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Versus Magazine. Voci dal mondo popolare Ricordo e nostalgia del passato nella poesia dialettale

di Raimondo GiustozziSan Valentino

“Quand’anni adè ppassati!… Mòoomma miiia!!”. “Quanti an in pasaa, te se recordet”. Sono i primi versi di due poesie dialettali lontane geograficamente. La prima apre l’antologia di poesie in vernacolo civitanovese: “C’era ‘na ‘orda… a Portocitanò” di Sandro Bella. La seconda, dal titolo “Minestrun Frecc”, è di un poeta brianzolo. Non hanno nulla in comune a livello di lessico, sintassi e fonetica. La nostalgia, intesa nel senso classico del termine come dolore per il ritorno al passato, è invece la stessa.

Avevo messo da tempo la poesia brianzola dentro al libro di Sandro Bella. Era stata stampata molti anni fa, quando abitavo ancora a Giussano, in Brianza, su un dépliant che invitava ad una “Cena sotto le stelle”, promossa dalle ACLI, Associazione Alpini, Gruppo Missionario, Gruppo Teatro di Giussano, per finanziare la costruzione di una scuola professionale a Kalpitiya nello Sri Lanka. Dovevo trovare il tempo per proporle al lettore assieme ad altre poesie. L’ho trovato in queste settimane di fine estate, quando caldo non fa più e si riesce a leggere e scrivere, nipotini permettendo.

Recordénne

“Quand’anni adè ppassati!… Móoomma miiia!! / Se cce rpénzo, a me rvène su la mènde / u’n zacco de recórdi e, ghjustamende, / la joendù, li jóchi, l’alligria. // e perché no? Per quanno vrutti sia, / la guerra, la miseria, e quella jènde / ch’adè ghjà morta, ma cuscì co’ gnènde. / E ‘nnanzitutto io recordaria // ‘lli vélli jochi, a tana, a nnabbuschì, / a uno monda la luna, a ccambanó, / a mmaritózzo fèrmete, a ssandì, // a la ppàppa, a vola, vola picció, / po’ lo tinè, la frèzza, lo scallì, / la trulla, ll’aquilù, a crescemondó, // e addri jóchi, andichi… strapassati… / Móoomma miiia! … Se quand’anni adè ppassati!!!” (Sandro Bella, C’era ‘na òrda… a Portocitanò, poesie in vernacolo civitanovese, pag. 9, 1998, città di Civitanova Marche, assessorato alla cultura).

Traduzione: Quanti anni sono passati! Mamma mia! / Se ci ripenso, mi vengono in mente un sacco di ricordi e, giustamente, / la gioventù, i giochi, l’allegria. // Perché no? Per quanto siano brutti, / la guerra, la miseria, e quella gente / che è morta, così con niente, / Innanzitutto ricorderei i bei giochi, a tana, a nascondino, / a uno monta la luna, a campanone, / a maritozzo fermati, a figurine, // a indovinello, vola, vola piccione, / a bastoncino, la fionda, scaldino, // trottola, l’aquilone, cresci mucchio, // e altri giochi antichi sorpassati/ Mamma mia! Quanti anni sono passati” (Traduzione fatta da chi scrive).

Su questi giochi popolari di tanto tempo fa si può leggere il libro di Angelo e Mariano Guarnieri, Cuscì juchìa li frichi de portocitanò giochi e passatempi di tanti anni fa, Biemegraf – Piediripa di Macerata, gennaio 1989. Frichi, nel dialetto civitanovese e non solo, sono i ragazzi. E’ un bel volume di un centinaio di pagine, corredato da disegni con didascalie, stampato a cura della Amministrazione Comunale di Civitanova Marche. Vi sono riportati tutti i giochi citati nella poesia ed altri ancora.

Sandro Bella, in gioventù esponente di spicco del complesso Cuban Hot Bella assieme ai fratelli, Virgilio e Luigi, deposti clarinetto, violino e sassofono, ha esercitato da sempre la professione di barbiere nella centralissima via Tripoli, parallela al Corso Umberto I di Civitanova Marche. Gli incontri con i clienti, l’attenzione ai discorsi anche bisbigliati, il garbo che lo contraddistingue nei rapporti umani gli hanno permesso di ascoltare e mettere in versi espressioni e parole dialettali in via di estinzione ma che fanno parte del mondo popolare di Civitanova Marche. Ecco allora nell’ordine di tempo tutte le sue pubblicazioni in vernacolo. ‘Na storia ‘na città (1991), C’era ‘na orda … a Portocitanò (1998), Li Portesi (2007) Ll’indrighi … e le pasciò da  I Promessi Sposi, sonetti in vernacolo civitanovese (2010).

 

 Minestrun Frecc.

L’espressione Quand’anni adè ppassati della poesia civitanovese diventa Quanti an in passa nel dialetto brianzolo. Il testo richiama il duro lavoro di tanto tempo fa, quando la fame faceva da padrona. L’albero degli zoccoli, il film del 1978, diretto da Ermanno Olmi, è forse il documento più veritiero e più vicino alla realtà di tutta quella fascia pedemontana che si estende a Nord della Lombardia, dalla provincia di Varese fino a quella di Bergamo. La Brianza è il cuore di questo vasto territorio.

“Quanti an in passa, te se recordet / seta giò sul basel de ca’ / cont ul baslott in man / se sturdiva la fam. / Vardavi el su ch’el se scundeva pian. // Minestrun frecc / vureva dì / linvernu l’è finì / Gh’era  pieu i margasc e i galoz sul camin / e sott’al pugieu cipiven i rondinin // Minestrun frecc / regourdat stasira / me scolda el coeur / che’ più la ca’ cunt i so’ basei / ma in del minestrun i fasoei in sempre quei”.

Traduzione. “Quanti anni sono passati, ti ricordi, / seduti sul pianerottolo della casa / con una grossa scodella in mano / si metteva a tacere la fame. / Guardavo il sole che tramontava piano. // Minestrone fresco/ voleva dire che l’inverno era finito / non c’erano più i fusti del granturco secco e i tutoli a bruciare sul camino / e sotto la grondaia cinguettavano le rondinelle // Minestrone fresco / ricordato stasera / Mi si riscalda il cuore / non c’è più la casa con i suoi ballatoi / ma nel minestrone i fagioli sono sempre quelli” (Traduzione fatta da chi scrive).

Era na vòte

Il titolo, che si può tradurre senza difficoltà con era una volta, è la prima poesia che apre la raccolta Quanne savame noi, sonetti in dialetto grottammarese con commenti e disegni dell’autore. Sono cento cinquantadue poesie che descrivono ogni angolo, festività, eventi, lavori, persone, stagioni, abitudini di una comunità raccolta attorno a Grottammare, un ameno paese di mare, in provincia di Ascoli Piceno. Scrive l’autore: “Letteralmente il titolo vuol dire Quando eravamo noi. Ma più che ai nostri tempi, la frase voleva significare quando c’eravamo noi a fare le cose che si fanno oggi, con quel senso di orgoglio e di vanto che ci veniva dalla diversità, ritenuta in meglio, di come certe cose erano o si facevano allora, rispetto a quanto succede oggi” (Mario Lanciotti, Quanne savame noi, sonetti in grottammarese, pag. 11, a cura dell’Amministrazione Comunale Grottammare, Fast Edit – dicembre 2000).

“Che putrà di ‘sta bbire su sti foje / cerchènne de rvangà quelle ch’ha state / li juche, lu studià, le vastenate, / ’lli bbij tuffe da lu primu scoje // le rote che faci torce le corde, / le femmene nghe j urce su ca cocce, / tutte ‘ll spi pe’ ffa li fugaracce, / a ttasselli perterre nghe li sòrde. // A vuje quande cuse che rvè fore / la sciàbbiche quanne rrivi a la fine / ‘llu sacche niru nghe la papaline / tra le ciurliàte de li pescatore / ma a scrive nghe na bbire; boh… ma sci / ‘ mò vede se me trove nu pennì” Ravenna 91 (Ibidem, pag. 21).

Traduzione: “Cosa potrà dire questa biro su questi fogli / cercando di ricordare quello che è stato / i giochi, lo studio, le bastonate, / quei bei tuffi dal primo scoglio // le ruote che facevano intorcigliare le corde, / le donne con gli orci sulla testa, / tutti gli spini raccolti per fare il falò, / il gioco a tassello per terra con i soldi. // Hai voglia quante cose rivengono fuori / la sciabica quando arrivava alla fine / quel sacco nero con le sardine / tra il chiasso dei pescatori / Ma a scrivere con una biro, boh. Ma sì / ora vedo se mi ritrovo un pennino” ( Traduzione fatta da chi scrive).

Note dell’autore e una sua breve biografia.

Il falò era quello dell’Immacolata. Il gioco a tassello veniva praticato con monete e un quadrato disegnato a terra. Le sardine erano chiamate papaline perché piccole. Le ciurliàte, ciurluate ( in dialetto civitanovese) era il chiasso prodotto per le voci concitate di tutti, per fare in fretta e non fare scappare il pesce. Mario Lanciotti nasce a Grottammare il 20 aprile 1941, in via Pola, nel cuore del rione Casette, dove vive per circa vent’anni. Dopo il conseguimento della maturità al Liceo Scientifico di San Benedetto del Tronto si trasferisce a Bologna, dove è accolto nel College Universitario, fondato dal cardinale Giacomo Lercaro a seguito dell’alluvione del Polesine. Con la laurea in Ingegneria Chimica è assunto all’ANIC di Pisticci (MT), dove lavora per una decina d’anni, per passare poi all’ENICHEM di Ravenna. Sempre interessato al folklore, si interessa con passione al dialetto locale tanto da pubblicare nel 1990 il primo sonetto in romagnolo. Ne seguono a ruota degli altri fino alla pubblicazione della raccolta “Notturni in sonetti romagnoli”. Fu nel corso di questa esperienza che nasce in lui e prepotentemente il bisogno di dare voce ai ricordi legati alla propria terra d’origine. Se per gli argomenti romagnoli doveva attingere, per quanto poteva, all’esterno per il quale “Ero e sarò sempre un estraneo”, così scrive, per i contenuti grottammaresi la linfa vitale era dentro di sé. Doveva solo riannodare i ricordi. Nasce così nel 1991 il libro Quanne savame noi.

 

Sa’ Malindine (San Valentino)

E’ il titolo di sessanta sonetti abruzzesi, ne è autore Giuseppe Tontodonati (Scafa – San Valentino, 02. 02. 1917 – Bologna, 6 gennaio 1989), che ho avuto modo di conoscere personalmente nell’estate del 1988, in una delle sue visite che faceva spesso nella cittadina abruzzese, dove era nato tanti anni prima. Quanto a me, trascorrevo tutto il mese di agosto proprio a Scafa, il paese di mia moglie, quando ritornavo da Milano. Mario Lanciotti, di Grottammare, l’ho scoperto dopo, grazie all’amico Giuseppe Santori, di Civitanova Marche. Quando mi sono avvicinato al dialetto grottammarese, lo trovavo vicino per alcuni versi a quello della media Val Pescara.

Allo scoppio della seconda guerra mondiale, Giuseppe Tontodonati parte per il fronte greco – albanese. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 subisce la deportazione in Germania. Viene trasferito in diversi campi di concentramento e di lavoro: Mühlberg – Elbe, Torgau, Piesteritz, classificato come IMI (Internati Militari Italiani). Ritorna a Pescara nel 1945. Nel 1954 muore la sua prima moglie, la pittrice Isabella Ardente, sposata nel 1938, poco prima di partire per il fronte. Nel 1955 si risposa con Gilda Tontodonati e dal loro matrimonio nascono tre figli: Angelo, Raffaello e Gabriella (Wikipedia). Nel 1959 si trasferisce per motivi di lavoro a Bologna, dove vive assieme alla propria famiglia fino alla morte (6 gennaio 1989). In tutto il periodo bolognese partecipa attivamente alla vita culturale della città. Fonda il Centro Internazionale delle Arti (CIDA),  mettendo in campo tutta la propria esperienza nel settore delle arti figurative. Il centro, di cui diventa presidente, rimane uno dei poli culturali più attivi di Bologna dal 1973 al 1985, con recitals di poesie e mostre d’arte. Storie Paesane, 1968, Dommusé, 1974, Le Scafe, 1976, Canzoni Abruzzesi, 1979, Storie Paesane, 1979, Terra lundane, 1980, Rapsodiail Guerriero di Capestrano, 1982, Sa’ Mmaldine, 1983.

Sa’ Mmalindine. E’ il primo sonetto della raccolta che porta lo stesso titolo. Il libro è diviso in due parti; nella prima si alternano “I solenni edifici cittadini, la cattedrale disegnata dal Vanvitelli, le antiche chiese, i palazzi nobiliari ma anche le modeste abitazioni rustiche poste tra campi coltivati e boschi secolari. Superbi sono “gli scorci paesaggistici” (Sa’ Mmaldine, sonetti abruzzesi, Introduzione di Umberto Russo, 1983, Editrice “La Regione” – Pescara) . Nella seconda parte, dedicata alla mamma, il poeta  “racchiude in una serie di quadretti delicatamente dipinti il ricordo del nido romito, Cannelore, dove la madre del poeta nacque e visse da giovinetta e dove ricondusse i figli ad attingere alle fonti della stirpe. Il desiderio intenso del poeta è di recuperare con la poesia un mondo perduto per sempre. La contrada Cannelore è veramente un sogno del passato, una favola affascinante che può soltanto illudere il cuore del poeta, ma senza placarne la sete” (Ibidem).

“Sa’ Mmaldine! secreta speranze / de stu core si ttu…terra lundane…/ ddó màmmeme fiurì le gravidanze / e piccirille me purtì pe mmane…, // Addó lu ddore fresche de lu pane / prufume l’arte e accorce le destanze / de sta cuntrad’andiche… rustecane.., / ggindile de custume e dde crijanze. // Nu pajese destande gna na stelle, / fra – i – nìbbele durate e li nevale / scindellande de sole alla Majelle. // De vjecchie storie parle lu castelle.., / nghe la facciate de lu Vambetelle” (Sa’ Mmaldine, G. Tontodonati).

Traduzione: San Valentino! Segreta speranza di questo cuore, / sei tu terra lontana / Dove mia mamma mi mise al mondo / e piccolino mi portò per mano. // Dove l’odore del pane appena sfornato / profuma d’arte e accorcia le distanze / di questa contrada antica, rustica / di costumi gentili e di buone maniere. // Un paese distante come una stella / fra le nuvole dorate  e i nevai / scintillanti di sole della Maiella. // Di vecchie storie parlano il castello / con la facciata del Vanvitelli” (Traduzione fatta da chi scrive).

Alcuni versi dedicati a Cannilore, la contrada dove è nata la mamma del poeta: “Dopo Pizzute, gna la strada vóte, / sta cannilore a ttire de fucile. / Lu tembe, tra ste case, è gne una vote; / ferme a rrecurde dell’età ggindile! // Le vacche, a ppasse lende, vann’asciote / rret’allu cambanacce cape file / la traje sverne dope lu raccote / sott’a nu purtecate vjecchie stile. // Casa materne nghe le fuculare / ddo nonne, appena dopo Vemmarije, / chiameve a vvocia – longhe sti quatrare. // Ji’ l’arvede ammez’ a sta famijje / la nonna me’, spumose gne lu mare, / ggelose sulamende de li fijje! // Cannilore!… raccióppele de case / destande appene dalla starda nove / gna sta la facce arrete de lu nase, / tribbule pe lu fanghe quando piove. // Nghe ll’are accape addo se secche spase / le cacàcce a ppanille de lu vove, / li carracine e, ddope lu travase, / la prima fecce de lu vine nove. // Nu fagge merecane stiracolle / fa na cóppella d’pmbre nghe le fronne / su na case de prete e qquattre zolle! // “Cannilore… lu cendre de lu monne! … a jècch’ à nate mamme… e dda stu colle / pe lu repose etèrne partì nonne” (Ibidem, pag. 58- 59).

Traduzione: “Dopo Pizzuto, dove la strada svolta / sta Cannelore ad un tiro di schioppo. / Il tempo, tra queste case, è quello di una volta, / lo stesso che ricorda l’età della gentilezza! // Le mucche, a passo lento, pascolano libere / dietro al campanaccio del capo fila / la treggia sverna dopo il raccolto / sotto un porticato vecchio stile. // Qui è la casa materna con il focolare / dove nonna, appena dopo l’Ave Maria, / chiamava a voce prolungata queste quattro aie. // Rivedo in mezzo a questa famiglia / mia nonna, / spumeggiante come il mare, / gelosa solamente dei figli! // Cannelore! Un gruppo di case/ distante dalla strada nuova / quanto la faccia sta lontana dal naso / difficile da raggiungere per il fango quando piove. // Con l’aia dove si mettono ad essiccare sparse / le cacche diffuse del bove, / i fichi secchi e dopo il travaso, / la prima feccia del vino novello. // Un faggio americano molto alto / forma una cappa d’ombra con le fronde / su una casa di pietra e quattro zolle! // Cannelore… il centro del mondo! Qui è nata mamma e da questo colle / è partita mia nonna per il riposo eterno

( Traduzione fatta da chi scrive).

Ca’ de ringhéra.

La casa di ringhiera nell’ottocento era la tipica abitazione popolare, molto diffusa a Milano, in Lombardia e in genere in tutta l’Italia Settentrionale. Prevedeva la compresenza, di più appartamenti su ciascun piano di un edificio, ai quali si accedeva attraverso un unico ballatoio in comune con tutti i condomini che abitavano nello stesso edificio. Ricopiava  in qualche modo parte della tipologia abitativa della cascina, costituita da più corpi di fabbrica. L’edificio destinato all’abitazione era costituito da un piano terra, dove era sistemata la cucina, al piano superiore, in verticale rispetto alla cucina, erano le camere da letto. Nel piano inferiore, davanti alle singole cucine dei diversi nuclei familiari, si apriva un porticato comune a tutti i paisàn (contadini). Nel piano superiore, un ballatoio comune, che correva per tutta la lunghezza del fabbricato, portava alle camere. Al ballatoio si accedeva attraverso una scala interna. Porticato, scala e ballatoio rappresentavano luoghi di incontro e di conversazione.

Oggi, molte case di ringhiera e cascine restaurate sono diventate abitazioni di lusso, dotate di ascensori, aria condizionata, citofoni e di ogni altro comfort ma non sono più abitate dalla gente di tanto tempo fa. Il ricordo di quel tempo lontano diventa struggente nostalgia nella poesia di Alfonsina Franzi Santini:  “L’era ‘ na vègia cà cun la ringhéra. / Gènt a la buna, che stava in del so brööd. / Al més de macc fiurivan i balcùn. / Fiurivan i basìtt suta ai purtùn. / Cul temp la cà lè stada restaurada. / Adès l’è “Casa d’epoca”. / la porta cul citofono. Aria cundiziunàda. / gh’è fina la mansarda riscaldàda! // Staséra / sun dovüda pasà per quèla strada / Gh’è un’ambulanza fö del mè purtùn. / Un bèll bagàj slungaa su la barèla / Droga – Overdose. ‘Na curza a l’Uspedaa. // L’è ancamç macc – Che brüta primavéra! / Fiurisan pü i basitt suta ‘l purtùn, / La piàang una sirèna in de la sera. / Suna i campàn per la Benediziùn” (Alfonsina Franzi Santini, Ca’ de ringhera, in Voci e immagini poetiche 3 gruppo letterario “àcàrya – Como, pag. 119, Como 1987)

Traduzione: “Era una vecchia casa di ringhiera. / Ci abitava gente alla buona, che si accontentava di poco ./ Nel mese di maggio fiorivano i balconi / Fiorivano i piccoli vasi sotto i portoni. / Col tempo la casa è stata restaurata. / Ora è una casa d’epoca. / Ha la porta col citofono, l’aria condizionata / C’è addirittura la mansarda riscaldata! // Questa sera sono dovuta passare per quella strada / C’è un’ambulanza fuori dal mio portone. / Un bel ragazzo è steso sulla barella / Droga – Overdose. Una corsa all’ospedale. // E’ ancora maggio – Che brutta primavera! / Non fioriscono più i vasi sotto il portone. / Piange una sirena sul far della sera. / Suonano le campane per la Benedizione” (Traduzione fatta da chi scrive).

Sono poesie diverse che provengono da regioni lontane tra loro. In tutte c’è comunque il ricordo del passato visto con nostalgia. Chiaramente l’ultima poesia è una denuncia verso lo spaccio e il consumo della droga da parte delle giovani generazioni. Altri mali mettono a repentaglio la vita dei giovani. Non basta il Coronavirus a sconvolgere le nostre vite. Ci mettiamo del nostro. Ogni giorno si registrano stupri, femminicidi, violenze inaudite, l’ultima delle quali accaduta a Colleferro, consumata dal branco ai danni del giovane Willy Monteiro Duarte morto per le percosse subite. Siamo tutti corresponsabili del male che avviene attorno a noi.

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