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Libri | Dolores Prato, Giù la piazza non c’è nessuno Quando i ricordi diventano memorie

raimondo

Dolores Prato (Roma, 1892- Anzio, 1983) visse l’infanzia e la giovinezza in una cittadina dell’alto maceratese, Treia, la città di Carlo Didimi, ricordato e celebrato da Giacomo Leopardi nella poesia: “A un vincitore nel pallone”. Treia, già Montecchio, Trea l’antico nome romano, in onore della dea Trea – Jana, divinità di origine greco – sicula, prima colonia romana, poi municipio, oggi è conosciuta, in Italia e nel mondo per la fabbrica LUBE cucine e per l’Associazione Sportiva Volley Lube, che ha la sua sede a Treia e il campo di gioco a Civitanova Marche, nel PalaCivitanova.

Per il mio approdo a Treja –  scrive Dolores Prato – il Deus ex machina fu certo la signora Rosina; ma ci deve aver concorso anche un misterioso influsso di nomi e di luoghi che si cercano e si legano tra loro, magnetiche forze ignote; nomi e luoghi percorsi dai fili di quell’invisibile tessuto che è il nostro destino; destino che si risolve anche nell’accadere quotidiano di quegli scatti che chiamiamo il caso. “ (Dolores Prato, Giù la piazza non c’è nessuno, pag. 141, Einaudi, Torino, 1980).

Il romanzo “Giù la piazza non c’è nessuno” prende forma negli ultimi dieci anni di vita della scrittrice, i cui ricordi del proprio passato diventano memoria e bisogno impellente di raccontare. Raccoglie tutto in più di mille cartelle. Natalia Ginzburg riduce il testo ad un terzo circa.  Continua la scrittrice nel capoverso successivo al testo sopra citato: “Avevo già i capelli grigi quando seppi il luogo preciso dell’immenso agro romano dove ero stata depositata a pochi giorni di vita: un fagotto affidato a una contadina della silenziosa campagna di Sezze. Fui affidata a una burina perché mi desse una boccata di latte prima, di pancotto dopo, perché mi pulisse quando proprio ce n’era bisogno e perché mi sottraesse a dove non dovevo esistere. Ebbene, a due passi da Sezze c’è Chiesanuova come c’è a due passi da Treja, e tra mio zio e Chiesanuova ci doveva essere un legame, mai visto com’era, ma sempre sentito fortissimo. Da una Chiesanuova a un’altra senza aver visto né l’una né l’altra” (Ibidem, pag. 141).

Rosina Bordoni, vedova Rinaldi, è una delle tante donne che compaiono nel romanzo. Lo zio, è don Domenico Ciaramponi, che, assieme a sua sorella Paolina Ciaramponi, nubile, in casa con lui, si prende cura della piccola Dolores. I due non hanno nessuna pratica di bambini. Superano le difficoltà facendo del loro meglio, circondando la bambina di ogni attenzione. Zizì, così Dolores chiama affettuosamente il proprio zio è un prete del tutto particolare. Assolve ai doveri del proprio stato, dice messa, recita il breviario, si reca nella chiesa del Suffragio, dove assieme ai canonici canta assieme agli altri religiosi le ore canoniche: Lodi, Prima, Terza, Sesta, Nona, Vespro, Compieta. Ama la caccia; in casa fa di tutto: dipinge, aggiusta, rattoppa, prepara balsami secondo una ricetta trovata tutta da solo, legge, ascolta la lirica, riceve visite. La zia Paolina è silenziosa, ama leggere, tra tutti i libri preferisce il “Il padrone delle ferriere” di Georges Ohnet (Parigi, 1848 – Avenue Trudaine, Parigi, 1918), uno scrittore francese di romanzi popolari.

Una donna, zia Ernesta, ama giocare con la piccola Dolores. Il marito, Guglielmo, uomo taciturno, non rivolge mai la parola a Dolores. Così fanno anche tutti gli altri che gravitano attorno alla piccola. Ernesta invece è un vulcano, sprizza allegria da tutti i pori della pelle. La mette a cavalcioni sulle proprie ginocchia come su un cavallo a dondolo: “Ora mi reggeva con tutte e due le braccia, ora solo con una mano e con l’altra mi ghiribizzava sulla faccia, mi faceva il solletico sotto il mento quando meno me l’aspettavo e io ridevo a garganella. Ridevamo tanto dentro quel massiccio malumore, che mi sentivo in un’oasi felice, sola con lei. Nessuno mi faceva mai scherzi come quelli; nessuno si divertiva con me; solo lei che tenendomi sulle ginocchia, mi sorrideva come nessuno faceva mai. Mi teneva per le spalle e cominciava a dondolarmi, avanti e indietro, fingendo di buttarmi giù, di lasciarmi cadere e intanto cantilenava: staccia minaccia, buttiamola giù la piazza, mi inclinava sempre più all’indietro finché la mia testa toccava quasi terra e io vedevo quel meraviglioso demonio dal rovescio; mai il demonio fu così bello, neppure quando era Lucifero” (Ibidem, pag. 56).

Il titolo dato al romanzo, contestato da Natalia Ginzburg che suggeriva di trasformarlo in “Giù nella piazza non c’è nessuno” per rispettare la sintassi, ma la spuntava Dolores Prato, è parte di una filastrocca che faceva forse così: “Staccia minaccia / buttala in piazza / la mamma non ci sta / è gita a fa’ lo pà / lo pà e le ciammèlle / pe’ ‘ste (sta’) fijole (fijola) vèlle (vèlla)” (Cfr. AA.VV. Ambarabà Ciccì Coccò, pag. 140, San Severino Marche, 1998). Il libro, curato da Donella Bellabarba, contiene proverbi, preghiere, filastrocche, stornelli, canti e molto altro ancora, raccolti sul campo dagli iscritti che frequentavano negli anni 1994- 1996 l’Università della Terza Età dell’Alto Maceratese. La ricerca era circoscritta ai comuni di San Severino Marche e Castelraimondo. Un qualcosa di simile lo sentivo e lo vedevo fare dalle nonne della media Val Pescara (Scafa, Alanno, San Valentino), in Abruzzo, verso i propri nipotini, ogni volta che se li mettevano a cavalcioni sulle ginocchia. Varia ovviamente il dialetto: “Site, Setacce / de sto fijo che ce ne facce / lo vutto in mezzo alla strada / nessuno lo racojie / passa passa la mamma sé / se lo tiene tutta per sé”.

Don Domenico Ciamparoni è un beneficiario. La casa dove vive è un usufrutto del beneficio. “Mansionario, beneficiato, si chiamavano quelli che prendevano meno e stavano in basso negli stalli del coro, quelli che stavano in alto e prendevano di più si chiamavano canonici” (Dolores Prato, Giù la piazza non c’è nessuno, pag. 8, Einaudi, Torino, 1980). L’abitazione, grande, con molte stanze, per ospitare governanti, parenti e amici, si trova  all’interno delle mura cittadine, lungo il corso principale di Treia, “uno stretto e lungo paese marchigiano disteso sul crinale di una collina addormentata”, come chiama il centro, dove visse fino al 1912, quando, terminato l’educandato presso le Visitandine, Dolores Prato si trasferì assieme alla zia Paolina, a Roma. Della città di Treia descrive la vita quotidiana, le famiglie più in vista, le tradizioni popolari, la campagna circostante. Esce di casa solo se accompagnata dalla zia Paolina. Una sola volta esce da sola, fino ad uscire dalle porte urbiche e si perde lungo la strada del ritorno. Assieme alla zia si reca diverse volte  a Macerata, presso il negozio di stoffe della signora Eloisa, amica della zia.

I ricordi dell’infanzia, trascorsa a Treia nella casa degli zii, non sono ordinati cronologicamente. Sono come affastellati gli uni sugli altri ma in modo piacevole, tanto che il lettore è invogliato di volta in volta a riprendere in mano il romanzo e rileggerlo nelle pagine più belle. Scrive sulla visita alla Madonna di Loreto: “Non mi interessavano affatto le tante statue intorno alla scatola di marmo che racchiudeva la Santa Casa, mi interessava quel largo gradino di pietra bianca che le gira tutt’intorno segnato da due solchi fatti dalla punta delle scarpe dei pellegrini che prima di entrare lo percorrevano sulle ginocchia. Mi interessava l’irregolarità dei due solchi leggermente ondulanti. Possibile che tutti i pellegrini in quel punto, attraverso i secoli, abbiano deciso di piegare un po’ a destra o un po’ a sinistra? Trovai da me una spiegazione: era stata la pietra a condurli; il solco s’era scavato a seconda della maggiore o minore durezza della pietra” (Ibidem, pag. 143).

Nel primo anno in casa con gli zii di Treia, la piccola Dolores deperiva di giorno in giorno. Non mangiava nulla. Ecco allora che la zia, prima di portarla dal dottor Guerra, in Ancona, la porta sull’altare della Basilica di Loreto, dicendo alla Madonna: “Vergine Santa, eccola, o la guarisci o te la riprendi”. Così le raccontava la zia molti anni dopo, quando Dolores è già una ragazza matura. Dolores, uscita di chiesa dice alla zia: “ho fame – ma quando mai hai avuto fame, le risponde la stessa.. Non darle ascolto, ti ho guarita io, bisognava trovare il modo di farti mangiare e lo trovai: un rosso d’uovo in un cucchiaio di marsala lo accettavi: una boccata e via! Facile per tutti – Così diceva il dottor Guerra.. il medico dei cittadini; non aveva bisogno del volantino come il dottor Cangini che era medico delle campagne e, chissà perché, dei conventi. Alto, benportante, figurava la dignità naturale. Come uno è biondo, lui era dignitoso. Il conte Grimaldi, invece, alto, barbuto, maestoso, troneggiante in carrozza, per forza era Giove, e quando attraversava a piedi il duomo per andare al posto decreto, camminava come chi sa di dover essere dignitoso; una professione” (Ibidem, pag. 21).

Tutto il romanzo è una ininterrotta galleria di personaggi descritti in modo impeccabile. Gli zii di Dolores frequentano famiglie pari a loro e anche di rango superiore: Bonomi, Grasselli, la contessa Casilde Duranti, il canonico Augusto Grassi, i conti Mazzolini, la famiglia Cervigni. Di ogni nobile famiglia sono riportati i blasoni, le memorie del passato, parenti che avevano fatto parte della spedizione napoleonica in Russia, reduci della Beresina e i loro legami con i Ciaramponi, lo zio don Domenico e la zia Paolina. La loro casa è sempre piena di donne: Scolastica, Eugenia, Rosina, Carlotta che insegna a Dolores come lavorare ai ferri, Giulia Senigaglia, aiuto della maestra Carlotta, Ernesta, Zelinda. Per il corso principale del paese corrono i ragazzetti, figli di poveri: Piccinì, Gentilina, Amedeo e tanti altri, ragazzi e ragazze.

A Dolores era vietato uscire per non mescolarsi con quelli che erano di un’altra classe sociale. La divisione era netta; borghesi da un lato, poveracci, operai e contadini dall’altro. I primi mangiavano il lesso, gli altri polenta. Tutti però avevano lo stesso sistema per sapere quale fosse l’ora del giorno. Non c’era bisogno di avere orologi. C’era il suono delle campane e dei monasteri. Suonavano tutte allo stesso orario: Lodi, Prima, Terza, Sesta, Nona, Vespro, Compieta. La maggior parte del tempo, la piccola Dolores lo trascorre in casa. Un bel giorno arrivano le coccette di Appignano, un piccolo paese dell’Alto maceratese, confinante con Treia. Le coccette erano sono piattini, brocchette, catinelle, piccole trufe, boccalini, tegami e pignatte. Le coccette riproducevano in minuscolo, tutto, persino la povertà. Un bel giorno accade che alcune coccette, giocando, si rompono. Dolores non si dà pace: “Mi s’erano rotte alcune coccette, giorni dopo, stavo seduta per terra in sala da pranzo, le spalle al muro, e piangevo” (Ibidem, pag. 67).

Cesare Cervigni, l’ingegnere che tiene i contatti con la madre di Dolores Prato, le aveva portato in regalo un vestito di seta. La mamma, forse per rimorso, di tanto in tanto, fa pervenire alla figlia bambole, case di bambole, vestitini. Cervigni loda il regalo del vestitino, ma a Dolores interessa solo le coccette e ordina a Dolores di smettere di piangere. Perde la pazienza e la schiaffeggia. Questa scappa dalle mani dell’energumeno e corre per la casa, strillando e piangendo. Si barrica in camera. Cervigni la raggiunge. Dolores non ha scampo. No: “Afferrai uno stivaletto della zia che era lì per terra e glielo lanciai con una forza trovata non so dove. Senza fionda fui brava come David, con il tacco lo colpii giusto in un occhio. Il gigante dette un urlo, si coprì l’occhio con le manone e piegato in due scomparve” (Ibidem, pp. 67- 68). Zizì, zio Domenico prende le coccette rotte e con pazienza, fil di ferro in mano, le rabbercia in qualche modo. Se ci fosse stato lui presente l’episodio non sarebbe mai successo.

La piccola Dolores ha verso lo zio prete un’ammirazione senza fine: “Quel mio zio poliglotta che disegnava e dipingeva, quasi calzolaio e falegname, botanico e chimico, che curava tutti i mali col suo balsamo, quel mio zio sempre allegro che sapeva rifarsi il letto e spazzava le sue stanze da sé, ora stava mettendo da parte alcuni libri, quelli che si sarebbe portato in America se riusciva a emigrare, perché voleva emigrare: era la sua belle époque” (Ibidem, pag. 190). Alla morte di un canonico, don Domenico viene elevato dal suo vescovo al rango di canonico e deve lasciare la Casa del Beneficio per un’altra dimora, la Casa del Cancro, chiamata così perché vi era morta di cancro la signora Amalia e per ultimo la Casa Gentilizia. Solo la prima casa, quella del Beneficio aveva sale grandi e un secondo piano affittato dalla famiglia Palmioli.

Quando questi si trasferiscono in un’altra casa, la famiglia Ciaramponi si trasferisce al piano superiore: “Lassù c’era una cameretta piccola con piccola finestra, piccole persiane, che avrebbero data a me per farci la casa di Gina, la grossa pupa che venne da Roma con tutti i suoi mobili” (Ibidem, pag. 168). La casa della pupa di cui parla la piccola Dolores era stata mandata dalla mamma in regalo alla figlia. Dolores non frequenta la scuola pubblica. I primi rudimenti scolastici li apprende in casa da un maestro. La zia ritiene opportuno “scegliere la maestra Teresina Ceccarelli per riempire i vuoti lasciati dall’insegnamento del maestro in casa, (Gigio Palmieri) e per farmi affrontare l’ammissione alla terza classe della scuola pubblica” (Ibidem, pag. 166). Lo zio non approva la decisione della sorella. Lui propende per la Scuola Pubblica, come non sarà d’accordo nemmeno che Dolores frequenti lo studentato delle Visitandine Salesiane di Treia, una volta terminata la Scuola Elementare. La decisione ultima spetta sempre alla sorella Paolina” “Fa’ tu, io non posso vederla ficcare là dentro”. Sarà la zia che seguirà Dolores Prato a Roma perché la ragazza possa frequentare l’Università di Magistero, dove “si laurea nel 1918 con una tesi su un carteggio inedito di Prospero Viani e Pietro Fanfani” (Fonte Internet). Zio Domenico emigrerà in Argentina.

Nella casa del Beneficio la piccola Dolores si imbatte più volte nella stanza dei bauli: “Il baule sa di trasferimento, di provvisorio, e lì ce n’era una camera” (pag. 13). Se c’erano i bauli si chiede Dolores, allora gli zii non erano forse nemmeno di Treia, ma erano arrivati lì da qualche altro posto. Parlando con Zizì viene a sapere che vengono dalla bassa pianura padana, più precisamente da Copparo, valli di Comacchio: “Un essere solare come lui era venuto dalla nebbia e non trapelò mai che la conoscesse. Veniva dall’acqua, da una terra di vegetazione mai arsa, di uccelli dal collo lungo che nuotano più che volare, uccelli d’acqua, uccelli d’aria; luce, acqua, terra, vegetazione folta, da quella confusione era venuto lui, per questo mescolava medaglie e monete, purché ci fosse lo Spirito, quello Spirito multiplo che alita sulla laguna che è vita, cielo d’aria, cielo d’acqua e sterminato silenzio. Nel silenzio innumeri vite che stormiscono appena” (Ibidem, pp. 276- 277).

Sono nata sotto un tavolino. Mi ci ero nascosta perché il portone aveva sbattuto, dunque lo zio rientrava. Lo zio aveva detto: – Rimandala a sua madre, non vedi che ci muore in casa? Ambiente non c’era intorno, visi neppure, solo quella voce. Madre, muore, nessun significato, ma “rimandala” sì, “rimandala” voleva dire mettila fuori dalla porta. “Rimandala” voleva dire mettila fuori del portone e richiuderlo. Pur protetta dal tappeto che con le frange sfiorava il pavimento, ascoltavo fitto fitto: tante volte venissero a cercarmi per mettermi fuori!” (Dolores Prato, Giù la piazza non c’è nessuno, pag. 3, Einaudi, Torino, 1980). E’ l’incipit del romanzo, da leggere più volte per capirlo in tutte le sue diverse sfaccettature: le voci di un mondo racchiuso in una piccola provincia italiana all’inizio del Novecento, tradizioni popolari, famiglie storiche della città di Treia, la storia di una bambina circondata dall’affetto di due zii, l’uno prete, l’altra nubile.

“Dolores Prato racconta la storia del rapporto stretto e profondo che prende vita, a poco a poco, fra la zia, il prete e la bambina. Di preti e zie nubili sono pieni i cammini della narrativa di ogni paese; ma qui essi appaiono in una luce del tutto nuova. Appaiono liberi, drammatici, forti e misteriosi. Lo sguardo della bambina li spia, li giudica, vigile, acuto, ironico e teneramente li ama. Sulla sfondo, a distanza, bizzarra e fluttuante, è l’immagine della madre che l’ha rifiutata, e di cui la bambina ammucchia, nel pensiero, i pochi ricordi e le poche notizie: chioma nera, tacchi alti, un corteo di altri figli, un amante che fa l’ingegnere ed è gigantesco e violento. L’evocazione è inconsueta perché non segue alcun disegno narrativo; a Dolores Prato sta a cuore semplicemente radunare attorno a sé e ricostruire un mondo sommerso nelle profondità del tempo; ed ella si muove ora avanzando ora tornando indietro, come persona che tenta di recuperare degli oggetti dopo un terremoto o un naufragio, fra le onde o fra le macerie. L’infanzia è inconsueta perché consapevole d’una situazione particolare, circondata da fatti oscuri e di segreti che si addensano ovunque, riempiono le stanze di casa, si allargano sui vicoli e sulle piazze della piccola città, dove la bambina cresce, investono l’intero paesaggio d’una solennità e di una maestà che lo rendono memorabile. Descrivendo luoghi e persone, Dolores Prato ricostruisce anche un’epoca, un modo di vivere che non esistono più” (Quarta pagina di copertina).

La narrazione si conclude con un appello accorato di Dolores Prato verso lo zio ormai lontano, in Argentina: “Zizì, mi vuoi bene come allora? Non sono cresciuta sai, sono solo invecchiata. Sorridi? Tutta l’eternità con te, ma, ecco, di nuovo il peccato e la paura, solo con te, non con la zia che pure è stata più generosa di te. Tu partisti per me, dicevi, ma era anche per assecondare il tuo temperamento; la zia che della mia vicinanza aveva fatto la sa vita, mi lasciava partire e restava sola; per lasciarmi partire, morì” (Ibidem, pag. 281). La mamma di Dolores Prato muore a Roma nel 1907, la zia Paolina, che segue Dolores a Roma, muore pochi anni dopo. Dolores, terminato lo Studentato nelle Visitandine di Treia si trasferisce a Roma fino alla sua morte (1983), tre anni dopo l’uscita del suo romanzo al quale teneva molto. I lettori di Dolores Prato hanno dovuto attendere l’edizione curata da Giorgio Zampa, per i tipi Quodlibet, nel 1997, per leggere il romanzo integrale di Dolores Prato “Giù la piazza non c’è nessuno”, 700 pagine circa, senza i tagli operati nella prima edizione, quella del 1980, curata da Natalia Ginzburg.

 

Raimondo Giustozzi

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