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Annibal Caro il figlio più illustre di Civitanova Alta Convegno nel quarto centenario della morte (1566- 1966).

Fonte internet

Fonte internet

di Raimondo Giustozzi

 

Il convegno di studi su Annibal Caro nel quarto centenario della morte (1566- 1966) si tenne dal diciannove  al ventidue ottobre millenovecento sessantasei a Civitanova Marche, Fermo, Macerata e Recanati. L’inaugurazione ebbe luogo nel teatro “A. Caro” di Civitanova Alta alle ore 10 del 19 ottobre 1966 con il saluto del sindaco di Civitanova Rodolfo Tambroni e del Presidente del Comitato prof. Virgilio Paladini, preside della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Macerata. La Relazione inaugurale “Annibal Caro e il Rinascimento” venne tenuta dal prof. Carlo Dionisotti. Le comunicazioni dei professori Ettore Mazzali, Antonio Piromalli, Aldo Vallone e di Giulio Ferroni avvennero nella sala della delegazione municipale di Civitanova Alta. Alle ore 21,30, il concerto pianistico del Maestro Gino Brandi nella sala dell’Eneide del palazzo Bonaccorsi di Macerata chiudeva la prima giornata di studi.

 

Il 20 Ottobre del 1966, alle ore 10,00, nella sala dei ritratti del palazzo comunale di Fermo, il prof. Salvatore Battaglia teneva una relazione dal titolo “Annibal Caro e la lingua”. Seguiva la comunicazione del prof. Giulio Marzot. Il ricevimento del Sindaco di Fermo, avv. Marino Agnozzi e la colazione alla “Casina  delle Rose” chiudeva la mattinata. Alla sera una breve visita alla città di  Ascoli Piceno chiudeva la giornata.

 

Il 21 Ottobre 1966, le celebrazioni si spostavano nel Palazzo Comunale di Recanati, dove si ascoltava, alle ore 9,00, la relazione del Prof. Virgilio Paladini su “Annibal Caro e l’Eneide”. Seguivano le comunicazioni dei professori Luigi Alfonsi, Fernando Figurelli, Gioacchino Paparelli, Marcello Aurigemma, Fernando Salsano e Furio Felini. La mattinata si chiudeva con la colazione offerta dal Comune di Recanati; nel primo pomeriggio, alle ore 16.00 si visitavano la casa del Leopardi ed il Centro Studi Leopardiani. La giornata si chiudeva con il recital alle ore 21,00 di Diana Torrieri al teatro “A. Caro” di Civitanova Alta.

 

Il 22 Ottobre 1966, era la volta di Macerata ad ospitare, alle ore 9,30, presso l’aula magna dell’Università la relazione del prof. Aulo Greco su “Annibal Caro e il teatro”. Si chiudeva con le comunicazioni dei professori Raffaello Ramat e Nino Borsellino. La colazione offerta dal Comune di Macerata, la visita alle basiliche di S. Claudio al Chienti e di Santa .Maria a Pié di Chienti ed il ricevimento del sindaco di Civitanova Marche nel palazzo comunale di Civitanova Porto chiudevano il Convegno.

 

Le celebrazioni erano sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica On. Giuseppe Saragat ed il Comitato d’onore era composto da personalità del tempo, degne di tutto di riguardo: On. Prof. Aldo Moro, Presidente del Consiglio dei Ministri, S. Em. Rev.ma Cardinale Fernando Cento, On. Luigi Gui, ministro per la Pubblica Istruzione, prof. Danilo De Cocci, sottosegretario di Stato per i Lavori Pubblici, l’On. Aa. Fernando Tozzi Condivi, S. E. Mons. Norberto Perini, arcivescovo di Fermo ed altre personalità che sarebbe lungo elencare.

 

Del comitato organizzatore facevano parte, oltre al già ricordato Virgilio Paladini, il Prof. Vittorio Girotti, Preside del Liceo “Annibal Caro” di Fermo, il prof. Edmondo Brunellini, consigliere comunale di Civitanova Marche, il prof. Giovanni Scattolini, preside della Scuola Media “E. Mestica” di Civitanova Marche, il Conte dott. Pier Francesco Leopardi, Vice Direttore del Centro Studi Leopardiani di Recanati, il prof. Filippo Ingletto, preside dell’Istituto Tecnico Commerciale di Civitanova Marche. Altri nomi si aggiungevano a quelli citati. I festeggiamenti del quinto centenario della nascita si aprirono con il restauro dell’epigrafe posta all’ingresso della casa natale a Civitanova Alta: “Questa è la casa di Annibal Caro dove felicemente abitarono Pallade e le Muse e le Grazie”.

 

 

Per una breve biografia su Annibal Caro

Annibal Caro nasce a Civitanova Marche il 19 giugno 1507, da Giambattista Caro, un aromatario, rivenditore di spezie, discretamente agiato, che aveva ricoperto alcune cariche pubbliche e da Celanzia Centofiorini, nobildonna della piccola aristocrazia locale. In passato, alcuni studiosi avevano collocato il luogo di nascita di Annibal Caro nel paese di Montegallo, in provincia di Ascoli Piceno, confondendo il luogo di origine del padre con quello dell’illustre letterato.

E’ lo stesso scrittore che parla del suo luogo di nascita, in diversi scritti. In una poesia, così ricorda la sua città: “Così vedrotti ancor terra felice/ tal, che forse da l’Adria a l’Appennino,/ Pico non vide mai nido sì bello” (Rime, XXVIII). In una lettera scritta nel 1543, indirizzata all’arcivescovo Sauli, A. Caro invita l’illustre prelato perché consideri nel migliore dei modi la propria città: ”La Comunità di Civitanova, mia terra, desiderando favore appresso la V. S. Reverendissima in questa sua nuova commessione, ricorre da me come a persona che pubblicamente si sa quanto le sia servitore” (Lettere, CXCIV). Si trova più volte ad assolvere il ruolo di paciere nelle dispute tra le diverse potenti famiglie esistenti all’epoca a Civitanova e presta i suoi buoni uffici per stemperare il governo del duca Cesarini, impegnato a racimolare nel territorio quante più tasse poteva.

Compie i suoi primi studi, nella propria città natale, sotto la guida dell’umanista teramano Rodolfo Iracinto, in onore del quale, appena quattordicenne, compone un epigramma in esametri. Nel 1525, ancora giovanissimo, contando sulla piccola pensione assegnatagli dal padre, lascia l’ambiente provinciale di Civitanova e si trasferisce a Firenze, uno dei più importanti centri finanziari e culturali dell’Italia, dove spera di poter completare gli studi e di fare fortuna. Nella città toscana stringe amicizia col Varchi, grazie al quale viene introdotto nella casa del banchiere Luigi Gaddi, quale precettore dei suoi nipoti, Lorenzo e Antonio Lenzi. Conosciuto ed apprezzato nell’ambiente letterario fiorentino, nel 1529 entra al servizio di mons. Giovanni Gaddi, fratello di Luigi ed in qualità di segretario lo segue a Roma dove, dato il suo ingegno fervido e brillante, riesce a mettersi in contatto con gli ambienti della curia pontificia.

Spregiudicato ed anticonformista, viene introdotto nell’ambiente bernesco dell’Accademia della Virtù dove ha modo di farsi apprezzare per il suo rifiuto del modello petrarchesco della poesia. La volontà del Caro di distanziarsi da questo modello appare evidente anche nella libera traduzione del romanzo di Longo Sofista “Gli amori pastorali di Dafne e Cloe”. La traduzione dell’opera virgiliana “Eneide” risponde anche a questa libertà espressiva che Caro sente connaturata al proprio animo. Morto mons. Gaddi, si lega in amicizia con la potente famiglia dei Farnese dalla quale ha onori ed incarichi: missioni diplomatiche, lunghi soggiorni in Francia alla corte di Carlo V e quando Pier Luigi Farnese ottiene il ducato di Parma e Piacenza lo segue nella nuova città.

Nel 1543, su committenza del nuovo padrone, scrive un testo teatrale “Gli Straccioni”, nel quale celebra la famiglia Farnese e sostiene, in termini di propaganda, la politica di Paolo III Farnese e di Pier Luigi. Nel 1547, dopo la morte di quest’ultimo, ucciso dai congiurati, A. Caro rientra a Roma ed entra definitivamente a far parte della corte di Alessandro Farnese. Può ora dedicarsi con più comodità ai suoi studi, alla sue ricerche archeologiche, alle sue collezioni numismatiche ed agli interessi artistici. Nel ’55 ottiene la Commenda dell’Ordine di Malta, da lui ripetutamente sollecitata per il prestigio sociale ed i vantaggi economici che essa comportava. A. Caro è al culmine della carriera.

Nel 1553, su incarico del cardinale Alessandro, scrive una canzone encomiastica “Venite all’ombra de’ gran gigli d’oro”, nella quale esalta la potenza della casa reale francese, scelta come alleata dal proprio mecenate per contrastare la politica anti farnesiana di Giulio III. Unica voce discorde al successo dell’Annibal Caro, è quella del critico modenese Ludovico Castelvetro che, forte della sua indipendenza di uomo vissuto fuori dalle corti, censura quella canzone scritta, secondo lui, a soli fini propagandistici e su committenza. La critica feroce di intellettuale cortigiano viene rintuzzata da Annibal Caro nell’opera “L’Apologia”. La polemica tra i due continua, coinvolge anche i letterati del tempo, come è documentato nelle “Lettere” e culmina nell’uccisone a tradimento di Alberico Longo, un fautore del Caro. Castelvetro, accusato di omicidio e di eresia, è costretto a lasciare l’Italia per sfuggire al Tribunale dell’Inquisizione.

  1. Caro avverte che tutta un’epoca sta ormai tramontando, chiede ed ottiene dal cardinale Alessandro di ritirarsi a vita privata non prima di aver contribuito a rendere sfarzosa per la decorazione degli ambienti interni, la villa dei Farnese a Caprarola. Il desiderio di quiete lo induce ad alternare il proprio soggiorno tra Roma e la villetta che si è fatto intanto costruire presso Frascati, dove può dedicarsi all’educazione dei nipoti ed alla traduzione del poema virgiliano. Muore nel novembre del 1566 ( R. Giustozzi, Caro scrittore e traduttore. Il ricordo, aspettando il convegno, in La CittaNuova, giugno 2006).

Annibal Caro e il suo tempo.

 

Nel 2007, nel quinto centenario della nascita di Annibal Caro, il quarto corso d’aggiornamento sulla storia ed i beni culturali, veniva dedicato interamente allo studio del cittadino più illustre di Civitanova Alta. Il corso prendeva avvio lunedì cinque marzo 2007, alle ore 15,30, presso la sala consiliare, palazzo della delegazione di Civitanova Marche Alta.

 

La prof.ssa Lucia Tancredi, nel corso di una ampia e dotta relazione, collocava la figura di Annibal Caro nel contesto storico in cui si trovò a vivere e ad operare. Le nuove rotte commerciali avevano provocato una grave crisi inflazionistica. Le città si riempivano di mendicanti. L’Italia del Cinquecento, stante la sua debolezza politica, era il territorio privilegiato per le mire espansionistiche del re di Francia Francesco I, contrastato nel suo disegno dall’imperatore Carlo V.

 

Civitanova Alta, dove Annibal Caro nasce, è una piccola cittadina nella quale dominano le famiglie nobili del tempo, tra le quali quella dei Centofiorini. E’ proprio Celanzia Centofiorini la mamma di Annibal Caro. Il padre è un aromatario, venuto dal paese di Montegallo. Posizione solida la sua; la famiglia di Annibal Caro è annoverata tra quelle più in vista. Ben presto però, proprio per la crisi sopraggiunta, la famiglia cade in rovina. Ad Annibal Caro già grande, formato alla scuola umanistica del teramano Rodolfo Iracinto, si impone una scelta. Cosa fare dal momento che non può più vivere di rendita? Sceglie tra tutte le professioni del tempo quella del Cortigiano, già codificata nel 1528 nello scritto di Baldassar Castiglione.

 

L’unica corte che può assicurare protezione è la curia pontificia. Si va verso una clericalizzazione del cortigiano ma è un segno dei tempi, tutte le altre corti rinascimentali sono sul viale del tramonto. Il cortigiano è una sorta di burocrate, è l’anello di congiunzione tra il signore per il quale uno presta servizio ed i suoi amici o nemici. Compito delicato quello del cortigiano, Annibal Caro sa tutto questo sia quando a Firenze stringe amicizia con Luigi Varchi che lo introduce presso la nobile famiglia dei Gaddi, di cui Annibal Caro conosce, prima Giovanni, poi Luigi. Con quest’ultimo approda a Roma alla corte  dei Farnese dai quali avrà onori ed incarichi: missioni diplomatiche, lunghi soggiorni in Francia alla corte di Carlo V e quando Pier Luigi Farnese ottiene il ducato di Parma e Piacenza lo segue nella nuova città. Nel 1547, dopo la morte di Pier Luigi Farnese, ucciso dai congiurati, Annibal Caro rientra a Roma ed entra definitivamente a far parte della corte di Alessandro Farnese. Può ora dedicarsi con più comodità ai suoi studi, alla sue ricerche archeologiche, alle sue collezioni numismatiche ed agli interessi artistici. Nel ’55 ottiene la Commenda dell’Ordine di Malta, da lui ripetutamente sollecitata per il prestigio sociale ed i vantaggi economici che essa comportava.

 

Un lato del carattere di Annibal Caro non del tutto esplorato è quello che fa dell’illustre uomo di lettere una sorta di giullare, entro i limiti consentiti dal rigido cerimoniale che conveniva ad un Cortigiano del suo rango. Stringe amicizie con persone sospette, soprattutto quelle dell’ambiente napoletano, entra a far parte dell’Accademia dei Vignaioli. E’ un professionista coscienzioso, ma anche cavallo pazzo che non si piega facilmente a certi cliché in voga nel suo tempo. Nell’attività poetica prende le distanze da Pietro Bembo di cui non sposa affatto il rigido petrarchismo, ma si avvicina al manierismo di cui apprezza le iperboli, le metafore e le similitudini, prova ne sia il suo Canzoniere ricco di queste figure retoriche. Anche nella traduzione dell’Eneide, iniziata come ebbe a dire lui stesso per “ischerzo e fantasia” ci mette molto di più di quanto ci sia nel testo latino. Ciò che gli interessa aggiungere in questa sua libera traduzione è tutta quella “ciarpa”, come ebbe a scrivere in una sua lettera indirizzata ad un amico, frutto della sua fantasia e creatività. Annibal Caro è un po’ in questo suo lavoro l’uomo post moderno che rilegge, chiosa, riscrive ciò che è stato scritto, passandolo attraverso il filtro della propria personalità.

 

Alla città natale (sonetto dedicato a Civitanova Alta)

Godi, Patria mia cara, or ch’i tuoi figli
Così tranquillamente in pace accogli,
che pur dianzi fremean d’ire e d’orgogli
e di sangue ancor caldo eran vermigli.

E perché il seme di così buon consigli
fiori e frutti d’amor sempre germogli,
invaghiscigli pur, com’or l’invogli,
a finir le lor morti e i tuoi perigli.

Spegni l’odio e l’invisa ond’ha radice
col nostro error la fronda del vicino,
che fa il popol tuo da te rubello.

Così vedrotti ancor terra felice
tal, che forse dall’Adria all’Appennino
Pico non vide mai nido sì bello.

La patria è la piccola comunità di Civitanova Alta, dove nel corso del Cinquecento, scoppiavano periodicamente lotte fratricide. Due erano le famiglie rivali, degli Ugolati e quella dei Tofini. Il Consiglio Generale cacciò dalla città dieci membri dell’una e dieci membri dell’altra famiglia, nel tentativo di far cessare uccisioni e vendette. Non bastava, l’odio si riaccendeva e i fatti di sangue si ripetevano. Annibal Caro, ormai lontano dalla città natale, si prodigava non poco per comporre litigi e vendette tra le due famiglie rivali. Riuscì ad imporre la pace tra le due famiglie, stipulata dopo ventotto anni di lotte, davanti ad un notaio. Annibal Caro, felice di essere riuscito nell’impresa, scrive questo sonetto. Se prima la patria era attraversata dal sangue, ora sta vivendo un periodo di pace. Il poeta esulta per questo scopo raggiunto. Nel caso in cui ritornerà a visitarla, “La vedrà (vedrotti) ancor terra felice / tal, che forse dall’Adria (Mare Adriatico) all’Appennino / Pico (il Picchio, uccello sacro dei Piceni) non vide mai nido (luogo) più bello”.

Fatterello e altro

 

Nel primo anno (settembre 1996) del mio trasferimento da Verano Brianza (Mb) insegnavo presso la Scuola Media Annibal Caro, sede di Civitanova Alta. Nelle ore buche, come si è soliti dire tra docenti, sono quelle libere dall’insegnamento, mi piaceva sostare sotto i portici che si aprono verso piazza della Libertà. Qui ho conosciuto Pierino Pepa, Mario Beruschi, Aristide Mori. Tutto per me era nuovo. Ascoltavo con interesse i loro racconti. Della città alta mi fermavo ad osservare le vie, gli edifici storici del centro, le porte urbiche, la cinta muraria.

 

Mario Beruschi, poeta dialettale, conoscitore profondo della cultura cittadina, mi recitava a memoria i versi del sonetto ricordato sopra. Mario era quasi un autodidatta, ma persona molto colta. Non era supponente come invece avviene spesso quando si incontrano persone che si vantano di sapere. Il termine sapere deriva dal verbo latino sapio, sapere; significa dare sapore, come il sale lo dà alle vivande. Sapere di non sapere ma indagare per conoscere la verità e la bellezza, questo dobbiamo fare e con tutta umiltà. Il saccente, il borioso è la negazione del sapere. Mario era umile.

 

Mi raccontava anche che alcuni suoi amici se la ridevano davanti ad espressioni quali, vedrotti, Pico, vermigli ed altre parole usate da Annibal Caro. Mario sapeva fare la parafrasi della poesia in modo perfetto. Gli dispiaceva però che altri prendessero tutto per scherzo o gli ridevano dietro. Pensavo tra me a quello che Leopardi scriveva della “…gente / zotica, vil, cui nomi strani, / e spesso / argomento di riso e di trastullo / son dottrina e saper…” (G. Leopardi, le Ricordanze).

 

L’ignoranza è sempre a buon mercato. Ci sono poi quelli che ne fanno quasi una professione. Ci tengono a dire che loro non leggono libri perché non ne sentono il bisogno. Ray Bradbury, nel romanzo Fahrenheit 451, disegna i contorni di una società posteriore al 2022, ci siamo quasi, dove leggere o possedere libri è considerato un reato. Un corpo speciale di vigili del fuoco, invece di spegnere gli incendi, è impegnato a bruciare ogni tipo di volume. Il protagonista del romanzo, Guy Montag, all’inizio è il più zelante dei pompieri. Rispetta alla lettera il mandato ricevuto, fino a quando incontra un’anziana donna che preferisce bruciare nella sua casa anziché abbandonare i libri. Il fatto lo sconvolge e inizia a salvare alcuni libri e a leggerli di nascosto. Da zelante che era diventa un ricercato, inseguito dal “Segucio meccanico”, una terribile macchina apparentemente infallibile che si occupa di cacciare i delinquenti.

 

Montag è denunciato dalla propria moglie Mildred perché la casa è piena di libri. Viene costretto a bruciare la propria casa dal capitano dei pompieri, Beatty, verso il quale rivolge il proprio attacco neutralizzandolo. Si rifugia in una valle solitaria dove incontra tanta gente depositaria della cultura lasciata dagli scrittori. C’è chi ha imparato a memoria Shakespeare, un altro Omero, Euripide, Dante Alighieri, ecc. Il gruppo ha escogitato questo sistema per salvare la cultura del passato: mandare a memoria romanzi, poesia, testi teatrali. Rispettano la legge che obbliga di bruciare i libri ma il loro contenuto è memorizzato e non può essere bruciato.

 

Ho un suggerimento da fare. Se si volesse scegliere un posto del tutto lontano da occhi indiscreti, dove le persone possono incontrarsi in un prossimo futuro, per tramandare a memoria il contenuto di romanzi, saggi, teatro, poesia, che costituiscono il patrimonio dell’umanità, la contrada Cervare tra Morrovalle, Macerata e Montelupone è il posto migliore, in quanto del tutto isolato. Nessuno può dire che ciò che abbiamo oggi possiamo averlo anche un domani. La pandemia ancora in atto ci permette di leggere, studiare e, volendo, memorizzare poesie e pagine di alta letteratura. Fatti ed episodi che oggi, geograficamente, sono lontani da noi, potrebbero anche riguardarci in un prossimo futuro.

 

Raimondo Giustozzi

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