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Luciano Moretti e Dolores Prato Corrispondenza epistolare tra l’alunno e l’insegnante

IMG_20230906_170450_1Raimondo Giustozzi

Luciano Moretti (1906 – 1985) fu allievo di Dolores Prato (1892 – 1983), quando lei insegnava lettere alla Scuola Normale di San Ginesio, in provincia di Macerata. Attenta agli interessi culturali degli allievi più interessati allo studio, la giovane docente scoprì subito in Luciano Moretti uno dei giovani più sensibili. Lasciato il piccolo paese marchigiano per altri incarichi, prima a Milano, poi a Roma, dove pose la propria residenza, Dolores Prato rimase sempre vicina a Luciano Moretti. La corrispondenza epistolare continuò ininterrotta. Copre l’intero arco temporale che va dal 1931 al 1968. Quando anche Luciano Moretti si trasferì a Roma, cessò la scrittura, sostituita dalle visite. Su un foglio di quaderno, datato 21.02, 1926, Luciano chiarisce il rapporto tra i due: “Ci siamo incontrati come due che abbiano lungamente parlato senza potersi vedere in fondo, pure io le ho voluto bene come si deve gratitudine, soprattutto come a chi scopre dolcemente i segreti dell’anima e vi legge in silenzio, con amore di comprensione..” (Stefania Severi, Dolores Prato voce fuori coro, carteggi di una intellettuale del Novecento, pag. 143, il lavoro editoriale, Ancona, 2007).

“Le lettere ritmano tutta la loro vita e, in particolare, per ciò che concerne Moretti, le nozze con Olga Spinosi, la nascita dei figli Paolo e Marco, la carica di podestà in epoca fascista, la ripresa degli studi ad Urbino, l’insegnamento, le crisi coniugali, il trasferimento a Roma, la morte di Marco appena ventidue anni, le relazioni con amici comuni, e soprattutto i moti dell’anima. Dolores, conoscendo le inclinazioni del suo ex allievo verso l’arte figurativa, lo incoraggiò subito a scrivere, lo presentò ai suoi amici e si attivò anche concretamente, mettendolo in contatto con varie testate giornalistiche” (Ibidem, pag. 143). In una lettera, ricambiando gli auguri che Luciano Moretti le aveva fatto, Dolores Prato che sta vivendo una lunga stagione sentimentale con Paolo Toschi, il capostipite in Italia di tutte le ricerche sulle tradizioni popolari, scrive all’ex allievo di una mostra di Mario Barberis, che aveva visitato assieme a Giovanni Papini. Dolores Prato invita Luciano a scrivere un articolo sulla mostra che ha una forte connotazione religiosa.

Nella lettera di risposta, Luciano Moretti la ringrazia e declina l’invito, scrivendo: “Mi mancano la fede e l’entusiasmo necessari per dire di un’arte come questa, così viva, così ardente”. Annota, nel proprio saggio, Stefania Severi: “Per Moretti, scrivere d’arte era prima di tutto un grande coinvolgimento emotivo, atteggiamento che perdurò nel tempo” (Ibidem, pag. 144). Luciano Moretti nelle prime lettere, piene di ricordi, scritte alla sua ex docente, usava come formula di apertura “Cara signorina”. In quelle successive passava al Tu confidenziale, per poi ritornare, sia pure per breve tempo, al Lei. “Quattordici anni fa la mia gioia più grande era quella di ascoltare la sua anima e di aprirle la mia, senza bisogno di molte parole” (04.05.1938). In una lettera di risposta, Dolores Prato lo invitava ad usare un tono più confidenziale: “Noto che stai andando conto corrente perché sono tornata “cara signorina”, mentre si dovrebbe abolire quel lei che non ho mai usato”.

Erano ormai due adulti che dialogavano alla pari. Lei per un certo tempo scriveva come da vecchia maestra, poi il tono tra i due divenne più amicale. Luciano le scriveva: “Ho sempre visto la tua estrema sensibilità, la tua intelligenza ricca e profonda, la tua lealtà pura come un raggio di sole, la tua bontà che è superiore a quella del santo perché più umana..”. Li univano i ricordi, la grande partecipazione emotiva ai fatti della vita, la visione pessimistica che li spingeva a credere che tutto è destinato a peggiorare, l’angoscia del non saper più credere, i sintomi della depressione. Scriveva Moretti: “Ho paura di oltrepassare un filo, un limite brevissimo, ma sottilissimo, oltre il quale è la pazzia. Sono stato malato tutta l’estate: non sapevo più vivere nella realtà dei giorni, con le cose che mi circondavano.. Ora ho paura che ricominci. Sono un uomo tagliato a metà, un misero aborto che non crede più al bene della sua anima e soggiace al male che non ha voluto, ma che non ha saputo combattere e vincere. Non so più nulla, non voglio più nulla. E questo vivere è peggiore della morte, perché la morte almeno sarebbe riposo” (1.11.1937, Ibidem, pag. 145).

Dolores lo incitava a lavorare, a fare cioè quello che reputava il lavoro più adatto a lui: scrivere. “Guarda che fino a che io sarò viva non ti lascerò in pace. Tu devi lavorare e credere per fede ciò che poi crederai per esperienza: che il tempo fugge, ineluttabilmente, desolatamente.. Io l’avevo capito subito quando eri sui banchi di scuola che tu ero fondamentalmente buono, che avevi la possibilità di godere e di soffrire in modo estremo, che eri tutto intuizione sicura, delicata, a volte dolcissima, che avevi la sensibilità dei sensibili più quella degli artisti, perché sulla tua bontà s’alzava, coronandola, un’intelligenza d’eccezione, una ricchezza di pensiero da sbalordire.. E tu scrivi? Lavora, Luciano, ogni età ha un sapore che poi non si ritrova più” (Ibidem, pag. 146).

Conseguito il diploma, Luciano Moretti iniziava ad insegnare, prima a Montemonaco, poi a Civitanova Alta, dove sposa Olga Spinosi, insegnante anche lei. L’amico xilografo Aldo Patocchi disegna la partecipazione di nozze. Dolores ospita gli sposi a Roma. Si unisce a loro nel breve viaggio a Capri. Ritornato a Civitanova, Luciano si iscrive al Magistero di Urbino. Continua a scrivere ma con fatica perché oberato dagli obblighi familiari e perché soffriva di febbri reumatiche che lo costringevano a casa. In una lunga lettera indirizzata a Dolores Prato raccontava il proprio stato d’animo: “Ho distrutto le mie speranze, tutte: prima di mia volontà, per il piacere del mio cervello, poi per necessità. Ci sono molte cose nella mia vita, ora, che spaventerebbero il più forte degli uomini; me no, ma io sono incosciente, non coraggioso..” (ibidem, pag. 147). Nella stessa lettera chiedeva di essergli vicino.

A stretto giro di posta, Dolores gli rispondeva manifestandogli tutta la propria vicinanza. Lo sprona a studiare, ora che ha scelto di iscriversi al Magistero. Non può che giovargli per l’insegnamento. “Nella scuola puoi trovare quella forza rivelatrice che ti scuote, ti mette in stato di grazia, ti spinge al tormento generatore d’ogni forma d’arte.. Se tu hai scelto di studiare, certo avevi le tue buone ragioni per farlo. Ma con questo o senza di questo, tu devi lavorare. Lo devi a te e a me. Nelle due belle cose che mi hai mandato, ci sono tocchi di arte pura. Rendi mirabilmente le tue impressioni. Non ci sono ingombri di parole. Crei in chi legge la tua sensazione. E tutto questo è raro.. Ti sento amico, e tu mi senti amica. Si parla così agli amici, si dice tutto quello che ci fa male..” (Ibidem, pag. 148).

“Nel ’41 Moretti fu eletto Podestà di Civitanova Marche e Dolores si meravigliò che avesse accettato quell’incarico che lei non approvava. Ma la decisione era maturata per motivi economici in quanto egli era in attesa di un figlio e, grazie anche alla sua carica, avrebbe potuto procurarsi un po’ di cibo extra e ne mandava anche a Dolores. Olga ebbe un maschio, Paolo. Dolores, nella circostanza, scrisse una lettera, questa volta indirizzata ad Olga Spinosi: “Avrei voluto non telegrafarti ma gridarti da qui la mia gioia per la dolce notizia che mi dai, avrei voluto che tu mi sentissi direttamente.. La vostra creatura sarà una creatura eccezionale. Prenderà tutta la bellezza delle vostre due anime insieme e ve ne darà tanta di più.. Se un giorno l’agio di tante ore serene che ci lasciassero vicini mi portasse a dire il fondo di quella mia tragedia della quale in genere dico solo qualche episodio esteriore, dovrei confessarvi che tutto il mio fallimento, tutto il mio disumano dolore hanno la loro causa nel non avere avuto un figlio..” (Ibidem, pag. 149).

Questo forse è l’unico riferimento della Prato ad un desiderio di maternità. Tanta era la confidenza con Olga e con Luciano. Nel 1946 Olga dette alla luce il loro secondogenito, Marco. Per Moretti dedicarsi alla scrittura divenne problematico. Il carattere e l’estrema sensibilità lo portarono spesso a vacillare anche in relazione ai proprio impegni familiari. Continuò tuttavia ad interessarsi di arte e di scrivere articoli sull’amico Aldo Patocchi, che assieme a Domenico Cantatore e Arnoldo Ciarrocchi, tutti amici di Luciano Moretti, entrò a far parte della cerchia di altri amici e intellettuali che giravano attorno a Dolores Prato, tra tutti, Igino Giordani che dirigeva “Il Popolo”. Luciano Moretti scrisse un articolo sull’arte del Patocchi. Dolores lo portò a Igino Giordani che lo girò a don Ennio Francia, che curava la terza pagina del giornale. Dolores scriveva in una lettera indirizzata a Luciano: “.. Tu hai una capacità e una sensibilità non comuni nell’esame di un’opera. Tu scrivi come pochi scrivono sicché potresti dare una forma nuova a questo genere di arte” (pag. 151).

In un’altra lettera, sempre indirizzata a Dolores Prato, Luciano scriveva di sentirsi isolato: “Il Popolo” non mi dispiace, ma non amo i democratici cristiani. I casi sono due: o sono in malafede o sono troppo saggi e politici in sommo grado. Io sono isolato, ma a sinistra, anche se per me è troppo difficile sentirmi tra la gente e credere alla validità di certe dottrine che vogliono piallare e piallare. Riconosco ai comunisti un coraggio e un rischio che li pone sopra tutti gli altri, in questo momento di vigliaccherie e di compromessi e di deroghe, ma in mezzo a loro non posso stare per una serie di ragioni che qui sarebbe troppo lungo dire..” (Ibidem, pag. 151).

Contemporaneamente, Luciano Moretti studiava e scriveva sull’arte del Patocchi. Nel 1948 allestiva una mostra fotografica sul periodo risorgimentale. Si lamentava tuttavia di non trovare a Civitanova quello che gli serviva con una certa urgenza: avere delle fotografie originali, non quelle brutte e poche riproduzioni fotografiche che era riuscito a recuperare nel posto. Dopo aver scritto una trentina di cartelle sull’arte del Patocchi, inviava il dattiloscritto a Dolores Prato, che gli rispondeva, scrivendo: “Ho il tuo lavoro che ho letto tutto attentamente e sono proprio contenta di te anche perché tratti una materia che per me è mistero e bellezza … Nessuno avrebbe potuto analizzarlo (Patocchi) con più intelligenza e con più amore di te” (Ibidem, pag. 153). Intanto pensò di proporre gli articoli di Moretti a diversi giornali.

In altre lettere, i due si addentravano su considerazioni personali, con riferimento alla realtà umana ed esistenziale di entrambi. Scriveva Dolores: “Il giorno è un’agonia solitaria, la notte una morte paurosa. Tu che conosci i telai delle donne marchigiane puoi capire questa mia immagine che semplifica l’idea. La mia vita è stata intessuta su un ordito di dolore” (Ibidem, pag. 154). Dolores Prato aveva trascorso la propria infanzia e la giovinezza a Treia, un paese dell’alto maceratese. La mamma, rimasta vedova, con altri quattro figli da accudire, l’aveva lasciata a balia, prima, presso una famiglia a Sezze, nell’attuale provincia di Latina, poi l’aveva affidata ad alcuni parenti di Treia. La piccola Dolores crebbe in casa dello zio prete don Domenico Ciamparoni e con sua sorella Paolina Ciamparoni, nubile. Frequentò poi la scuola superiore nell’educandato salesiano della Visitazione nel Monastero di Santa Chiara, un collegio di suore di clausura, sempre a Treia. Il romanzo “Giù la piazza non c’è nessuno” è tutto ambientato sulla città di Treia e la famiglia che la ospitò.

Nella continuazione della lettera di cui sopra, Dolores Prato si sofferma sulla triste realtà della morte: “… Tu vivi un certo tempo e ti pare che nessuno muoia. Oppure quell’uno che parte ti sembra un mito per essere solo a partire. E poi un bel giorno comincia a partire qualche altro e poi un altro e poi due altri e poi tre e poi tanti, e tu ti volti sbalordito e al posto della cerchia di amici che parevano non dover morire mai, tu vedi un vuoto con qualche superstite qua e là e pensi: Per quanto ancora? Perché arriva un momento in cui si pensa che anche i nostri amici muoiano..” (Ibidem, pag. 154). Luciano Moretti le risponde che non può mai pensare alla sua morte: “Vuoi sapere che cosa sentirei se tu morissi? Non so ancora bene, ma una cosa sì, certamente: un dolore da impazzire, da restarmene tutto solo per sempre, col cuore e con l’anima tesi ad una cosa tanto grande, tanto grande..” (Ibidem, pag. 154).

In un’altra lettera comunica a Luciano Moretti la morte di Alessandro Moissi, italo tedesco, nato a Trieste nel 1880 e morto a Vienna nel 1935, uno degli attori più famosi del periodo. Dolores Prato l’aveva incontrato in uno dei suoi tanti vagabondaggi, come scrive nella missiva. Lo aveva apprezzato come attore di teatro ma soprattutto nel film “Lorenzino de’ Medici”. Ora che tutto è finito, solo il film interpretato è rimasto ad eternarne la memoria. “Era uno studioso colto come pochi dotti; la sua anima aveva distrutto il suo corpo”. Dolores invita Luciano a guardare il film per apprezzarne l’attore principale, Alessandro Moissi, appunto. In un’altra lettera, Dolores racconta la perdita di una sua carissima amica, Maria Maggi, scrittrice e autrice d due opere: “Il sale della terra” e scrive: “Questa è la vita, Luciano. Un bene preso con umiltà, sapendo che sarà sempre molto più piccolo del nostro desiderio, o una pena accettata senza atteggiamenti eroici sapendo che sarà sempre tanto più grande di quello che ci meriteremmo. A chi tocca l’una a chi l’altro, beati quelli a cui toccano tutti e due” (Ibidem, pp. 156- 157).

Dolores Prato aveva caldeggiato sempre che Luciano Moretti andasse a Roma, ritenendola cosa importante per la sua carriera. Moretti era attratto da Roma ma la depressione ed i problemi familiari gli impedirono per anni il grande passo. Era comunque conscio che a Civitanova stesse bene ma non si sentiva realizzato: “Tutto intorno è desolazione. Sapessi, Dolores, come vivo! Quel che faccio, quel che dico, come mi mostro alla gente. Mi chiedo – a volte – se non ha ragione Olga quando mi butta in faccia la mia ipocrisia. Le prime volte mi dispiaceva, poiché la lealtà credevo mi appartenesse. Poi ho lasciato correre, tanto più che non si tratta né di lealtà né di ipocrisia. Ma tutto quel che faccio, tutto quel che dico non mi riguarda. E un giorno finirò con l’essere schiacciato da tutte queste cose che non mi riguardano. Sincero non sono che con te” (Ibidem, pag. 157).

Finalmente, nel 1951, Luciano Moretti si decide di trasferirsi a Roma, anche se in cuor suo, l’anno prima, nel 1950, aveva pensato di raggiungere Aldo Patocchi in Svizzera. Dolores e l’amico Arnoldo Ciarrocchi si fecero in quattro per ospitarlo. Luciano preferì la sistemazione offertagli da Bruno Sorgentini, fondatore della Galleria “L’Attico” e che aveva Ciarrocchi tra i suoi artisti. La residenza a Roma comunque non lo entusiasmava come compare in una lettera che aveva spedito da Civitanova, mentre era in vacanza: “Le mie condizioni di spirito sono sempre le stesse; sono forse peggiorate e venire a Roma mi pesa, anche se qui niente mi può giovare” (Ibidem, pag. 159). A Roma comunque poté frequentare l’amico Arnoldo Ciarrocchi, che si era sposato nel 1944 con la pittrice Raffaella Magliola. Ciarrocchi stesso aveva disegnato la copertina per un altro romanzo di Dolores Prato, “Sangiocondo”, il cui titolo richiama San Ginesio, il paese dove Dolores Prato era vissuta, insegnando nella locale Scuola Magistrale “Alberico Gentili”.

Dopo la sistemazione di Luciano Moretti a Roma con la propria famiglia, la corrispondenza tra lui e Dolores Prato si fece sempre più rara, sostituita da visite dirette. Nel 1969 un grave lutto colpì Luciano Moretti: la morte del secondogenito Marco a soli ventidue anni, conosciuto molto bene da Dolores Prato. La circostanza dolorosissima convinse Luciano Moretti a donare la sua ricca collezione di quadri, disegni, xilografie, documenti al Comune di Civitanova che aprì nel 1973 una galleria d’arte moderna nella Città Alta, dedicata a Marco Moretti. Un altro gravissimo lutto colpì la famiglia. In un incidente stradale, nel 1975 morirono la sua moglie Olga Spinosi e Raffaella Magliola, moglie di Arnoldo Ciarrocchi. Arnoldo e Luciano furono coinvolti anche loro nell’incidente ma si salvarono. Luciano, gravemente ferito per le varie fratture riportate, rimase in ospedale per sei mesi. Morì il 21.04.1985, dopo una lunga malattia, Dolores era già morta circa due anni prima.

Il saggio “Dolores Prato Voce fuori coro, carteggi di una intellettuale del Novecento” di Stefania Severi, edito da Il lavoro editoriale, Urbania, 2007, di 185 pagine, è un ottimo strumento per ricostruire la formazione e l’evoluzione del pensiero di Dolores Prato sulla religione, sulla politica, sulla letteratura e sull’arte. Il libro tenta anche di tracciare un profilo della sua formazione intellettuale. Le lettere, una parte proveniente dall’Archivio Ferrari, altre dall’Archivio Vieusseux consentono di lavorare proprio in questa direzione. Dalla lettura emergono tratti della scrittrice come  il “brio delle osservazioni, la spontaneità del giudizio, l’originalità delle sue osservazioni”. Dolores Prato non la mandava a dire se aveva qualcosa contro un intellettuale, un politico, un religioso. Non era affatto politicamente corretta. A volte trancia giudizi sulle persone senza diritto di replica da parte di queste ultime. Ristrettezze economiche, una vita vissuta in mezzo a difficoltà di ogni genere inficiano talvolta la chiarezza del discernimento, altrimenti lucidissimo.

Dolores Prato (1892 – 1983), donna e intellettuale del proprio tempo, ebbe rapporti epistolari con molti rappresentanti della vita politica, sociale e culturale. Aveva amici letterati: Agostino Turla, Vincenzo Cento, Carlo Saggio, Benedetto Migliore, Dino Provenzal, Concetto Marchesi, Mario Montesi, Stefano e Jutta D’Arrigo. La stessa corrispondenza epistolare l’ebbe con amici politici: Domenico Capocaccia, Elsa Paccagnella, Renato Mieli, Adriano Tilgher, Mario Vinciguerra, Andrea Gaggero, Umberto Terracini, Aldo Capitini, Pietro Vinna, Amintore Fanfani. Dolores Prato ebbe una formazione cattolica ma progressista, non bigotta, tanto che la scrittrice del saggio la definisce una “cattocomunista” ante litteram. Aveva amici nei pensatori cattolici come: Don Pacifico Ciabocco, il parroco di San Ginesio, protagonista nel romanzo Campane a Sangiocondo, Ernesto Bonaiuti, Felice Battaglia, Giuseppe Urbani, Igino Giordani, Luigi Pietrobono, Elvina Pallavicini. Amici letterati, politici, pensatori cattolici sono i prime tre capitoli del libro ai quali seguono altri capitoli: La vera storia di Einaudi (la tormentata vicenda legata al romanzo Giù la piazza non c’è nessuno), Luigia Tincani, la compagna del Magistero, Paolo Toschi, il primo amore, Luciano Moretti, l’allievo prediletto e Fausto Coen, l’amico giornalista.

Stefania Severi, giornalista pubblicista, ha pubblicato, sempre su Dolores Prato, un altro bel saggio: “L’essenza della solitudine. Vita di Dolores Prato” (Roma, Edizioni Sovera, 2002).

Raimondo Giustozzi

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