Dopo diciassette mesi di guerra, siamo diventati tutti più razionali, con l’adrenalina nel sangue finita ormai da tempo. Lo sfinimento e l’esaurimento sono andati oltre qualsiasi limite concesso, ma tornando nella mia terra cerco di calarmi nella quotidianità, fatta di piccoli e grandi gesti. Come alzarsi la mattina, prendere i fiori e posarli sulla tomba di una cara amica
Negli ultimi giorni i social mi hanno ricordato che cosa facevo un anno fa: attraversavo il confine ucraino per la prima volta dopo l’invasione russa, toccavo il suolo natio, rivedevo i miei genitori dopo l’occupazione russa, riabbracciavo i miei amici dopo sei mesi di guerra.
È passato un anno, i mesi di guerra sono diventati diciassette e sembra che niente sia cambiato. La guerra non è finita, per arrivare a Kyjiv non puoi prendere un aereo, ma sempre un autobus o un treno che si ferma lunghe ore al confine. Niente è cambiato eppure in questo anno la vita è andata avanti, non la mia magari, ma la vita in generale. Anzi forse in qualche modo anche la mia.
Ho perso alcuni amici italiani, ma non li biasimo, sono stata io ad allontanarmi perché non volevo palesare a nessuno i miei problemi: guerra, donazioni, scrivere di guerra, decolonizzare i russi. Ho trovato tanti amici italiani proprio per parlare di guerra, fare donazioni, scrivere di guerra e decolonizzare i russi. Ho perso alcuni amici ucraini, ma non perché mi sono allontanata ma perché sono stati uccisi. Quelli vivi li ho tenuti stretti stretti e ne ho trovati di nuovi.
La mia vita in un anno si è trasformata in una scaletta delle scadenze tra testi tradotti e scritti, tra lezioni preparate e fatte. Questi pilastri mi hanno tenuta a galla, anche perché avevano uno scopo preciso: diffondere la cultura ucraina in Italia. Ma c’è stato anche qualche giorno non di lavoro: il viaggio con Maria Grazia in Svizzera, i pranzi con Alessandro non per fare di traduzioni, le passeggiate con Anya a Gallarate, i caffè con Helena, l’unica sera di all you can eat con Tanietta quando finalmente mi sono negativizzata, perché mi sono presa anche il covid pesante a capodanno, i varenyky con Olga a Oxford, la sera passata a Torino con Francesco e Vittorio, la Napoli con Christian, Massimiliano e Pina, le mie passeggiate lunghe a Wrocław e i weekend a Praga con Vitalii, le risate con Linkiesta family, il giorno sul terrazzo a Venezia con Vika.
Con Vika la guerra è arrivata a soffocarmi, a prendermi per la gola, a farmi sentire i dolori al petto come quelli di quando i miei genitori erano sotto l’occupazione russa. Infatti qualche dolore al petto in più, i capelli più lunghi e sempre più bianchi, una frangia, sempre gli occhiali la sera dopo aver tolto le lenti, qualche esperienza in più e tante cose in meno.
La mia partenza dalla Polonia è stata bagnata e fredda anche quest’anno. Quest’anno, però, di giorno e non di notte. Per tutto il tragitto ha piovuto a dirotto, verso il confine polacco-ucraino ancora sotto l’acqua è spuntato l’arcobaleno, un simbolo di speranza difficile da ignorare.
L’anno scorso sull’autobus c’era gente che tornava in Ucraina per la prima volta dopo essere scappata, questa volta c’è qualcuno che ormai lo fa come routine, attraversa il confine di qua e di là, racconta le storie di quante ore ci hanno messo il mese scorso e quante a maggio, anche loro mandando avanti la loro vita, un po’ di qua e un po’ di là.
E c’è chi ancora, come me, riprende il cartellone “Ucraina” mentre si attraversa il confine ucraino. I passeggeri tendono le teste verso le finestre come le oche alla ricerca del pascolo. Credo che gli ucraini siano il popolo più paziente di tutti, altrimenti come si spiega la capacità di sopportare tutte quelle ore fermi al confine polacco. D’altronde resistiamo da diciassette mesi: ci nascondiamo nei rifugi, puliamo i detriti, doniamo, inciampiamo tra i detriti e ci rialziamo.
L’anno scorso ero così ubriaca di felicità nell’arrivare nella capitale dove ho vissuto per tredici anni che volevo baciare le pietre davanti alla stazione centrale di Kyjiv. Ma oggi sono più sobria, forse perché siamo tutti più razionali, con l’adrenalina nel sangue finita ormai da tempo. Ora le forze si razionano, ci permettono anche qualche giorno di riposo perché lo sfinimento e l’esaurimento sono andati oltre qualsiasi limite concesso.
Oltre la stanchezza di quasi dodici ore di viaggio, arriva qualche altro sentimento, la sensazione di riconoscere il posto a naso, a sapore, all’alfabeto delle insegne, la sensazione di casa, dove tutto ti è familiare, anche se questa volta rispetto all’anno scorso sento più paura: Kyjiv viene bombardata costantemente, Lviv, la mia prima tappa, è stata bombardata di recente.
Anche il tempo che penso di passare in Ucraina è di più di quello dell’anno scorso. Mia madre ha anche organizzato qualche visita medica e le ho consentito di farlo forse per immedesimarmi anche io nella normalità ucraina, andando anch’io dal dottore.
Oltrepassiamo il confine e la realtà ucraina diventa la mia realtà. Lo è ogni giorno, qui, non attraverso lo schermo del mio cellulare in un paese sicuro come l’Italia dove vivo.
Paolo Giordano nel suo reportage dall’Ucraina per il Corriere si chiedeva che cos’è reale e cosa non lo è. La realtà ucraina è fissarsi una visita medica per la settimana prossima, la mattina alzarsi e andare a prendere i fiori, pagarli con Apple Pay, e posarli sulla tomba di una cara amica, la scrittrice Victoria Amelina, ripulire dal fango la sua foto caduta dalla croce nella notte, andare al cimitero militare di Lviv, un posto che a detta di un’altra mia amica è tanto triste quanto pieno di vita, dopo pranzare con un’insalata con formaggio e lamponi, cercare i prodotti per il risotto con i fingerli per prepararlo la sera alla coppia di amici che mi ospitano, i due ragazzi che hanno disegnato la copertina più bella de Linkiesta Magazine, quella di Omaggio all’Ucraina.
Termino questo articolo con le sirene che stanno lacerando il cielo di Lviv, dobbiamo spostarci verso i muri portanti.
Linkiesta, 09 agosto, 2023.
Diario ucraino, di Yaryna Grusha
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