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C’est une chanson… in quelle note c’è il cuore della Francia

 

Gianni Mura Fonte internet

Gianni Mura Fonte internet

di Gianni Mura

‘ LA CANE de Jeanne’ : credo sia nata così la mia passione. La tv dei ragazzi che trasmetteva canzoni a uso didattico, la scoperta di Brassens. Più tardi il maglione nero di Juliette Gréco, ma anche il maglione nero di Zizi Jeanmaire. Edith Piaf si sentiva alla radio. In tv ogni tanto passavano dei francesi (adesso no). Les Compagnons de la Chanson, Bécaud con la mano sull’ orecchio che intonava ‘ Et maintenant’ (nel peggiore dei casi, ‘ Nathalie’ ), Henri Salvador, Aznavour e ‘ La mamma che fa piangere’ , Yves Montand, forse l’ ultimo è stato Moustaki. Tanti anni fa ho parlato con un albergatore di Tortona che aveva visto Mistinguett e non perdeva un’ uscita di Joséphine Baker. Com’ era? gli ho chiesto. Aveva un bel culo e un gran cuore, ha detto. Gli ho creduto. Perché a quel tempo mi pareva che tutti i francesi avessero chi più chi meno un gran cuore. Trenet un po’ caramelloso, e Chevalier una versione parigina di Ciccio Formaggio. Edith Piaf piaceva di più ai miei genitori, però aveva una voce unica, da-da-dadà Milord e metteva i brividi. Una via di mezzo fra la ghigliottina e l’ opera lirica, l’ avrebbe definita un critico. Può cantare anche l’ elenco del telefono, disse Boris Vian (poco originale, almeno stavolta). Però era vero. Aveva un’ estensione alla Mina, ma una sensualità disperata tutta sua. Le cucivano addosso le canzoni, come sarti. I brividi venivano perché sentivo che quando parlava di alberghi a ore, di letti sfatti, di addii o di nuovi amori (Je ne regrette rien, la “r” come un rasoio) ci era passata, sapeva di cosa cantava. E poi mi colpivano i suoi amori. Allora non c’ erano i settimanali dueotremila d’ adesso, regolarmente ripresi dai quotidiani sedicenti serii, adesso dolcezze e corna ci arrivano quasi in tempo reale. Allora no. Yves Montand, Moustaki, ma anche il pugile Cerdan, e Toto Gerardin, il pistard maestro di Morelon. Sono riconoscente a Edith Piaf perché ho imparato da ragazzo che ci si può innamorare perdutamente di una donna e la bellezza conta pochissimo. Non ero innamorato di lei essendolo già di Juliette Gréco. M’ era venuta una gran fame di Francia, da leggere e da ascoltare. E’ che a un certo punto, almeno per me, tutto quello che aveva un senso era sulla Rive Gauche. Ma non era ancora il famoso Maggio, o dopo, coi miei amici che occupavano l’ università o vivevano nelle comuni e io ero sempre da un’ altra parte, Vuelta o Tour o Giro. Meglio il Tour, nei negozi di dischi spendevo moltissimo, e anche in libreria. Brel, Brassens, Beart, Mouloudji figuravano in una collana seria (‘ Poètes d’ aujourd’ hui’ , editore Pierre Seghers) mentre da noi i cantautori agli inizi erano spernacchiati e i poeti restavano nei loro libri. In Francia, dove cascavi andava bene: Ferré canta Villon e Rimbaud, Ferrat canta Aragon , Montand canta Prévert, Reggiani canta Vian. Andavano d’ accordo. E’ finito tutto. Come nella ‘ Valse à mille temps’ di Brel, proiettavo nei miei giorni come un’ accelerazione di vita. Credo che all’ origine ci fosse il rispetto delle parole, del testo, poi la musica. In Italia, qualcosa Calvino, Fortini, qualche adattamento da Pavese, Zavattini, Pasolini e Scotellaro, ma tutta la produzione di Alfonso Gatto è come un canzoniere che nessuno musica. Roberto Roversi resta il limite più alto di collaborazione, ma se passa per poeta Mogol è chiaro che scelgo la Francia. Sarà un caso, ma se passavi dai Trois Baudets, dove esordirono a pochi mesi di distanza sia Brassens sia Brel, ingaggiati da Jacques Canetti, o al Tabou, al Flore, ai Deux Magots, mal che vada trovavi Quéneau a un tavolino con Prévert e Camus, Vian, Catherine Sauvage, Patachou, Sartre e Simone de Beauvoir, Barbara, Ferré, Vian che parlava di jazz, Vadim che parlava di cinema, la Gréco che stava zitta perché era timidissima, Brassens che prendeva in giro tutti, specialmente l’ Abbé Brel, agli inizi un po’ perso fra un antimilitarismo di maniera e un cattolicesimo da oratorio. Parte da lontano, questa rassegna romana. Clement e Pottier (testo dell’ Internazionale) me li hanno fatti conoscere degli amici situazionisti (allora), e mai in più di cinque-sei si canticchiava ‘ Qu’ la Commune n’ est pas morte’ , sui Navigli. Il ritmo allegro, nella canzone di lotta, l’ avrei ritrovato più tardi in Alfredo Bandelli. Beranger so che interessava a Gramsci, e Aristide Bruant aveva impressionato Kafka (“le sue canzoni prendono alla gola”: a parte ‘ Les canuts’ , non direi). Io ero già stato preso alla gola da questa possibilità di convivenza di cinema, poesia, musica, pittura, narrativa, politica, costume. Mi pareva che del cartiglio di Marianna lampeggiasse soprattutto liberte. Dovevo scegliere da chi precisamente farmi prendere alla gola. Ho scelto Brel. Una sera, a casa di Paoli, ho sentito un nastro in cui Brel cantava ‘ Le plat pays’ in italiano e sono stato felice che non l’ abbia mai inciso sul serio. Volendo, c’ erano le traduzioni. Di Pagani. O per ‘ Ne me quitte pas’ (scritta per Suzanne Gabriello detta Zizou) quella di Paoli. Di Del Prete. Di Sarti, in dialetto bolognese. E quelle, in gran parte assai belle, di Svampa in milanese per Brassens. Il francese rende bene in dialetto, in italiano no. Brassens in Italia l’ aveva cantato Margot nel ‘ 61, l’ avrebbe ripreso De André. Senza i francesi, vorrei dire ai più giovani, non avremmo avuto tutta la scuola di Genova (Paoli, Tenco, Lauzi, Bindi, De André, Fossati) né Gaber, né Endrigo, per stile forse il più francese di tutti, dismessi i panni del cantante da night. E nemmeno David Riondino. Ho scelto Brel perché era nato a Bruxelles, non a Sète o a Neuilly, e aveva fatto più fatica a farsi accettare. Perché mi sembrava un personaggio totale, come il calcio dell’ Ajax, capace del registro buffo e del declamatorio, del tenero e del disperato, del rabbioso e del lirico. Capace di mettersi in discussione, di sparire dall’ Olympia, di fare l’ attore con Cayatte e Lelouch, di fare Don Chisciotte in un musical, di fare il regista di un film (‘ Franz’ , con Barbara) che in Italia non è mai arrivato perché a chi volete che interessi una storia d’ amore fra due di mezza età, e per giunta in Belgio. Di andarsene a vivere alle isole Marchesi, dopo aver imparato a guidare l’ aereo. E già era malato. Di ritirare nel ‘ 77 in Usa il disco d’ oro per ‘ Le moribond’ . Di tornare a Parigi solo per salutare quelli del giro, e per morire di cancro al polmone, nell’ ottobre del ‘ 78 e proprio il giorno del mio compleanno. Prévert era già morto di cancro al polmone l’ anno prima. Brassens sarebbe morto di cancro all’ intestino tre anni dopo. Leo Ferré, il più colto, il più scorticato, è venuto a vivere e a morire in Italia, sulle colline del Chianti. Brel e Brassens, per i miei gusti, erano un po’ misogini, ma erano affari loro. Quest’ anno il Tour fa tappa a Brive la Gaillarde, mi verrà in mente la canzone di Brassens. E non ho dimenticato un verso di Brel, nella ‘ Chanson des vieux amants’ : c’ è voluto molto talento per esser vecchi senza mai essere adulti. Ora sono abbastanza orfano di chansonniers, mi arrangio come posso. Ma posso dire che non avevano bisogno di fumi, luci stroboscopiche, effetti speciali per fare spettacolo. Sapevano parlare nel modo giusto d’ amore e di libertà, di com’ era la vita e di come poteva essere. Intervistata dal Messaggero, lo scorso gennaio, la Gréco diceva che l’ esistenzialismo era stato per lei una scuola di dignità, di rispetto dell’ altro. E aggiungeva che nostalgia significa pigrizia. “Possiamo essere capaci di ribellarci ancora”. Sì (ne sono sempre innamorato), resta giusto. Ma è più difficile.

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