di Raimondo Giustozzi
Li “Portesi” è un’altra raccolta di poesie in dialetto civitanovese di Sandro Bella. Li Portesi sono gli abitanti di Porto Civitanova. Finito di stampare nel mese di maggio 2007, con il generoso contributo del Centro del Collezionismo, il libro contiene ben quarantanove poesie. Nostalgia per un passato che vive solo nel ricordo ma attenzione anche al presente sono i due piani di lettura presenti nella silloge. Fotografie in bianco e nero, una cartolina postale degli anni venti nella quarta pagina di copertina, alcune tavole dell’artista civitanovese Nicola Fioretti, di cui la più bella in prima pagina, costituiscono il valore aggiunto del grazioso volumetto. Sandro Bella con la sua solita maestria ci conduce, sul filo dei ricordi, alla conoscenza di angoli e scorci di Civitanova Marche di ieri e di oggi. Personaggi del passato, entrati a far parte della storia cittadina, sfilano davanti al poeta in tutta la loro umanità fatta di sincerità e lealtà. La genuinità di una volta, fatta anche da modi forse un po’ ruvidi, appartiene più al passato che al presente, quando il vuoto è riempito spesso dal niente e si vive di vanità.
Il libro si apre con una breve presentazione di Sandro Bella ad opera di Paolo Marinozzi, curatore del Centro del Collezionismo, con la prefazione del giornalista Franco Brinati e con l’introduzione di Gabriele Gavezzi, presidente dell’Istituto di Ricerca delle Fonti per la Storia della Civiltà Marinara Picena di San Benedetto del Tronto. Scrive quest’ultimo: “Le poesie di Sandro Bella, soprattutto quelle sull’ambiente marinaro, sono dei piccoli scrigni ove si trovano racchiusi altrettanti tesori. Ritroviamo in esse diademi di conoscenze rimosse e collane di lessemi meravigliosi, preziosi documenti di uno stato finale dell’evoluzione linguistica di un paese (nel caso specifico Portocivitanova) con tutte le tracce del percorso che va dall’acquisizione di altri contesti, alla loro elaborazione sino all’adozione definitiva. Un repertorio lessicale di uno dei tanti dialetti piceni! Ma ci sono anche le altre preziosità, quelle del mondo scomparso da poco, fatto di fatica, di dolore, come di gioia coniugate nel rapporto col mare. Ci sono gli uomini e le donne, protagonisti di un’epopea semplice ma struggente, ci sono le salsedini ed i tramonti non più percepibili con la stessa innocenza: le vele, le rèste, le palanghe, le civère, le taje, lagghiò pe’ la marina dove si tribbulava in silenzio, invocando al massimo Sando Maro” (Introduzione di Gabriele Cavezzi, in Sandro Bella, Li Portesi, pag. 9, fasta Edit s.r.l., 2007).
Accanto a questo mondo marinaro, proprio di Porto Civitanova, ci sono angoli e scorci della cittadina adriatica che non esistono più ma che vivono nel ricordo di chi ha una certa età e in alcune foto d’epoca. Tra questi angoli che non esistono più ma che Sandro Bella ricorda c’è “lo vuschétto” (il boschetto) che si distribuiva in tutta la sua bellezza nell’area che insiste sul lungomare Sud. Lo palazzo Sforza, la Casa de’ r- Balilla, lo caffè de Maretto sono luoghi che esistono ancora. Il palazzo Sforza è la sede del Comune, la casa del Balilla ospita la Biblioteca Comunale “Silvio Zavatti”. Poi sfilano come in una passerella i personaggi di un tempo: U’ m- “Portese” spaccato, “Ngiulì la chjéppa”, “Nannì Molena”, “Urbino”, “Spaghetto”, Lo “Padovano”. Non mancano gli immancabili ricordi di guerra: ‘Na smitrajata (1942), lo primo vombardamendo, Marzo 1944… la sfida, ‘Na notte de ‘n- tembo de guerra, profume de guerra, lo tembo de lo sfollamendo. Queste invece le poesie più belle dedicate al mondo marinaro: Lo travaccolo, il nuovo Carlo nel mar si vede, lo marinà, recòrdo marinaro, Pundi de vista, li sciabbecòtti, ziso e népòte a ppesca, lle langette, revordura. Aprono e chiudono il libro due poesie dedicate, in modo viscerale e oltremodo simpatico, all’identità degli abitanti di Porto Civitanova: Li Portési, Portocitanò’ mia. L’ultima poesia richiama quella di Aurelio Ciarrocchi: “Citanoaccia mia”. Aurelio Ciarrocchi e Sandro Bella, due poeti che hanno reso celebri due realtà di Civitanova Marche, la parte bassa e quella alta.
Lo vuschétto (il boschetto).
“Tra ll’ Ippodromo e tra ll’ùrdeme case, / a ce statìa, co’ tande piande spase, / u’ n- vuschétto ch’adèra cuscì vvèllo / che tutti quandi java a spasso èllo. // E quann’era su la vòna stajò’, / no’ m- ze facìa gnend’addrò che a jì ghjò / ‘sso vuschetto a pijà’ ‘m- bò’ de frescura / e godé’ pure tutta lla natura, / che cco’ ‘lla vòna ‘dòra de ‘lli pini, / ch’adèra cuscì ardi, nnérti e fini, / facìa trascorre vène le jiornate / tra li jòchi, merènne e passegghjàte. // Sci, c ‘era che fricaccio ‘ngo la fézza / che ssenza u’ mmoccongèllo de dorgézza / tirava su ndramènzo ‘lli ramitti / facènne spirità’ ‘lli passiritti. // Lassémo sta’ ‘sso fatto malamènde / pe’ ddivve de ‘llo pino ‘m- bò’ pennènde / che quasci se tucchìa co’ u’ mmondicèllo / de terra, ‘m – bar- de metri ardarèllo, / che ssu quèsso i’ n- tandi ce se vuttìa; / e tra u’ n- casco e ‘n- andro a se dicìa / che èllo ssotta (pu’ capì li sguardi! ) / c’era lo tesòro de Carivardi. // Ma dopo de la guerra, ‘sso vuschetto, / pe’ r- una còsa o ‘n- andra o pe’ dispetto, / a saccio che scombariscìa quagghjò, / ‘na vellézza de Portocitanò’” ( Ibidem, pag. 56).
Traduzione: “Tra l’ippodromo e le ultime case, / c’era, con tante piante sparse, / un boschetto che era così bello / che tutti quanti ci andavano a spasso. // Quando entrava la buona stagione, / non si faceva nient’altro che andare laggiù / su questo boschetto a prendere un po’ di fresco / e godere pure di tutta la natura, / che con il buon odore dei pini, / che erano così alti, grossi e delicati, / faceva trascorrere bene le giornate / tra giochi, merende e passeggiate. // Sì, c’era qualche ragazzaccio con la fionda / che senza un po’ di delicatezza / tirava in mezzo ai rametti / facendo atterrire i piccoli passeri // Lasciamo stare questo comportamento cattivo / per dirvi di quel pino un poco pendente / che quasi si toccava con un monticello / di terra alto circa due metri, / tanti si buttavano su questo cumulo di terra, / e tra una caduta e un’altra si diceva / che lì sotto (puoi capire gli sguardi) / c’era il tesoro di Garibaldi. // Ma dopo la guerra, questo boschetto, / per una cosa o l’altra o per dispetto, / so che scompariva quaggiù / una bellezza di Portocivitanova”.
L’ippodromo delle Marche era situato dove ora si trova il campo sportivo con la pista di atletica. Vi si entrava attraverso un arco in legno, posto al termine di Viale Vittorio Veneto. L’ippodromo era uno dei più grandi delle Marche. Vi si tenevano gare ippiche nazionali. Aveva però un inconveniente. Era soggetto spesso a inondazioni, quando la foce del Chienti tracimava, perché il mare non riusciva a ricevere tutta la portata del fiume in piena. Il Viale Vittorio Veneto, nel progetto originario, doveva arrivare a Fontespina, una delle frazioni di Civitanova Marche, più di quattro chilometri di lungomare senza soluzione di continuità da nord a sud. Doveva celebrare i fasti della vittoria nella prima guerra mondiale. Con la costruzione del porto rifugio, indispensabile per la pesca, il progetto venne accantonato. Rimangono solo i pioppi canadesi che adornano il viale sui due lati per un lungo tratto.
Lo vuschétto: un po’ di storia
La chiamano zona o quartiere “Micheletti”, più con il primo che con il secondo nome dal momento che molti ricordano il posto come campagna profonda, fino a pochi decenni or sono tutta destinata all’agricoltura, di proprietà dell’ingegnere Micheletti. La storia della famiglia Micheletti, a Civitanova Marche, ha inizio con il matrimonio del giovane ingegnere romano Enea Micheletti con Fernanda Fritz. Luigi Fritz era giunto a Civitanova, assieme ad altre maestranze, all’epoca della costruzione della linea ferroviaria Ancona – Pescara. La sua villa era ed è a pochi passi del centro. Nel ricordo di chi ha una certa età, il posto è associato a “lo vuschétto”, pini secolari che erano quasi la continuazione del parco annesso alla villa dove vivevano le tre sorelle Fritz: Fernanda, Iole e Luigia, conosciuta con il nome di “Lula”. Dal matrimonio di Enea Micheletti con Fernanda nasceranno quattro figli: Giacinto, Pier Alberto, Giorgio e Francesco. Il posto era un incanto, anche se un po’ fuori dal mondo ricordano in molti.
Nella stagione della caccia era un via vai di cacciatori che sparavano agli uccelli da passo. L’attuale corso Garibaldi era solo un piccolo sentiero di terra; da un lato, sulla sinistra si apriva il mare, sulla destra la campagna. Molte mamme vi portavano i propri figli ancora piccoli per una salutare camminata in mezzo all’erba, a contatto con la natura. Nella stagione primaverile, era un variopinto paesaggio di viole, papaveri e fiordalisi, peschi e meli in fiore. Tavolozza di colori che sembravano uscire dalla vena creativa di un valente pittore. L’aria profumava di fieno lasciato ad essiccare nei campi coltivati ad erba medica. Nella casa colonica ancora esistente era uno starnazzare di oche e papere ed un chiocciare di galline per la felicità dei bambini. Nella stalle c’erano ancora le mucche che producevano latte. Mamme premurose si recavano dal contadino per acquistare uova o latte appena munto. Tre i contadini che lavoravano il terreno a mezzadria: Umberto Beato, Giuvino Torresi e Antonio Domenella. Di questo angolo che vive nella memoria di chi ha una certa età è rimasta soltanto la casa del contadino. Poco lontano si aprono, da un lato il Liceo Scientifico con sezione di Liceo Classico “Leonardo Da Vinci”, dall’altro lato, la Scuola Media “A. Caro”.
Lo vuschétto scompare lentamente nel corso della seconda guerra mondiale. Tanto era il freddo che si pativa nelle case che molti si recavano al boschetto per fare legna. Abbattevano alberi, tagliavano rami e portavano tutto a casa. Bruciavano la legna nel camino, nelle stufe, per riscaldarsi. Nessuno poteva far nulla verso questa appropriazione indebita. Il nuovo “Bosco Cittadino” che si apre all’inizio della attuale pista ciclopedonale del Castellaro, inserita all’interno dell’omonimo parco, dovrà rinverdire i fasti dell’antico vuschétto.
Lo travàccolo (Il trabaccolo)
“Se vede a ll’orizzonde de lo maro / du’ vele colorate e ‘na menzàna, / su lo pennò de prua, color chjaro, / che sse ‘vvicina i’ n- terra a mmana a mmana. // A vène i’ n- direzziò’ de lo Quarnaro, / da quella parte slava no’ llondana, / e mendre passa a ccòsta de lo faro, / se vede u’ n- gran varcò’ (No ‘na tartana). // Riendra lo travàccolo festande / stipato vène de taulù’ / e cco’ lo gran pavese svendolande. // ‘Sso legname, sarà scargato a tterra / da li scalandi co’ li vracciulù. / (Tutte còse de prima de la guerra). // Lo travaccolo ce l’aìa Cellini / e, uno pe’ r-ò’, Barboni e Martellini” (Ibidem, pag. 21).
Traduzione: “Si vedono all’orizzonte del mare / due vele colorate e una mezzana, / sul pennone di prua, color chiaro, / che si avvicina a terra lentamente. // Viene in direzione del Quarnaro, / da quella parte slava non lontana, / e mentre passa poco distante dal faro, / si vede un grande barcone (Non una zattera). // Rientra il trabaccolo festante / stipato di tavoloni di legno / e con il festone di bandiere sventolante. // Quel legname sarà scaricato a terra / dagli scalanti con le barche apposite. // (Tutte cose prima della guerra). // Il trabaccolo ce l’aveva Cellini / e, uno ciascuno, Barboni e Martellini”.
Note al testo. Il Quarnaro è una località della costa Jugoslava. Il Travàccolo è il trabaccolo, un grande barcone adibito al trasporto di legname e di derrate alimentari. Facevano la spola tra i porti dalmati e croati con Civitanova Marche. I taulù erano e sono nel dialetto locale i tavoloni di legno. Gli scalandi erano i marinai addetti al varo e al ritiro delle barche. I vracciulù erano grandi barche adibite al trasporto di merci e legname in quanto avevano prua a poppa scoperte. Venivano tirate a terra dagli scalanti con delle funi. In seguito, entrarono in funzione motori ausiliari che sostituirono il lavoro manuale. Cellini, Barboni e Martellini erano i proprietari dei trabaccoli civitanovesi. Fino a pochi anni fa sopravviveva ancora lo scheletro del trabaccolo Prudente di proprietà Martellini. Esposto alle intemperie, non è sopravvissuto a lungo.
Il nuovo Carlo nel mar si vede
“Jò- ppe’ lo maro, su ‘lle vrécce vianghe, / c’era ‘ na vècchja arghena de legno / derète a ‘na jecina de palanghe / mèste ‘n- orizzondale co’ n- imbegno. // Per tè’ ce statìa pure ‘m- bar- de stanghe, / du’ cavi, che sirvìa pe’ lo sostegno / ma, addè’ che mme recòrdo, a c’era anghe / ‘m-bar-de taje vicino a… a n’andro frègno. // Tutto quèsso sirvìa pe’ lo scalande, / co’ ‘na fadiga che no’ n-gé se crede, / pe’ rtirà’ ‘lla langétta velegghjande. // Lo nome che ci- aia ‘ssa langetta, / era “Il nuovo Carlo nel mar si vede”. / Lo marinà? … Vingé de la muscétta” (Ibidem, pag. 23).
Traduzione: “Giù sulla spiaggia, sulle brecce bianche, / c’era un vecchio argano in legno / dietro una decina di traversine / messe in orizzontale con precisione. // Per terra ci stava pure un paio di stanghe, / due funi, che servivano per il sostegno / ma, ora che mi ricordo, c’erano anche / un paio di carrucole vicine ad un altro strumento. // Tutto questo serviva allo scalante, / con una fatica che non ci si crede, / per tirare (a riva) la lancetta veleggiante. // Il nome che aveva questa lancetta, / era “Il nuovo Carlo nel mar si vede”. / Il marinaio?… Vincenzo figlio di Moscetta”.
Note al testo. Le palanghe erano le traversine di legno unte di sego, messe sotto la barca per farla scivolare in mare, o per il ritiro. Le stanghe dell’argano erano le stanghe di legno arrotondato che si inserivano nei buchi degli argani per farli girare. I cavi erano funi di canapa, poi furono di acciaio. Le taje erano le carrucole. Le lancette erano delle piccole imbarcazioni mosse dal vento. Lo scafo e la carena erano quasi piatti, la prua e la poppa più piene e arrotondate. Aveva un unico albero e una vela unica triangolare, grande e capace di assorbire la forza propulsiva del vento. Anche oggi è possibile ammirare un esemplare di lancetta civitanovese, costruita dal maestro d’ascia Peppinello Santini, posta in una piccola rotonda sul lungomare nord di Civitanova Marche.
Recòrdo marinaro (Ricordo del mare)
“Mendre de fò’ soffiava lo garbì / su ‘na candina u’ n-vècchjo marinà’ / statìa veènnese ‘n- vecchjé de vì’ / e no’ n- facìa gnend’addro che penzà’ / a ‘llo tembo de quanno java i’ mmaro / che sembre je tucchìa partì’ a ll’arbetta, / venghé lo cèlo angò’ no’ n- fusse chjaro, / pé ghjì a ppoté’ pescà’ co’ la langetta. / E rrecordìa ‘lle taje, ‘lle fiecchétte, / ‘ll’argani, co’ ‘lli vusci pe’ le stanghe, / lo péscio mésto su ‘lle panerette, / lo ségo da stongà su le palanghe, / ‘lle rèste, ‘lle cassette, ‘lle civère, / de quanno che no’ gnava i’ mmaro e stava / a remmacchjà’ ‘lle rete ll’ore indére / lagghiò pe’ la marina e … tribbulava. / A ssedé, tra ‘lla dòra de lo vì’ / e quello de lo sighero toscano, / ‘sto vècchjo marinà’ statìa ssuscì’ / a recordà’ llo tembo a mmò’ londano. / U’ n- tembo de fadiga rengarnìta, / e u’ rrecòrdo.. de storia de ‘na vita” (Ibidem, pag. 25).
Traduzione: “Mentre fuori soffiava il garbino / dentro una cantina un vecchio marinaio / stava bevendo un bicchiere di vino / e non faceva nient’altro che pensare / a quando andava in mare / sempre gli toccava partire all’alba, / benché il cielo non fosse ancora chiaro, / per andare a pescare con la lancetta. / E ricordava le carrucole, le biette, / gli argani con i buchi per le stanghe, / il pesce messo dentro le panierette, / il sego da spalmare sulle traversine, / le trecce, le cassette, le barelle, / quando non andava in mare e stava / a ricucire le reti per ore intere / laggiù sulla spiaggia e tribolava. / Seduto, tra l’odore del vino / e quello del sigaro toscano, / questo vecchio marinaio stava così / a ricordare il tempo allora lontano. / Un tempo di fatica bestiale, / un ricordo… di storia di una vita”.
Sandro Bella faceva tutt’altro che il marinaio, ma del mondo che ruotava attorno alla pesca sapeva tutto. Trecce (rèste), cassette, barelle (civère), panierette erano tutte ceste in vimini, di diversa forma, che servivano per riporre il pescato e portarlo al mercato. Erano le pescivendole, quasi sempre mogli dei marinai, che si incaricavano di vendere il pesce nei diversi rioni della città, quando anche non si spingevano nei paesi dell’interno. Carrucole, biette (schegge, cunei, in legno), argani, stanghe erano strumenti utilizzati dal marinaio quando tirava l’imbarcazione in secco.
Nella raccolta “Li Portési” non mancano le poesie dedicate ai ripetuti bombardamenti anglo americani su Porto Civitanova nel corso della seconda guerra mondiale. Sono pagine di storia vissute da Sandro Bella, quando era ragazzo. C’è una poesia che merita di essere conosciuta e letta: “Marzo 1944… la sfida”. Sandro Bella scrive in calce alla poesia: “Questo fatto è realmente accaduto al sottoscritto durante la seconda guerra mondiale, durante gli otto mesi che passai da sfollato a Civitanova Alta, dove avevo sistemato, in un locale di fortuna, la mia barbieria” (Ibidem, pag. 37).
Marzo 1944.. la sfida.
“Llo jòrno, adèra più o meno le tre, / rraprìo la varbierìa su a Ccitanò’ / bbòcca u’ u- todesco ‘m- bò’ ‘mbriaco, che, / a parte che purtìa u’ m- pistolò’ // che a mme no’ mme facìa ‘mbaurì’ pe’ gnè’, / me dice: … Arbeit? … Rispònno: … Ja! Che vvò?. / .. Der bart Me fa… Sci, méttete a ssedé’, / ch’addè’ te còngio io, oh ‘mbriacò’!… // ‘Lo todesco, ‘ppogghjava ‘lla pistola / assòpre de ‘na mènzola scassata, / e mme facìa, co’ u- na mossa sola, // capì’ che ‘llo momènde no’ scherzava: / ‘ppogghjàta llà, / la mia… io la tinìo ghjà su le mà’…” (Ibidem, pag. 57).
Traduzione: “Quel giorno era più o meno le tre, / aprivo la barbieria su a Civitanova / entra un tedesco un po’ ubriaco, che / a parte che portava un pistolone / che quanto a me non faceva per niente paura, / mi dice: … Lavora? … Rispondo:… Sì! Che vuoi?… / La barba, mi fa… Sì, mettiti a sedere, / che ora ti concio io, ubriacone!… // Il tedesco, poggiava la pistola / sopra una mensola scassata, / e mi faceva con una mossa sola, / capii che in quel momento non scherzava: / guai se gli avessi fatto una ferita, / diversamente mi avrebbe sparato con la pistola, // … Se la sua arma stava poggiata là, / la mia… io la tenevo in mano”.
Sfilano, nella silloge di poesie, come in una galleria, alcuni personaggi singolari molto conosciuti a Porto Civitanova: “Nanni Molèna, Urbino, Spaghetto, Lo Padovano, U’ m Portése spaccato, ‘Ngiulì la chjéppa. Appartengono ad una realtà storica molto lontana. Merito di Sandro Bella di averla raccolta e riproposta nella poesia.
Spaghetto
“Purtìa u’n – verrétto alla venditre / do’ li capiji je scappìa de fo’ / ‘na varba che no’ n – e ne dico, po’, / e ppe gghjonda no’ n- gamminava vè’ // L’era pijato tutti a bbenvolé’ / essènne ‘n – òmo vono, u’ n- vonacciò’ / che ghjàva sembre apprèsso a le perzò’, / pe’ ffaje ‘che mmasciàta, i’ mmodo che // se guadagnìa ‘che ppiatto de spaghetti, / (je piacìa più de ‘gni addra còsa seria) / essènne u’ gra’ mmagnà’ de li puritti. // Se cc’era ‘n- òmo da lo triste sguardo / e che c’ìa addòsso ‘n- zacco de miseria, / era Spaghetto… Peppe… Leonardo” (Ibidem, pag. 32).
Traduzione: “Portava un berretto sulle ventitré / con i capelli che gli fuoriuscivano / una barba che non dico poca, / e oltre questo non camminava bene. // Tutti l’avevano preso a benvolere / essendo un uomo buono, un bonaccione / che andava sempre dietro alle persone, / per sbrigare qualche commissione, cosicché / si guadagnava qualche piatto di spaghetti, / (che gli piacevano più di ogni altra cosa) / essendo un gran mangiare dei poveretti. // Se esisteva un uomo dallo sguardo triste / che aveva addosso tanta miseria, / era Spaghetto… Peppe, Leonardo”.
Scrive Sandro Bella a nota della poesia: “Spaghetto, al secolo Leonardo Moschini, nacque il 28 aprile 1905 a Kulais (Caucaso), dove il padre lavorava, e morì il 10 luglio 1968 a Porto Civitanova. Lo chiamavano tutti “Spaghetto” perché amava tato questo tipo di pasta. Conduceva una vita da barbone ma era di una onestà esemplare. Sua madre Nunziata, rimasta vedova, si guadagnava da vivere attingendo acqua dalle fontane per portarla alle famiglie, grazie ad una brocca di terracotta che se la poneva sopra il capo, attutendo l’appoggio con uno straccio avvoltolato. Oltre che Spaghetto, lo chiamavano anche Peppe, ma il suo vero nome era Leonardo!”.
Lo Padovano
“Je sse dicìa ssuscì lo padovano. / E sembre a java i’ gniro ‘nzengherènne / a spippettà’ ‘llo sighero toscano / che ‘n- ogni via lo java svaporènne. // La jènde, da vicino e dda londano, / a lo sfuttìa e lo java cojonènne, / ma isso, matteghjènne, / je lluccava… zozzo d’un marchigiano! // E quanno rispunnìa co’ ‘ssa filippa, / assòtta de ‘llo trènge viango e stretto, / a se vidìa che je scoppjava la trippa. // Ppicciàva… stutàva … a tutta callara. / Ll’amica, (sapessèste che duetto!?) / dèra la fija de la pupazzara” (Ibidem, pag. 33).
Traduzione: “Gli si diceva così: lo padovano. / Andava sempre in giro a far zingarate / fumava il sigaro toscano / e ovunque andasse si vedeva la nuvoletta (di fumo). // La gente, da vicino e da lontano, / lo sfotteva e lo coglionava, / ma lui, facendo il matto simpatico, / gli gridava… sozzo d’un marchigiano! // E quando rispondeva con questa frase, / sotto l’impermeabile bianco e stretto, / si vedeva che gli scoppiava la pancia. // Accendeva… spegneva… a tutto spiano. / L’amica, (sapeste che duetto!?) / era la figlia di uno che aggiustava le bambole”.
“Il padovano, ex Maresciallo della Marina Italiana, era originario di Padova. Poi i fatti della vita lo condussero a Civitanova Marche, dove fu costretto a vivere da barbone e anche deriso dalla gente. Conviveva con una donna, conosciuta come la figlia della “pupazzara”, formando una coppia alquanto caratteristica. La madre di lei, un’affittacamere in via Macerata, era chiamata col soprannome di “pupazzara” perché il marito aggiustava le pupe, le bambole, nel mercato domenicale” (Ibidem, pag. 33).
Li Portési
“A che chjamìa Portési, a nnuà, quagghjò, / perché eriàmo de Portocitanò’. / ‘N- z- èsse da crede ch’era ‘n- disonore / se cce chjamìa ssuscindra ‘n- dutte ll’ore; / anzi, pe’ tutti nuaddre adèra u’ n- vando / che cce rrimbìa d’orgòjo, ‘n- ze sa quando! / Jènde de maro e tutta jènde dura, / purassà’, ‘na forza de la natura / che la fadiga ce l’aìa ‘ngallita / finamènde a la fine de la vita. / Ce tinìa tutti de èsse’ u’ m- Portese. / ‘Lla òrda, (òggji a pararà’ scortese) / ce usava spesso a domannà ccuscì: / … Ahò, cullù! … dì’ ‘m- bò: ma de do’ scì? / Je rispunnìa guardènne ‘m- bò’ pe’ storto: /… Che ‘n- ze vede, che sso’ de qua lo Port?” (Ibidem, pag. 13).
Traduzione: “Ci chiamavano Portesi, noi, quaggiù, / perché eravamo di Porto Civitanova. / Non si creda che era un disonore / se ci chiamavano così a tutte le ore; / anzi per noi era un vanto / che ci riempiva d’orgoglio non si sa quanto! / Gente di mare e tutta gente dura, / ci mancherebbe, una forza della natura / la fatica ce l’aveva con i calli alle mani / fino alla fine della vita. / Tutti ci tenevano ad essere un Portese. / Quella volta, (oggi sembrerà scortese) / si usava spesso domandare così: / Ahó! Buonuomo! Dimmi un po’ di dove sei? / Gli si rispondeva guardandolo un po’ storto: / Che non si vede, che sono di qua del Porto?”.
Portocitanò’ mia
“Portocitanò’ mia / de quella de ‘na ‘orda, / de vè’ che se statìa / gnisciuna se lo scòrda. // Su ppe’ ‘lle vie tranquille, / su ppe’ ‘lli vélli prati, / li jochi sembre a mmille / e tutti spensierati. // Lo maro, lo vuschétto, / la Casa de’ r- Balilla, / lo Caffè de Maretto / e, tando pe’ finilla, / ll’ippodromo… li blocchi… / che témbi, mòoomma miiiaaa!… / se chjudo mmoccò ll’òcchji / me vè’ la nostargia; / nostargia de ‘lla ò… / de Portocitanò’” (Ibidem, pag. 61).
Traduzione: “Portocivitanova mia / quella di una volta, / quando si stava bene / nessuno lo dimentica. // Su per le vie tranquille, / su per i bei prati, / i giochi sempre a mille / e tutti spensierati. // il mare, il boschetto, / la Casa del Balilla, / il Caffè Maretto / e, tanto per finirla, / l’ippodromo…, i blocchi…/ che tempi?, mamma mia!… / se chiudo un po’ gli occhi / mi viene la nostalgia; / la nostalgia di una volta… / di Portocivitanova”. I Blocchi, di cui si parla nel testo, sono quelli in pietra messi a migliaia davanti all’area della chiesa di Cristo Re prima della guerra. Erano stati messi lì per la costruzione del molo nord. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale non se ne fece nulla. I lavori ripresero subito dopo la fine del conflitto.
‘Na stella, u’ n- distino, li momendi de la vita, a Sirvia, a lo spundà’ de ll’arba, devoziò’ sono invece poesie che rimandano alla riflessione sulla vita, che in un’altra poesia Sandro Bella definiva come un affacciarsi alla finestra. Si vorrebbe che tutto durasse per sempre, invece tutto ha una fine.
“Quanno che ghjà lo sole è tramondato, / se vede combarì’ le prime stelle, / ‘mbò tremolandi e ‘mbò spiritatèlle, / che sta’ a ‘llo posto a llora riservato. // Lo célo, a notte fònna, s’è mmandato / de mijara de stelle vrllarelle, / che mmo’ ‘dè tutte luminose e vvèlle, / che Dio pe’ tutti quandi ci- ha creato. // Ogniuno a ci- ha ‘na stella, u’- distino. / Se sa che la speranza de la jènde / è che ‘ssa stella a guida lo cammino / de ogniuno de nuaddre, ‘n- dutte ll’ore / e ‘n- dutti li momendi, finamènde / do’ ‘ria la volondà de lo Signore” (Ibidem, ‘Na stella, u’ n- distino) pag. 41).
Traduzione: “Quando il solle è già tramontato, / si vedono comparire le prime stelle, / un poco tremolanti e paurose, / che stanno in quel posto a loro riservato. // Il cielo, a notte fonda, si è ammantato / di migliaia di stelle che brillano, / ora sono tutte luminose e belle, / che Dio per tutti quanti ci ha creato. // Ognuno ha una sua stella, un destino. / Si sa che la speranza della gente / è che questa stella guida il cammino / di ognuno di noi, in tutte le ore / e in tutti i momenti, fin dove / arriva la volontà del Signore”.
“C’è sembre u’ gnòrno triste e dde dolore / che tutti quandi c’èmo su ‘sta vita; / sarrà da ‘sso momènde che lò còre / ‘dè comme se ci. aèsse ‘na ferita. // Se anghe lo cambà’ ‘dè tribbulato / e li moméndi voni no’ c’è tandi, / però c’è sembre chj s’è ‘ccondedato / pijènne quello pòco… quell’istandi… // Cuscì, per quanno sia, ghjà lo sapémo / che ‘n- dutti li momendi e ‘n- dutte ll’ore, / derète de nuà ce strascinémo / ‘lla dura e Santa Croce de’ r- Signore” (Ibidem, Li momendi de la vita, pag. 26).
Traduzione: “C’è sempre un giorno triste e di dolore / che tutti quanti abbiamo in questa vita, / sarà da questo momento che il cuore / è come se avesse una ferita. // Se anche la vita è tribolata / e i momenti buoni non ce ne sono tanti, / però c’è sempre chi si è accontentato / prendendo quel poco in quell’istante… // Così per quanto sia, già lo sappiamo / che in tutti i momenti e in tutte le ore, / dietro di noi, strasciniamo / la dura e Santa Croce del Signore”. Il contenuto della poesia si commenta da solo. Abbiamo sempre una ferita nel cuore. I momenti di gioia e di dolore si alternano gli uni agli altri. La vita è tribolata, lo sappiamo bene. L’epidemia ci sta accompagnando da più di un anno. Accontentarsi di quel che si ha, senza aspirare ad avere alcunché di superfluo. Prendere su di noi la Croce di Cristo e dare il meglio di noi stessi. Questo ci dice Sandro Bella.
Raimondo Giustozzi
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