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Dialoghi in corso. “Indifferenza sul carcere in nome del popolo italiano”

2017 giorni non violentidi Raimondo Giustozzi

“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” (Art. 27 della Costituzione Italiana).

Una giornata di sole e di riposo domenicale trascorsa in piscina. Al bordo vasca è un parlottare continuo di chi trancia sentenze, senza che il vicino di ombrellone abbia diritto di replica: “Hai sentito che hanno scarcerato quello? Tre anni ed è già fuori, è ospite in quella comunità da quel prete famoso. Proprio vero, in galera non ci sta più nessuno, tutti fuori ‘sti buontemponi, a fare quel che facevano prima. Non c’è niente da fare, questi non cambiano mai, ce l’hanno nel Dna l’irrefrenabile desiderio a reiterare i reati. In che paese viviamo, non ci sono leggi, norme, regole, ognuno fa e disfa come meglio crede, tanto non c’è pena certa, non c’è castigo, non c’è sanzione, la pena retributiva è soltanto una mera utopia” (Vincenzo Andraous, Indifferenza sul carcere, in “2017 giorni non violenti”, calendario 2017, Quale Vita Editore).

Vincenzo Andraous ha conosciuto direttamente il carcere, ne è uscito trasformato e redento.  E’ stato condannato a cinque ergastoli per sei omicidi. Ne è uscito trasformato e redento. Collabora con alcuni periodici on line di informazione e letteratura laica e su periodici cattolici. Ha conseguito circa ottanta premi letterari, pubblicato sette libri di poesia, di saggistica sul carcere e la devianza, nonché la propria autobiografia, venti le collaborazioni a tesi di laurea in psicologia e sociologia. “Uno su mille ce la fa / Ma quanto è dura la salita / In gioco c’è la vita”, cantava Gianni Morandi, testo di Franco Migliacci, musica di Roberto Fia.

Anche Giulio Salierno (Roma, 31 gennaio 1935 – Roma, 27 febbraio 2006), trent’anni di reclusione per omicidio, uscì dal carcere completamente diverso. Il proprio passato, raccontato nel libro, Autobiografia di un picchiatore fascista, venne completamente sconfessato in carcere. Letture, riflessioni personali, amicizie lo portarono ad essere un sociologo di fama internazionale. Un altro suo libro, letto con avidità negli anni universitari è stato: Il carcere in Italia, inchiesta sui carcerati, i carcerieri e l’ideologia carceraria, scritto assieme al sociologo Aldo Ricci. Il testo, riletto cinquant’anni dopo la sua prima pubblicazione (1971), assieme ad Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza, di Erving Goffman, traduzione di Franco Basaglia, è ancora valido per capire l’universo carcerario di ieri e di oggi. Un altro testo da leggere è L’istituzione negata di Franco Basaglia, pubblicato per la prima volta nel 1968. Giulio Salierno lavorò anche con Franco Basaglia (Venezia, 11 marzo 1924- Venezia, 29 agosto 1980), medico psichiatra, ispiratore della legge 180/ 1978, che abolì di fatto gli ospedali psichiatrici in Italia.

Stavo terminando gli studi universitari quando, grazie ad un amico, conobbi a San Severino Marche “La Croce Bianca”, un’istituzione che lavorava per l’inserimento degli ex carcerati nella vita civile. Ne era direttore don Igino Ciabattoni, frate cappuccino (Offida 1931- San Severino Marche 2020). Ricordo alcune visite che feci ad un laboratorio, dove dei ragazzi lavoravano il peltro e confezionavano ricordini per i compleanni, cresime, comunioni, matrimoni, festa della mamma e del papà. Ero giovane tra giovani, pieno di entusiasmo e di sogni. Fine di ogni condanna da scontare in carcere era ed è la rieducazione del detenuto, lo dice la Costituzione. Ogni volta riportavo a casa dépliant, materiale informativo sulla Croce Bianca. Lo feci leggere ad alcuni studenti universitari che incontrai casualmente. Non lo avessi mai fatto. Mi guardarono quasi commiserandomi. Imparai fin da quell’incontro occasionale l’indifferenza verso l’istituzione carceraria e il suo mondo.

“Il perbenismo interessato, la vanità fatta di vuoto, / l’ipocrisia di chi sta sempre / con la ragione e mai col torto / e un dio che è morto…” (Guccini). Senza il sessantotto sarebbe mai nata una canzone come Dio è morto?. Certamente no. Non ho mai abbandonato di interessarmi al problema del carcere, dei carcerati e di quanti vivono nell’istituzione carceraria situazioni difficili, comprese le guardie carcerarie. Negli anni d’insegnamento nella scuola Media di Verano Brianza (1980- 1996) ebbi modo di conoscere don Gino Rigoldi, cappellano al Beccaria, fondatore della Comunità Nuova, associazione che aveva allora una sua sede a Besana Brianza, dove andai con un collega per seguire da vicino le attività di recupero proposte a quei ragazzi che avevano conosciuto il carcere. Conobbi anche alcuni operatori nel corso di una conferenza tenuta presso il Circolo Acli di Giussano, città nella quale risiedevo. Di acqua sotto i ponti ne è passata, fino ad arrivare ai giorni nostri. Un articolo, firmato da Claudio Sarzotti, pubblicato il 12.07.2021 nel sito https://www.micromega.net/carcere-e-torture-non-abbandoniamoci-al-fatalismo/ e riproposto il 13.07.2021 dallo Specchio Magazine, getta semi di speranza riguardo al problema carcerario: “Molte cose si possono fare in chiave di prevenzione per evitare che il conflitto tra custodi e custoditi sfoci nella violenza e nella vendetta reciproca” (Ibidem).  E’ il sottotitolo dell’articolo Carcere e torture non abbandoniamoci al fatalismo”. Basta credere nel recupero dell’ex carcerato e spendere risorse umane e professionali. La Costituzione parla chiaro: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte” (Art. 27 della Costituzione Italiana).

Vincenzo Andraous, che il carcere l’ha conosciuto, avrebbe voluto rispondere a quell’occasionale signore incontrato in piscina. Non l’ha fatto ma scrive: “In carcere si paga dazio eccome. Fino in fondo, anche per quarant’anni checché se ne dica il contrario, una, due, tre condanne, una sopra all’altra, moltiplicate all’infinito, più in là della stessa condanna erogata dal Giudice, dal Tribunale, dal  Popolo Italiano. A volte il carcere ti seppellisce, ti annienta, ti devasta così profondamente da diventare quel dato statistico che fa di te non più soltanto un detenuto, ma un vero e proprio malato, spesso terminale, ma questo non bisogna dirlo” (Vincenzo Andraous, Ibidem).

Le persone non cambiano mai? Si chiede sempre l’autore: “Sul carcere, pregiudizi e spallucce più o meno pilotate da sempre hanno fatto fallire rinnovamento e ideale rieducativo… Sarebbe bene che la collettività guardasse con occhi e sguardi nuovi a cosa non accade mai in quelle celle, quando per la legge, per norma, per quella Costituzione così tanto sbandierata, dovrebbe accadere, non per un atto puramente pietistico, più semplicemente per un dovere che sta a diritto di ogni tutela e interesse collettivo, in quella giustizia giusta che sta innanzitutto dalla parte delle vittime ma proprio per questo non abbandona i rei. Una comunità è vera quando è aperta allo scambio relazionale e delle idee, perché a volte si ha la sensazione di non avere nulla da dire che già non ci sia. Tranne che la voglia e la volontà di crescere insieme” (ibidem).

Raimondo Giustozzi

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