disporre di una paga mensile. Ecco allora bussare alle porte di via De Amicis tanti che chiedevano un pezzo di pane, tra questi, una donna. Il pezzo di pane non lo si rifiutava mai. Si venne a sapere poi che la stessa lo rivendeva in campagna per comprare salsicce, latte e uova. Detersivi erano ancora di là da venire. I piatti venivano puliti con il brodo avanzato della minestra, a cui si aggiungeva un po’ d’acqua calda. La brodaglia era uno spreco buttarla. Girava allora per le case una anziana donna, armata di un secchio. Lo si metteva sotto l’acquaio liberato dal tappo e la sciacquatura prendeva la via di casa della anziana contadina che ripassava a sera per riprendere il secchio con il prezioso contenuto. Serviva per ingrassare il maiale. Farina di granturco e brodaglia costituivano “lu verò”, il pasto dell’animale. L’anziana signora si ricordava comunque del favore ricevuto. A chi  le aveva permesso di portare a casa tanti mastelli di sciacquatura, regalava dalle tre alle quattro salsicce a testa, ai tempi della pista che cadeva nei mesi più rigidi dell’inverno. Il netturbino girava per la via De Amicis, con l’immancabile carrettino. Il suo arrivo era annunciato dal suono dell’immancabile trombetta che l’operatore ecologico aveva sempre con sé. Pochi gli scarti che portava via in un’epoca  in cui non si buttava niente, ma tutto si riciclava. Non era ancora arrivato l’uso della plastica né i comuni avevano  il problema dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani.

Con l’arrivo dei primi apparecchi televisivi, quelle due famiglie che ne possedevano uno, aprivano la casa ai vicini che si ritrovavano alla sera per vedere assieme “Lascia o raddoppia”, “Il Musichiere”, “Campanile Sera”, gli incontri di box, le partite di pallone. Era un costume diffuso ed anche se il proprietario dell’apparecchio televisivo non aveva nessuna voglia di vedere la TV, perché stanco per la giornata lavorativa o perché non era affatto interessato ai programmi televisivi della serata, apriva comunque la propria casa, disponendo nella sala predisposta tante sedie quante erano le persone che si autoinvitavano. La regola non scritta era: “Fare buon viso a cattivo gioco”. Ma era un “sacrificio” che veniva fatto volentieri perché non lo si percepiva come tale.

Le mansioni svolte dai ferrovieri erano diverse. C’era chi faceva il collaudatore dei vagoni ferroviari alla ditta Cecchetti, chi era addetto alla manutenzione degli impianti elettrici esistenti lungo la massicciata, chi disimpegnava il compito di controllore, chi era addetto agli scambi. Terminato il turno di lavoro si doveva sempre e comunque dichiarare la propria reperibilità. Si poteva essere chiamati ad una qualunque ora, anche nel pieno della notte. Quando si veniva chiamati, per riparare gli scambi o per riattivare la segnaletica luminosa lungo la strada ferrata, si prendeva la bicicletta, personale perché l’Ente Ferrovia non la forniva o ci si incamminava a piedi, per essere sul posto di lavoro quanto prima. La bicicletta veniva rigorosamente riportata nell’appartamento, issata in spalla, su fino al terzo o quarto piano. Agli inizi la chiamata notturna avveniva per mezzo di altri operai che suonavano il campanello al portone; con l’avvento del telefono le chiamate erano più facili e più frequenti, tanto da far spazientire anche il più attaccati al proprio lavoro.

Negli Annali delle case dei ferrovieri di via De Amicis un avvenimento che turbò i sonni tranquilli di quanti vi abitavano fu l’alluvione del ’59. Era il 5 settembre. “Si andò a dormire come al solito, piuttosto presto, ricordava Giuseppe, quando improvvisamente nel cuore della notte sentimmo provenire dai piani inferiori delle abitazioni, delle grida strazianti di una donna che non riusciva più ad aprire il portone d’ ingresso”. L’acqua, scavalcato il fosso del Castellaro, era penetrata sul retro delle abitazioni, allagando il seminterrato. Il mare non riceveva più l’acqua.  Il ponte sul Castellaro, basso e costruito alla bel l’è meglio era sommerso da fango, detriti e tronchi d’albero che messisi di traverso avevano creato una diga naturale. “Ero andata a La Spezia con mia cognata, moglie di mio fratello Ferdinando”, ricordava la signora Maria, “quando sulla strada del ritorno, verso Fabriano, sentimmo dell’alluvione. Telefonammo immediatamente alla stazione di Civitanova Marche e mio fratello ci confermò quello che avevamo già saputo. Arrivati a casa, trovammo fango e desolazione ovunque. L’emergenza durò per diverse settimane fino a quando tutto ritornò nella normalità”. Fu davvero un avvenimento unico: “Nella notte fra il 5 ed il 6 settembre 1959, una perturbazione di origine atlantica che nelle prime ore del pomeriggio del giorno 5 aveva varcato le Alpi, dirigendosi verso sud- est, creò una zona di bassa pressione relativa all’Italia Centrale. Questo fatto innescò una serie di violenti temporali che si abbatterono particolarmente sulle Marche e soprattutto nelle zone dei comuni di Porto Civitanova e di Porto Sant’Elpidio” (Cfr. L’alluvione, in “Porto Vecchio”, pubblicazione semestrale dell’aula della memoria, comune di Porto Sant’Elpidio, Assessorato alla cultura, pag. 19, Dicembre 2003).

Tutto il tempo ci strappa, anche l’anima (Omnia fert aetas, animum quoque, Virgilio).

Quanto ho scritto sopra appartiene al passato. Abito in via De Amicis, prima palazzina, seconda scala, sulla sinistra venendo dal cimitero, da ventisei anni. Avevo acquistato l’immobile a metà agosto del mille novecento novantasei. Gli assegnatari degli immobili erano diventati proprietari della propria abitazione verso la fine degli anni sessanta. Gli eredi, andati ad abitare altrove, vendevano col tempo la proprietà a privati che non avevano nulla a che fare con le Ferrovie, come nel mio caso. Avevo lasciato la città di Giussano (Mb), dove avevo abitato per vent’anni e ritornavo nella terra dove sono nato. Era una notte buia e tempestosa, quando partii da Milano in treno, destinazione Civitanova, tra il 28 e il 29 agosto di quell’anno, per dare un tocco di romanzo al racconto. Salutai con lo sguardo, rivoltato indietro, la Madonnina di piazza Roma con un po’ di nostalgia. Ero con mia moglie, mia figlia stava dalla nonna materna, a Scafa, in Abruzzo. Tuoni, fulmini e scrosci di pioggia violenta ci accompagnarono per tutto il percorso lungo la nuova Valassina, la superstrada Milano – Lecco. Guido, un amico di Lissone, ci accompagnò in macchina fino alla stazione centrale. Salutato l’amico, aspettammo un po’ in sala d’attesa e all’ora stabilita dall’orario partimmo in treno verso la nuova destinazione.

Arrivammo a Civitanova nelle prime ore del ventinove agosto, quando albeggiava. Nazareno, un signore, che abitava al primo piano del condominio, sembrava proprio che ci stesse aspettando. Avevo problemi con l’apertura del portone principale. Ci vide dalla finestra del suo appartamento e ci venne ad aprire. La nuova destinazione iniziava nel migliore dei modi. Tutta la giornata passò con il trasloco dei mobili che avevamo caricato a Giussano. La ditta dei trasporti, di Macerata, arrivò poco dopo il nostro arrivo. Avevo contattato un’altra ditta di Civitanova Marche che ci mise a disposizione una scala idraulica per portare i mobili al terzo piano. Il tempo fece il pazzerello per tutta la mattinata. Un po’ pioveva, un po’ c’era il sole. Trasloco bagnato, trasloco fortunato.

E’ stato proprio così. Mio cognato Adriano e mia cognata Miriam ci aiutarono a sistemare i mobili e quant’altro avevamo portato da Giussano. Iniziavo la nuova avventura con mia moglie e mia figlia nella cittadina adriatica. In poco tempo conoscemmo tutti i coinquilini della scala: Nazzareno, Giuseppe, Simonetta, Raul, Edelweis, Maria. Allacciai subito l’amicizia con Giuseppe Santori, un signore affabile, che abitava al secondo piano dell’edificio. Colto, versato nell’arte dell’intaglio e della fotografia, amava conversare di cinema, letteratura e di storia. Raul è stato un altro amico fin dai primi giorni del mio arrivo a Civitanova.

Durante il mese di maggio ci si ritrovava in una stanza, per recitare il rosario davanti alla Madonnina realizzata molti anni prima da Mariano Mori. L’abitudine è continuata per diversi anni. Con la pandemia da Covid 19 si è interrotto tutto. Non c’è stato più un momento di socializzazione. Con gli anni sono venuti a mancare tante persone, le più anziane e non solo. Prima ho perso Raul, ancora troppo giovane; circa due anni fa ci ha lasciati anche Giuseppe. Ogni volta che scendo o salgo le scale, guardo verso la porta del suo appartamento sempre con grande tristezza. Maria è morta anche lei all’età di 103 anni. Ci facevamo compagnia. Non c’era Capodanno che non ci invitasse nel suo appartamento, posto sullo stesso pianerottolo, per consumare assieme un po’ di panettone e brindare assieme per il nuovo anno. Qualche anno prima ci avevano lasciati Nazzareno, sua moglie e Edelweis.

Il condominio non è solo il fabbricato fatto di scale, balconi, finestre, vani. Questi rimangono sempre gli stessi anche se gli anni passano, i bimbi crescono e gli anziani invecchiano. Può cambiare solo l’aspetto esteriore, come nel caso della palazzina dove abito, quando decidemmo, all’inizio del duemila, tra tutti i condomini, di rifare la facciata e i balconi. La scala del condominio si anima quando vengono i tre nipotini che portano allegria, grida scomposte come è nella loro età. Penso che questa condizione è comune a tante abitazioni quando sono state abitate per molti anni dagli stessi proprietari. Tutto il quartiere di San Marone si è invecchiato negli ultimi vent’anni. Le coppie giovani scelgono di andare ad abitare a Santa Maria Apparente o alla stazione di Montecosaro (MC) dove gli appartamento costano meno. La comodità del condominio dove abito è rappresentata dal fatto che è a pochi passi dal centro della cittadina adriatica. La stazione ferroviaria è vicina. Tutti i servizi, nido, scuola materna, Scuola Elementare, super mercati, negozi, poste, Comune sono a portata di mano.

 

Raimondo Giustozzi

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