di Raimondo Giustozzi
L’assassinio di Giacomo Matteotti, avvenuto il 10 giugno 1924, è un anniversario che non può passare inosservato. Il prossimo 10 giugno 2024 ricorre il centenario della sua morte. Basta ricordare il passato, suggerisce qualcuno. L’invito è giusto se ci si limita soltanto a mettere in piedi celebrazioni ufficiali che durano lo spazio di una conferenza e di un convegno. “Calati o giunco che passa la piena”. Il giunco è una piccola pianticella che non può nulla davanti alla piena di un fiume. Può solo piegarsi e soccombere. Fuor di metafora, la piena al tempo di Giacomo Matteotti era la deriva fascista. Il deputato socialista non si piega. Denuncia brogli elettorali e violenze. Guarda in faccia i propri nemici, li inchioda alle loro responsabilità. Viene assassinato da una squadraccia fascista. Le derive dei nostri giorni sono molte e invasive, tre tutte, la guerra, agitata e approvata per risolvere questioni di geopolitica. La sovranità di alcuni stati ai danni di altri.
I contadini del Polesine, che Giacomo Matteotti conosce bene, essendo nato a Fratta Polesine, sono tra i più disgraziati d’Italia. Vivono quotidianamente un’apocalisse sociale. Le loro mucche, malate di carbonchio, vengono uccise, alla presenza dell’usciere comunale, che terminato il compito si allontana. La bestia viene sepolta, coperta da poca terra, tanto che allontanatosi l’ufficiale del comune, i contadini la dissotterrano e si lanciano tra loro in una forsennata lotta per portare a casa mezza coscia, il fegato, parte della testa. Tutto va bene per far tacere la fame atavica. Giacomo Matteotti ha sentito sempre raccontare questa storia fin da piccolo, tanto che ora da grande fatica a credere che un tempo avveniva anche questo. Eppure con una famiglia benestante alle spalle avrebbe tutte le ragioni per mandare al diavolo contadini e braccianti. “Me ne frego”, dicono i suoi rivali fascisti e i ricchi proprietari terrieri, loro sodali. Non lo fa anzi è il loro difensore.
“L’onorevole Giacomo Matteotti – nipote di Matteo, commerciante in ferro e rame, figlio di Girolamo, grande proprietario terriero sospettato di prestare denaro a usura – è il traditore della sua gente. I suoi nemici lo accusano di essere il possidente passato con i proletari, l’agrario che ha rinnegato la sua classe, il socialista impellicciato, il figlio dello strozzino che si atteggia a moralista. Suo padre lo accusa di aver disertato il campo assegnatogli dal destino. Ma chi è la sua gente? Lui ha scelto. La sua gente non sono suo padre e suo nonno, sono questi contadini squallidi, questi bambini lividi per il freddo, queste madri di vent’anni che ne dimostrano quaranta. Il suo Polesine non è la terra del rimorso ma quella della riscossa, il pantano solcato da 500 corpi idrici tra fiumi, canali, collettori, fossati, in cui negli ultimi vent’anni si sono eseguite migliaia di bonifiche, che si sono istituite le leghe, curate le malattie, affermati i diritti della povera gente” (Antonio Scurati, M il figlio del secolo, pp. 241 – 242, Giunti Editore S.p.A. / Bompiani, Milano 2018).
Il romanzo – documentario di Antonio Scurati, libro monumentale, di ottocento trentanove pagine, si legge speditamente. Tutto ruota attorno al capo del Fascismo, Benito Mussolini, definito dall’autore il figlio del secolo. Questo non impedisce di incollare dei post it, colorati o meno, staccati dal blocchetto, che si ha in mano, per evidenziare le pagine dedicate ad altri protagonisti: “Fascisti, fiancheggiatori e affini, socialisti e comunisti, liberali, democratici, moderati e uomini delle istituzioni, parenti, amici e amanti”, come riportato nelle ultime undici pagine. Nella lettura del romanzo ho fatto proprio così. Man mano che leggevo, incollavo a margine dei post it che ho provveduto a togliere dopo una seconda lettura delle pagine dedicate a Giacomo Matteotti.
Ho seguito questa modalità di lettura anche per mettere a confronto la figura di Giacomo Matteotti, delineata da Antonio Scurati, attraverso documenti del tempo, articoli, lettere a Velia, atti parlamentari, con un altro romanzo storico, scritto da Riccardo Nencini, Solo, “Uccidete pure me ma l’idea che è in me non l’ucciderete mai”, prima pubblicazione 2021, edito da Mondadori. In questo secondo romanzo sono delineate con dovizia di particolari tutte le scelte sofferte da Giacomo Matteotti che si trova a combattere da solo una lotta impari, contro gli avversari fascisti, complice la pusillanimità dei suoi stessi compagni di partito, spaccati tra riformisti, massimalisti e centristi. Sulla diaspora socialista pesa come un macigno il Congresso di Livorno (1921) che vede la nascita del Partito Comunista e la confluenza in questo nuovo soggetto politico di tutta l’ala massimalista. Come se non bastasse, tra i socialisti rimasti nasce nel 1922 un nuovo raggruppamento politico, il Partito Socialista Unitario (PSU) di cui diventa segretario Giacomo Matteotti.
Le elezioni dell’ottobre 1920 sono un successo per il Partito Socialista in tutto il Polesine. Conquista tutti i comuni, ma le cose non vanno come dovrebbero andare. Giacomo Matteotti viene eletto deputato ed entra in Parlamento. Non manca chi, abituato all’odio inveterato contro i padroni, bastona selvaggiamente all’uscita del seggio elettorale di Lendinara l’onorevole Umberto Merlin, deputato del partito cattolico e compagno di banco, al liceo, di Giacomo Matteotti, che soccorre l’amico; senza il suo intervento lo avrebbero lasciato a terra. “Matteotti non è un massimalista – uno che punta tutto sulla rivoluzione qui e ora – al contrario, crede nella graduale liberazione degli oppressi attraverso un’opera lenta, immensa, di sacrificio e di sforzo, richiesta ancora all’umanità dolorante. Lui lo sa che la rivoluzione proletaria di domani non sarà una lieta corona di trionfo. E’ andato a ribadirlo anche al convegno della concentrazione dei socialisti riformisti a Reggio Emilia … Quando è a Roma, in Parlamento, l’onorevole Matteotti parla sempre con moderazione e con senno. Ma quando Giacomo è qui, in Polesine, tra i suoi contadini malvissuti, sulla sua terra anfibia, ritorna il bambino spettatore dello squartamento della carcassa sepolta” (Antonio Scurati, op. cit. pag. 243).
Il 1921 si apre con il Congresso di Livorno (16 – 17 gennaio 1921), che sancisce in modo definitivo la spaccatura del Partito Socialista con la nascita del Partito Comunista. Mentre ancora fervono le diatribe infinite al teatro Goldoni della cittadina toscana, Giacomo Matteotti, nel cuore della notte, prende il regionale per Firenze, da qui un accelerato per Bologna e ancora un regionale per Ferrara, per assumere la direzione della Camera del Lavoro. Il suo segretario, a seguito degli incidenti del 20 dicembre tra fascisti e socialisti, è stato arrestato assieme al sindaco. Protetto da una sparuta delegazione di compagni, Matteotti, in corso della Giovecca, mentre sta andando verso lo studio dell’avvocato Baraldi per una prima riunione di programma, viene riconosciuto dai fascisti che fanno roteare i manganelli al suo indirizzo. Matteotti rifiuta di usare l’automobile e si dirige a piedi verso la Camera del Lavoro, protetto da una pattuglia di poliziotti. Lungo il percorso piovono su di lui di tutto: ortaggi, cazzotti, sputi. Una bastonata supera il cordone e lo colpisce sulla tempia. Lui risponde urlando verso gli aggressori: Canaglie, canaglie.
Ferrara, la città governata da una maggioranza schiacciante di socialisti, è messa sotto sopra dalle violenze fasciste. Giacomo Matteotti non può mettere il naso in strada senza scorta. Nella mattinata del 22 gennaio insiste con il prefetto Pugliese, perché gli venga tolta la sorveglianza degli agenti di pubblica sicurezza. A proteggerlo, sostiene, bastano i suoi compagni armati di bastone. Mentre a Ferrara succede tutto questo, a Livorno si consuma la scissione. La corrente comunista che si riconosce in Amedeo Bordiga si trasferisce nel vicino teatro San Marco di Livorno per fondare il Partito Comunista Italiano. Mentre si parla, si litiga e si guarda alla rivoluzione russa come ad un esempio da imitare, il fascismo diventa padrone delle piazze. Fosse rimasta come una esperienza confinata in Russia, la rivoluzione d’Ottobre non avrebbe arrecato le disillusioni successive. “Il sogno dell’avvenire” è rimasto solo un sogno e null’altro, anzi si è trasformato in una violenta dittatura. Basta vedere prima la fine ingloriosa dell’Unione Sovietica e l’attuale tragedia della guerra scatenata dalla Federazione Russa contro l’Ucraina. Il termine tragedia è stato usato da Vladimir Putin. Se la paranoia va al potere sono danni per tutti, finanche per la massaia russa che non trova più le uova al supermercato (N.d.R.).
Da Ferrara, Giacomo Matteotti scrive alla moglie Velia: “E’ stato mio dovere assumere con fermezza il posto di difesa di Ferrara; e ciò ha giovato immensamente, contro tutte le prepotenze”. La moglie, prossima a partorirgli il loro secondo figlio, richiamandolo alla responsabilità di padre contro quello di eroe, risponde: “Mi è difficile persuadermi che arrivato a questo punto non ti è permessa nessuna viltà, anche se questo dovesse costarti la vita. Certo è che bisogna dimenticarsi di tutto il resto” (Antonio Scurati, op. cit. pag. 312).
Il 31 gennaio 1921, nella seduta del Parlamento, presidente del Consiglio dei ministri, Giovanni Giolitti, si discute sulle mozioni di politica interna. L’aula, nel primo pomeriggio è semideserta. Sono presenti solo 70 onorevoli e siedono quasi tutti sui banchi della sinistra. Il primo a parlare dei 56 iscritti è Giacomo Matteotti, che denuncia la violenza fascista: “Siamo un partito che non aspira a una semplice successione di ministeri, che vuole invece Sappiamo che, ledendo un’infinità di interessi, avremo delle reazioni più o meno violente, e non ce ne rammarichiamo. Perciò non ci lagniamo della violenza fascista … Noi non ci lamenteremo dei delitti né li racconteremo. Noi non abbiamo da mendicare al governo nessun servizio, non abbiamo nulla da chiedere, né al governo, né a nessuno … Siamo un partito di massa e non rinneghiamo nessun errore delle messe. Siamo anzi pronti a riconoscere che qualche volta la teorizzazione della violenza rivoluzionaria, che mira a sopprimere lo Stato borghese, possa avere indotto alcuni dei nostri militanti nell’errore di episodiche azioni di violenza” (Ibidem, pag. 328).
Dayala, dai banchi dei liberali, lancia un urlo: “Bella sfacciataggine!”, subito soffocato dalle proteste dei socialisti. Matteotti riprende: “Ma oggi in Italia esiste un’organizzazione pubblicamente riconosciuta e nota nei suoi aderenti, nei suoi capi, nelle sue sedi, di bande armate, le quali dichiarano apertamente che si prefiggono atti di violenza, di rappresaglia, minacce, incendi e li eseguono non appena avvenga o si finga che sia avvenuto un fatto commesso dai lavoratori a danno dei padroni o della classe borghese. E’ una perfetta organizzazione della giustizia privata. Ciò è incontrovertibile” (Ibidem, pag. 328). Giacomo Matteotti accusa la borghesia e gli industriali di connivenza con il Fascismo: “Mentre perdura nella grande maggioranza della società capitalistica del Paese l’ipocrisia di non sostenerlo apertamente, noi riconosciamo al Fascismo il coraggio di opporsi”.
Il confronto è con il presidente del Consiglio, l’onorevole Giovanni Giolitti: “Il governo presume di essere qualcosa al di fuori e al di sopra delle classi, tutore dell’ordine pubblico … Noi invece affermiamo che il governo dell’onorevole Giolitti è complice di tutti questi fatti di violenza”. “Questo non lo crede neanche lei”. “Giolitti è in piedi, fisicamente ancora minaccioso nel suo metro e novanta centimetri nonostante ottant’anni di età e cinquanta di compromessi parlamentari. No, onorevole Giolitti, in questo momento l’abilità parlamentare è perfettamente inutile … Questo vostro gioco, in cui siete abilissimo, adesso non vale nulla. La questione è molto più semplice. Noi non vi domandiamo nulla. Innanzitutto non ci fidiamo di un servitore come voi che sarebbe sempre infedele. Noi non chiediamo nulla. E’ una falsità giornalistica che va dicendo che noi chiederemmo all’onorevole Giolitti la sua protezione. Noi non vi chiediamo nulla” (Ibidem, pp. 329 – 330).
Giacomo Matteotti con l’intervento chiamava il governo ad assumersi le proprie responsabilità. Se “la borghesia che detiene ricchezza, esercito, magistratura polizia, esce dalla legalità e si arma contro il proletariato per conservare il proprio privilegio, lo Stato Democratico, che siede sul principio della legge uguale per tutti, è una burla. I seni della violenza frutteranno; sì, frutteranno largamente” (Ibidem, pag. 330). Le violenze fasciste contro le cooperative socialiste continuano imperterrite. Il Polesine è messo a ferro e fuoco. Viene ammazzato a sangue freddo il capo lega di un piccolo paese. Le squadre fasciste di Italo Balbo imperversano impunite. A Firenze, le squadracce fasciste comandate da Amerigo Dumini non sono da meno.
Il 10 marzo 1921, nell’aula del Parlamento italiano, Giacomo Matteotti denuncia per la seconda volta le violenze fasciste, rispondendo anche a quanto aveva detto prima il sottosegretario agli interni Corradini che riconduceva le violenze al quadro della lotta agraria per il rinnovo del concordato agricolo, riconoscendo che gli agrari erano stati intemperanti, ma assicurava che il governo stava facendo tutto il necessario per reprimere le spedizioni fasciste. Il presidente Enrico De Nicola cede la parola all’onorevole Matteotti, chiedendogli se era rimasto soddisfatto della spiegazione data dall’onorevole Corradini. Giacomo Matteotti, per niente soddisfatto, attacca implacabile: “Nel cuore della notte, mentre i galantuomini sono nelle loro case a dormire, arrivano i camion dei fascisti nei paeselli, nelle campagne, nelle frazioni composte di poche centinaia di abitanti; arrivano naturalmente accompagnati dai capi dell’Agraria locale, sempre guidati da essi, poiché altrimenti non sarebbe possibile riconoscere nell’oscurità in mezzo alla campagna sperduta la casetta del capolega o il piccolo miserello ufficio di collocamento. Si presentano davanti a una casetta e si sente l’ordine: circondate la casa. Sono venti sono cento persone armate di fucili e di rivoltelle. Si chiama il capolega e gli si intima di scendere. Se il capolega non scende gli si dice: se non scendi ti bruciamo la casa, tua moglie, i tuoi figlioli. Il capolega discende, se apre la porta lo pigliano, lo legano, lo portano sui camion, gli fanno passare le torture più inenarrabili, fingendo di ammazzarlo, di annegarlo, poi lo abbandonano in mezzo alla campagna, nudo, legato a un albero!. Se il capolega è un uomo di fegato e non apre e adopera le armi per la sua difesa, allora è l’assassinio immediato che si consuma nel cuore della notte, cento contro uno. Questo è il sistema del Polesine” (Ibidem, pag. 360).
Nell’aula di Montecitorio nessuno schiamazza, nessuno applaude. Tutti ascoltano impietriti e sgomenti. Case, paesini, strade del Polesine diventano di dominio pubblico. Matteotti non si ferma. Attacca, elenca fatti ed episodi: “A Salara un disgraziato operaio di notte sente bussare alla sua porta. Chi è? Domanda. Amici! Gli si risponde. Apre e attraverso la fessura venti fucili colpi di fucile lo distendono cadavere. A Pettorazza il capolega sente battere alla sua casa di notte, sempre di notte … A Pincara, piccolo paese in mezzo alla campagna, a mezzanotte arriva un camion davanti all’ufficio di collocamento, una miserabile bicocca, una stanzetta … Ad Adria vanno a mezzanotte alla casa del segretario della sezione socialista, lo prendono, lo legano, lo portano sull’Adige, lo immergono, lo lasciano legato a un palo telegrafico … A Loreo … ad Ariano … a Lendinara … E continua così la storia; ma nessuno interviene, nessuno è scoperto, nessuno sa chi siano i delinquenti. Notte per notte, giorno per giorno, così sono incendi e assassinii che si commettono. Nelle disgraziate campagne del Polesine ormai si sa che quando si batte di notte alla porta di casa, e si dice che è la forza pubblica, è la condanna a morte … Qui si tratta di un assalto, di una organizzazione di brigantaggio. Non è più la lotta politica; è barbarie; è medioevo” (Ibidem, pag. 361).
Nell’aula cala il silenzio. La replica al discorso di Matteotti non viene da un estremista di destra ma dall’onorevole Umberto Merlin, deputato cattolico, l’unico eletto nel collegio Rovigo – Ferrara. Merlin è lo stesso che Giacomo Matteotti aveva soccorso nel 1919 facendo scudo con il proprio corpo ad una bastonatura dei suoi contadini socialisti. Merlin ricorda che se i socialisti piangono i propri morti, anche i fascisti piangono i loro: un giovane accoltellato a Gavello, un altro pugnalato a Badia. Lo scatenamento della furia omicida tra gli uni e gli altri è da addebitare ai socialisti. Continua ancora il deputato cattolico: “Mentre nella mia provincia trent’anni fa occorreva dell’eroismo per proclamarsi socialista, oggi le parti si sono invertite e ci vuole del coraggio per tutti quegli umili lavoratori che aderiscono alle nostre organizzazioni e che riaffermano, in una provincia completamente rossa, la loro fede, la fede dei loro padri” Ibidem, pag. 362).
Lo stesso deputato si rivolge a socialisti invitandoli a fare opera di pace. La violenza, chiunque la eserciti, è da condannare sempre e comunque, sia quando si piangono i propri morti, sia quando a cadere sono gli avversari. Umberto Merlin, purtroppo non sa vedere bene la realtà. Le formazioni fasciste si muovono agli ordini di ex ufficiali dell’esercito. Sono tese calde, ex Arditi, quando non sono anche avanzi di galera. Usano camion per spostarsi da un luogo all’atro, mezzi messi a disposizione dagli agrari. Attaccano e bruciano leghe, camere de lavoro, sedi di partiti, di giornali, ammazzano privati cittadini. I socialisti si difendono, quando hanno una pistola in mano o un bastone. Si spostano in bicicletta ma non organizzano nessuna spedizione punitiva. Difendono quello che sono riusciti ad organizzare e con enormi sacrifici nel corso degli anni. Umberto Merlin sarà smentito due anni dopo. Nella tarda serata di giovedì 23 agosto 1923, don Giovanni Minzoni, parroco di Argenta, vicino alle leghe bianche dei cattolici, viene ammazzato nell’oscurità della sera, da due delinquenti fascisti che lo uccidono a randellate.
Ma la persecuzione contro Giacomo Matteotti non si ferma. Il 12 marzo 1921, due giorni dopo la denuncia della violenza fascista, pronunciata alla Camera dei deputati, si trova a Castelguglielmo, in provincia di Rovigo, per una riunione politica, accompagnato dal sindaco di Pincara. Centinaia di fascisti, venuti anche da Ferrara lo attendono. Matteotti è trascinato nella sede dell’Agraria. Forse è disarmato o forse gli viene sequestrato un revolver. Gli impongono di firmare una dichiarazione di abiura. Lui rifiuta, i fascisti incendiano la lega contadina e lo caricano sul camion, portandolo in campagna. Lo sottopongono a maltrattamenti, insulti, minacce di morte; a notte lo abbandonano nei pressi di Lendinara. Il sequestro dura parecchie ore, corre voce che le sevizie si siano spinte fino alla sodomia. Giacomo Matteotti è bandito dalla sua terra. D’ora in poi è costretto a vivere in incognito. Nemmeno il portalettere deve conoscere il suo domicilio provvisorio. Trascorre un mese a Venezia per stare più vicino alla famiglia. Riconosciuto deve fuggire anche da lì. Scrive alla moglie, senza mittente: “Ci vorranno degli anni per ricominciare e frattanto torneremo indietro come trent’anni fa. Non mi dispiace per me che posso sempre rifarmi una vita in cento modi diversi; quanto per tutto il nostro movimento creato con tanta fatica e per quella povera gente, che se pure ha ecceduto, si era finalmente riscattata da condizioni di servaggio” (Ibidem, pag. 364).
Le devastazioni fasciste continuano imperterrite nella campagna militare della primavera dello stesso anno, orchestrate dal ras di Ferrara, Italo Balbo. La Camera del lavoro di Rovigo, dove Giacomo Matteotti si è formato, è annientata più volte nei suoi beni materiali, cessa di vivere e si scioglie. Il crollo socialista è verticale. “La scintilla”, giornale socialista di Ferrara scrive che le violenze fasciste non riusciranno mai a distruggere tutto quello che il movimento operaio ha costruito negli ultimi trent’anni. Niente di più lontano dal vero. Le masse contadine, davanti alle violenze fasciste, arretrano, pochi si ostinano nella lotta ma sono in pochi. Giacomo Matteotti continua a battersi, predicando anche una remissività evangelica: “Restate nelle vostre case, non rispondete alle provocazioni. Anche il silenzio, anche la viltà sono talvolta eroici”. Diceva questo per non dare alcun alibi alle forze dell’ordine incaricate di tenere l’ordine pubblico. Succedeva però che se qualche socialista tirava fuori l’arma per legittima difesa, anche senza sparare nessun colpo, era arrestato dalla forza pubblica.
Ormai il Fascismo non può più essere considerato un fenomeno passeggero, ma è destinato a durare. I Fascisti sono anche rappresentati in Parlamento, chiamati da Giovanni Giolitti, convinto che riuscirà, come sempre, con accordi sottobanco, a incanalarli nell’alveo costituzionale. Benito Mussolini ha voluto il patto di pacificazione per tenere a bada, per il momento, i più facinorosi tra i Fascisti, ma solo per il momento, per il futuro si vedrà, opportunista e voltagabbana com’è. Il patto di pacificazione, tanto sbandierato, è rinnegato da molti fascisti: “Il patto per gli squadristi delle province, è sempre stato uno straccio di carta; le grandi spedizioni punitive sono cessate, è vero, ma non per osservanza del patto ma perché si erano ritorte contro gli assalitori. Le piccole spedizioni, quelle contro i villaggi, le case dei contadini, non sono mai cessate, le squadre le rivendicano apertamente nei loro bollettini di guerra, le bande girano armate di bastoni, con la divisa di morte, con i revolver, moschetti, bombe, benzina, e restano, come sempre impunite. Ci sono dei morti fascisti, è vero, ma sono morti assaltando le case. I morti socialisti, invece, sono cadute difendendole. Il potere è in mano ad associazioni terroristiche, a organizzazioni criminali, ad assassini professionisti” (Ibidem, pag. 438).
Nell’aula di Montecitorio, i deputati fascisti scalpitano, urlano e inveiscono contro l’intervento dell’onorevole Giacomo Matteotti, che incalza: “Per lunghi mesi io ho predicato anche ai miei compagni di subire tutte le violenze, di non reagire. Ho fatto perfino, devo confessarlo, l’apologia della viltà, perché anche la viltà può essere un eroismo. Ma dopo lunghi mesi di sacrificio, di attesa, di sopportazione, sento ormai, onorevole Bonomi, e onorevoli colleghi della camera, che non è più possibile continuare così e dobbiamo deciderci a cambiare atteggiamento … “Umanesimo e rivoluzione, civiltà e riscatto non sono compatibili. La politica, stella della redenzione per generazioni di socialisti, oggi si brutalizza. O ci si adegua, o si soccombe” (Ibidem, pag. 439). Aldo Finzi, fascista, figlio di un imprenditore polesano, replica a Matteotti, addossando tutta la responsabilità ai socialisti. La loro violenza ha generato quella fascista. Giacomo Matteotti non risponde a questa accusa e scrive alla moglie Velia: “Ieri battaglia grossa. Immaginati che si erano messi in testa di far tacere il Gian, con tutto quello che deve già altrimenti mandar giù, della povera gente martoriata del Polesine. Ma hanno da sentirmi fino all’ultimo, implacabilmente. Sembravano morsi dalle vipere. Ma quella gente non sente né il rimorso né alcun sentimento gentile … Dieci giorni dopo, la replica di Velia, costretta ora a crescere il secondogenito Matteo da sola, nascosta, lontana da un padre braccato … Quando considero questi anni che sono pure i migliori, passati senza un po’ di luce, rimango proprio a considerare che la vita della donna è assai meschina”(Ibidem, pag. 440.
Giacomo Matteotti e Velia Titta, marito e moglie dall’8 gennaio 1916, diversi per formazione culturale si amano nelle mille difficoltà imposte dalle circostanze del momento. Giacomo scrive lunghe lettere fin dagli anni in cui lui era confinato in Sicilia perché contrario alla guerra e agitatore socialista. Arrivata la pace, eletto deputato nel Parlamento italiano, si getta nella lotta politica, a servizio dei poveri. Braccato dai fascisti, è costretto a nascondersi. Quando lei è a Fratta Polesine, lui è a Roma, lei a Varazze, lui a Milano. Il sette gennaio 1922, alla vigilia dell’anniversario del loro matrimonio, il sesto, Giacomo Matteotti scrive a Velia da Verona: “Sono passati alcuni anni e li abbiamo trovati seminati più di dolore che di gioia. Quando abbiamo creduto di ritrovare la tranquillità di là da un giro di tempo, abbiamo trovato talvolta solo un nuovo sconvolgimento … Ma nonostante tutto, la speranza e l’amore non diminuiscono” (Ibidem, pag. 462).
Lo sconforto di Giacomo Matteotti verso la politica e verso i propri compagni di partito si acuisce nella primavera del 1922, quando scrive alla moglie: “Credo che tra non molto mi dimetterò da deputato perché è tutta opera e lavoro inutile. Si è contro gli altri partiti; e il proprio partito non fa nulla di ciò che si dovrebbe fare. Allora a che scopo?”. La situazione politica precipita. Mentre la reazione fascista sta facendo le prove generali per la conquista del potere, tra i socialisti vanno in onde le solite schermaglie. I massimalisti accusano i riformisti di connivenze con la borghesia. Turati che il 29 luglio del 1923 era salito sul Quirinale per incontrare il re, veniva visto come il traditore. I comunisti avevano addirittura sbeffeggiato “Il cadavere di Turati”. Il giorno successivo, Giacomo Matteotti assisteva ammirato allo sciopero generale. Scioperavano i ferrovieri, sotto la minaccia delle armi, rispondevano all’appello gli operai. Agli occhi del deputato socialista era la manifestazione di un atto di fede senza domani. A fine agosto, Giacomo Matteotti raggiunge la moglie a Varazze, ma anche da qui, riconosciuto dai fascisti locali, scortato dalla polizia, è costretto a partire per sfuggire alle violenze delle squadre fasciste. Ritornato a Roma, il 3 ottobre, mentre i massimalisti chiedono la rivoluzione senza avere la forza di fare alcunché e i riformisti chiedono la collaborazione con tutti i democratici, liberali e cattolici compresi, il Socialismo conosce un’altra divisione. Su proposta di Giacinto Menotti Serrati, segretario del partito, i riformisti vengono espulsi dal partito, per una manciata di voti. Nasce il Partito Socialista Unitario con Filippo Turati, Giacomo Matteotti, Claudio Treves, Giuseppe Saragat, Sandro Pertini. Giacomo Matteotti viene eletto segretario della nuova aggregazione socialista. Velia da anni lo prega di ripiegare. Il giovane e battagliero deputato in data 10 ottobre 1922 gli scrive: “Io voglio difendere i bambini, te e anche me stesso. I sacrifici inutili non servono, non aiutano a nulla … Intanto, per non annegare del tutto, ho accettato anche il segretario del partito. Ma per poco, spero” (Ibidem, pag. 516).
Tutto precipita nel breve arco di poche settimane. Il 28 ottobre 1922 avviene la marcia su Roma. Giacomo Matteotti, che vedeva ancora una volta con lucidità come la farsa non escludeva la tragedia ma, al contrario, si mescolasse con essa, proprio quando l’affannosa ricerca di una casa romana sembrava finalmente conclusa, nelle sue lettere a Velia, eccolo dubitare del suo proposito di costruirsi un rifugio domestico nell’occhio del ciclone, dubitare di se stesso: Pare che la tragedia –farsa sia finita … Stasera solo ripartono i treni e se potessi verrei io per vederti prima, per consigliarci poi. Di fronte ai sommovimenti, che io avevo preveduto da tanto tempo, mi riconfermavo nell’idea di non avervi qui nel pericolo. Avevo pensato perfino di portarvi all’estero” (Ibidem, pag. 613). L’unica che non dubita mai è Velia. La malinconia è la sua roccia. Scrive al marito: “Povera vita anche la tua, e più che altro senza nessuna cara consuetudine, nessun conforto materiale, mai. Sei arrivato così all’età che hai, e neanche io ho potuto darti questo finora. Ma adesso finirà, saremo uniti per sempre …” (Ibidem, pag. 614). Giacomo Matteotti ha comunque ancora tanta grinta. Il 18 novembre del 1922, con Mussolini alla presidenza del Consiglio, alla Camera dei deputati, nel dibattito sulla proroga dell’esercizio provvisorio per l’anno finanziario 1923, snocciola con calma, come è il suo solito, dati, che solo lui e pochi altri capiscono. “Con la precisione scrupolosa legge la degenerazione del tessuto democratico nelle minime demistificazioni dei bilanci dei ministeri economici di Mussolini, con l’accanimento del nemico irriducibile contesta loro anche il più lieve errore di calcolo” (Ibidem, pag. 612). Scrive lettere appassionate al vecchio patriarca del Socialismo Italiano, Filippo Turati, promettendogli che lui non arretrerà di un passo, lamentandosi dei compagni che cedono alle lusinghe dei nuovi potenti.
Il 2 luglio 1923 si tiene a Siena il famoso palio. Giacomo Matteotti e Velia si nascondono tra la folla anonima che li accolgono, li nascondono e li proteggono. Hanno deciso di passare un pomeriggio spensierato, anche per non pensare sempre alle difficoltà del momento che per il giovane segretario del Partito Socialista Unitario sono molte. Molti, soprattutto tra gli uomini del sindacato, sono propensi a collaborare con i fascisti, nella speranza che il passato socialista di Mussolini e la sua tattica di normalizzazione possa portare benefici ai lavoratori. Matteotti è di tutt’altro avviso. Il punto in cui si è arrivati è l’inizio della catastrofe. Da mesi sta lavorando con il solito puntiglio ad elencare tutte le violenze fasciste. Vuole pubblicarle per la fine dell’anno in un libro con il titolo “Contro il fascismo. Un anno di dominazione fascista”. Molti compagni di partito lo invitano a desistere, perfino il suo vecchio maestro Filippo Turati lo accusa di ostilità preconcette nei confronti dei loro compagni più moderati. Giacomo Matteotti è un uomo solo, odiato dai fascisti e isolato tra i compagni socialisti. Inizia però a girare l’Europa proprio durante il primo anno di dominazione fascista. Va in Francia, in Belgio, in Germania, in Inghilterra per stringere alleanze con i compagni d’oltralpe. Ma anche questa strada gli viene sbarrata. Dopo il viaggio in Germania, Mussolini gli ha fatto revocare il passaporto. In mezzo alla folla del palio, Matteotti, riconosciuto dai fascisti locali, è costretto ad abbandonare la città assieme alla moglie.
Il quadro politico intanto si fa sempre più cupo. Le prossime elezioni saranno dominate da manganello. Nel Partito Socialista Unitario si fa largo l’idea di non partecipare alle elezioni, consci come sono che la sconfitta sarà inevitabile. Il listone fascista ha dalla sua la legge elettorale, presentata da Giacomo Acerbo e approvata in Parlamento, che riconosce un premio di maggioranza alla lista vincente. L’idea di ricompattare tutte le forze antifasciste nell’astensione di massa prende corpo dopo che il deputato Giovanni Amendola è bastonato dai fascisti. Per un attimo sembra possibile la riunione delle sinistre attorno alla proposta comunista del “Fronte unico proletario”. E’ solo una illusione. Prevalgono ripicche e polemiche fratricide. Giacomo Matteotti, sfumata questa possibilità non demorde. Bisognava riprendere la lotta, a tutto campo, non arretrare di un passo, su ogni terreno, anche su quello elettorale; tra fascisti e socialisti si era costituito un solco che nessuno avrebbe osato o potuto valicare. Aveva intanto dato alle stampe il libro Contro il fascismo. Un anno di dominazione fascista. Ma il libro, appena stampato è già vecchio. A Reggio Emilia i fascisti hanno ammazzato il candidato socialista Antonio Piccinini. Il libro dopo l’edizione di febbraio viene ristampato a marzo con una seconda edizione, aggiungendo quest’ultimo fatto di cronaca. Intanto redige elenchi delle malversazioni ai danni dello Stato: interessi privati nella colossale riconversione dell’apparato industriale, miliardi perduti di proposito dal fisco rinunciando a tassare i sovrapprofitti di guerra, privatizzazioni di interi settori pubblici strategici come quelli dei telefoni, salvataggi bancari fraudolenti, speculazioni finanziarie, frodi ai danni dell’erario. Tutto il bilancio dello Stato presentato dal governo Mussolini a Vittorio Emanuele III, e da lui controfirmato, è un falso. Le annotazioni alle singole voci sono puntuali non meno precise e sferzanti di quelle dedicate ai delitti commessi dalle squadre fasciste.
Dai compagni inglesi delle trade unions viene a conoscenza di una maxi tangente data dalla Sinclair Oil statunitense allo Stato Italiano, per assicurarsi il monopolio delle ricerca petrolifera su gran parte del sottosuolo italiano. Una tangente, si vocifera, colossale. Matteotti programma già di partire per Londra a fine aprile. Prima però ci sono le elezioni, fissate per il sei aprile 1924. Alle elezioni due italiani su tre votano per la lista nazionale del Fascio littorio. La legge Acerbo prevedeva uno smodato premio di maggioranza alla lista che avesse superato il 25 per cento. Non ce n’è stato alcun bisogno: la lista fascista ha ottenuto il 64,9 per ceto dei consensi. Ha eletto tutti i suoi 356 candidati, fino all’ultimo. A questi si aggiungono 19 eletti di una lista nazionale bis. … Il governo di Benito Mussolini potrà contare in Parlamento di una maggioranza oceanica di 374 eletti. Le opposizioni sono sommerse. I popolari, dopo l’allontanamento di don Luigi Sturzo, voluto dal Vaticano e applaudito da Mussolini, sono rappresentati da un solo deputato di grande levatura politica, Acide De Gasperi, gli altri sono poco o del tutto sconosciuti. I liberali sono confluiti nel listone fascista. Socialisti e Comunisti sono gli uni contro gli altri armati. Solo Giacomo Matteotti non demorde e dimostra tutta la propria dignità morale, solo contro tutti.
Il 30 maggio 1924, alla Camera dei deputati di Montecitorio, Giacomo Matteotti prende la parola. Il primo argomento è la lista dei nomi proposti per la convalida della giunta elettorale. Consapevole di scatenare il putiferio, esordisce dicendo: “Ora, contro la loro convalida noi presentiamo questa pura e semplice eccezione: cioè che la maggioranza governativa, la quale nominalmente ha ottenuto una votazione di quattro milioni e tanti voti, questa lista non li ha ottenuti, di fatto, liberamente … secondo noi, è essenzialmente non valida, nessun elettore italiano si è trovato libero di decidere con la sua volontà, nessun elettore si è trovato libero” (Ibidem, pag. 747). Urla scomposte inveiscono contro di lui, dandogli del rinnegato e di andarsene in Russia. Matteotti non si scompone: “Esiste una milizia armata, una milizia armata composta di cittadini di un solo partito che avrebbe dovuto astenersi e invece era in funzione …”. L’irritazione dei 370 parlamentari fascisti è un fiume in piena. Giacomo Matteotti non tace, sfida la tempesta e comincia l’elenco delle violazioni: Firme mancanti alla presentazione delle liste, formalità notarili impedite con la violenza, comizi elettorali negati agli oppositori, seggi dominati dai rappresentanti di lista fascisti …” (Ibidem, pag. 747).
Si scatena il putiferio di insulti, minacce, ingiurie all’indirizzo del deputato bollato come provocatore, bugiardo e vigliacco. Giacomo Matteotti fa riferimento ai fatti: “Volete i singoli fatti? Eccoli: a Iglesias il collega Corsi stava raccogliendo trecento firme e la sua casa è stata circondata …”. Dalla destra arrivano delle voci che dicono: “Non è vero, non è vero”. Farinacci, il ras di Cremona aggiunge: “Va a finire che faremo sul serio quello che non abbiamo fatto”. – “Farete il vostro mestiere” – gli risponde asciutto Giacomo Matteotti che continua imperterrito ad elencare i fatti, solo i fatti, ribadisce ostinato. I fatti o sono veri o sono falsi, non dovrebbero provocare rumori.. Le interruzioni continuano assieme agli insulti e alle minacce. Il presidente dell’Assemblea, Alfredo Rocco il presidente dell’Assemblea toglie e ridà la parola a Giacomo Matteotti, invitandolo ad usarla ma “con prudenza”. Matteotti termia il proprio intervento non prima di aver detto: “Voi che avete oggi in mano il potere e la forza, voi che vantate la vostra potenza, dovreste meglio di tutti di essere in grado di fare osservare la legge … se la libertà è data, ci possono essere errori, eccessi momentanei ma il popolo italiano, come ogni altro, ha dimostrato di saperli correggere da se medesimo. Noi deploriamo invece che si voglia dimostrare che solo il nostro popolo nel mondo non sa reggersi da sé e deve essere governato con la forza. Molto danno avevano fatto le dominazioni straniere. Ma il nostro popolo stava risollevandosi ed educandosi. Voi lo ricacciate indietro” (Ibidem, pag. 749). L’antifascista irriducibile si risiede, sommerso dai boati, si volta verso il suo compagno di banco e gli dice: “Il mio discorso l’ho fatto. Ora voi preparatemi l’orazione funebre”.
“Il giorno successivo, Giacomo Matteotti ritorna in Parlamento e attacca di nuovo il presidente del Consiglio rinfacciandogli di aver approvato l’amnistia ai disertori del millenovecentodiciannove. Il 5 giugno, in sede di giunta di bilancio, per il quale il governo ha dichiarato il pareggio di fronte al sovrano e al Parlamento, Giacomo Matteotti smaschera il trucco contabile: i suoi calcoli dimostrerebbero un vertiginoso disavanzo di 2 miliardi e 34 milioni di lire” (Ibidem, pag. 754). Quello che Mussolini e i fascisti temono più di ogni altra cosa è che Matteotti, ritornato da Londra, dopo le elezioni appena trascorse, sia venuto in possesso di documenti relativi alla maxi tangente pagata dalla Sinclair Oil al governo italiano e alla corona, per avere l’appalto dello sfruttamento petrolifero sul suolo italiano. Il deputato socialista avrebbe dovuto denunciare l’affare durante la seduta parlamentare dell’11 giugno. Ma non glielo permetteranno.
Giacomo Matteotti, il 10 giugno 1924, viene rapito, alle 16,30, all’altezza del lungotevere Arnaldo da Brescia, da una squadraccia fascista composta da Amerigo Dumini, Giuseppe Viola, Albino Volpi, Augusto Malacria, Amleto Poveromo. Matteotti, aggredito, riesce a strattonarsi da Malacria, il primo che gli mette le mani addosso. Malacria inciampa e cade a terra. Volpi, agile e scattante si getta su Matteotti che combatte anche con lui, ma non può fare nulla contro Poveromo che gli assesta un unico cazzotto sulla tempia. Tramortito e a terra, Matteotti, sollevato di peso da Dumini sopraggiunto e dagli altri tre delinquenti, viene scaraventato dentro una Lancia Lambda alla cui guida è Giuseppe Viola. In macchina, Matteotti ripresosi, scalcia, spacca il vetro, ma viene raggiunto da una coltellata di Albino Volpi, inferta vicino al cuore. Il corpo di Giacomo Matteotti, ormai cadavere, viene approssimativamente coperto dai cinque delinquenti con un po’ di terra nel bosco della Quartarella, antistante la via Flaminia al km 23 da Roma, tra Riano e Sacrofano.Il cadavere in avanzato stato di decomposizione sarà ritrovato solo il 16 agosto dello stesso anno.
Nell’omicidio Matteotti, oltre ai cinque delinquenti sopra ricordati, sono implicati anche altri uomini forti del partito: Cesare Rossi, della segreteria del duce, Giovanni Marinelli, capoufficio stampa, Aldo Finzi, sottosegretario e collaboratore di Mussolini, Filippo Filippelli, direttore del fascista “Corriere Italiano” ed Emilio De Bono, capo della polizia e della Milizia. Il delitto è politico e il mandante è lo stesso Mussolini, che rimuove tutti dall’incarico e fa arrestare temporaneamente i cinque coinvolti direttamente nell’omicidio. Ognuno degli imputati, rimossi o incarcerati, provvede subito a redigere un proprio memoriale per ricattare eventualmente lo stesso Mussolini. Il delitto Matteotti segna la fine della democrazia e l’inizio della dittatura fascista. Peserà come un macigno per tutto il ventennio. Sono i capitoli finali del romanzo scritto da Antonio Scurati. Sono gli ultimi titoli di coda di un avvenimento conosciuto da molti.
Raimondo Giustozzi
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