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Via del Cotone Hamas ha ritardato (ma non eliminato) il grande accordo di pace tra Israele e Arabia Saudita

Senza titoloCarlo Panella by L’inkiesta

Per realizzare l’ambiziosa rotta commerciale dall’Indo Pacifico al Mediterraneo, passando per l’Arabia Saudita, Mohammed bin Salman ha bisogno di un patto strategico con Israele. Dopo il pogrom del 7 ottobre, per ravviare le trattative i Paesi arabi dovranno riesumare l’idea della creazione di uno Stato palestinese, ma l’Iran farà di tutto per impedirlo.

Roboanti sono le urla dei paesi arabi contro il «genocidio» dei palestinesi a Gaza, ma, in realtà, inconfessata e silenziosa, grande è la loro soddisfazione per il lavoro sporco che fa Israele distruggendo quella Hamas che tutti loro temono e contrastano. Classica doppiezza araba di regimi che hanno tutti lo stesso cruccio: la grande presa sulle loro opinioni pubbliche interne dei Fratelli Musulmani che hanno in Hamas la punta di diamante del movimento. Autoritari e spesso medievali, i paesi arabi sanno che la Fratellanza, grazie soprattutto ad al Jazeera che ne è l’espressione mediatica raffinata, egemonizza di fatto le opposizioni ai loro regimi e condiziona le loro opinioni pubbliche interne, delle quali, comunque, in qualche modo devono tenere conto. Ma, dalla tela intensa di colloqui che intrattengono in queste settimane con Antony Blinken e l’amministrazione americana, traspare ben di più della soddisfazione silente per l’eliminazione da parte di Israele del bubbone rappresentato da Hamas.

Il segretario di Stato e Joe Biden, dando prova di eccellenti doti politiche, mettono infatti al centro dei colloqui non solo l’immediato – le pause dell’azione militare israeliana a Gaza – ma anche e soprattutto quanto è necessario per disegnare un nuovo Medio Oriente una volta normalizzata Gaza. Al centro, ovviamente, la questione dello Stato palestinese e il recupero obbligato di una Autorità Nazionale Palestinese (Anp), data sino al 6 ottobre come marginale e ininfluente, inquadrata però in un contesto del tutto nuovo.  Un contesto economico e geopolitico più che regionale, di area continentale, asiatica. Un contesto ormai dominato saldamente dalla svolta strategica incarnata dal futuro re saudita Mohammed bin Salman.

Per detestabile che sia il suo autoritarismo, e il suo netto e categorico rifiuto di riforme democratiche, va riconosciuto al principe un merito: ha saputo ribaltare in una prospettiva nuova, di sviluppo, addirittura di integrazione regionale tra nazioni, il tradizionale parassitismo da petrolio e petrodollari di corti arabe ovunque rette da una gerontocrazia ereditaria. Questo, dopo avere compiuto una drastica operazione di presa di controllo sulla cruciale corte saudita, imprigionando e emarginando i principi non a lui fedeli, accusati di tentativi di colpo di stato.

Mbs rappresenta dunque una nuova generazione di élite arabe del Golfo che hanno preso atto che i loro paesi non potranno godere in eterno dei frutti copiosi di una economia unicamente basata sulla estrazione di idrocarburi. Il primo succedaneo a questa monocultura petrolifera, l’investimento immobiliare in nuove città modello attrattive per i ricchi del pianeta, ha già dato i suoi frutti con una marginale diversificazione del Pil del Qatar, come degli Emirati, ma ha dimostrato anche i suoi limiti.

Il progetto strategico di Mbs, denominato Vision 2030, punta invece sul passo successivo: integrare immensi investimenti immobiliari destinati in larga parte a milionari stranieri, la nuova mega città denominata Neom, con un massiccio intervento nell’ordine di migliaia di miliardi di dollari nella hi-tech, nella produzione di energia elettrica con il nucleare, nella medicina di avanguardia, nella produzione industriale cibernetica, nel turismo, nello sfruttamento dei meravigliosi siti archeologici, nell’Intelligenza Artificiale e infine, ma in realtà da subito, nelle strutture sportive in grado di attrarre tifosi e quindi immagine e consenso da tutto il pianeta.

Neom, una città avveniristica lunga centosettanta chilometri, con una superficie complessiva di ventiseimilacinquecento chilometri quadrati dal costo di cinquecento miliardi di dollari è il simbolo di questo progetto visionario. Si deve snodare dal Mar Rosso sino alla Giordania, sarà affiancata sul mare dalla nuova città industriale Oxagon e al suo termine, sulle montagne dal centro sportivo invernale di Trojena che ospiterà i giochi invernali asiatici del 2029.

In realtà il progetto mega galattico di Neom, come era facile prevedere, segna il passo e la sua costruzione non rispetta i tempi prefissati. Ma il fatto che Mbs sia riuscito a ottenere la designazione dalla Fifa dell’Arabia Saudita quale sede dei campionati mondiali di calcio del 2034 indica che le linee generali della strategia di Mbs, nonostante gli intoppi, si sviluppano concretamente.

A questo progetto, si affianca un intenso lavoro diplomatico saudita in Asia per la definizione di un nuovo asse infrastrutturale strategico alternativo e conflittuale con la Via della Seta della Road Belt Initiative. Il progetto, denominato Via del Cotone, mira a costruire mega infrastrutture ad alta tecnologia portuali, ferroviarie e stradali che colleghino, a partire dalla Corea del Sud, passando per l’Indocina, l’India, gli Emirati e l’Arabia Saudita, con sbocco al mare nel porto israeliano di Haifa e quindi terminali in Grecia e in Italia, hub del grande mercato europeo.

Il tutto con una riduzione drastica dei tempi delle rotte navali che passano per il Canale di Suez e soprattutto con una portata di merci nei due sensi enormemente superiore. Una nuova mega struttura in grado di veicolare import ed export tra Asia e Europa per volumi di migliaia di miliardi di dollari, il cui baricentro produttivo e politico è l’India. Dunque, di nuovo, un massiccio investimento di centinaia di miliardi per costruire una grande dorsale ferroviaria e autostradale che attraversi tutta la penisola Arabica e quindi l’Arabia Saudita per più di duemila chilometri e sbocchi nel Mediterraneo, in Israele.

Mohammed bin Salman è assolutamente cosciente del fatto che questi concreti progetti dal costo complessivo di migliaia di miliardi, che affascinano Matteo Renzi che esalta il «Rinascimento Arabo», necessitano non solo dell’apporto del pur consistente Fondo Sovrano Saudita capitalizzato per settecentosettantasei miliardi di dollari, ma anche di potenti raccordi con altre fonti internazionali di finanziamento e soprattutto di know how, quest’ultimo assai carente in tutti i paesi arabi. Quindi, necessitano della definizione di una alleanza strutturale con gli unici due paesi che hanno un ruolo centrale sia nei flussi del capitale finanziario mondiale che nella ricerca tecnologica ad alto livello: gli Stati Uniti e Israele, che peraltro costituisce l’unico polo di alto sviluppo regionale in Medio Oriente, quasi confinante con l’Arabia Saudita.

Questa è la potente base strutturale dell’intesa triangolare tra Washington, Gerusalemme e Riad, col previsto clamoroso riconoscimento di Israele da parte dell’Arabia Saudita che doveva essere siglata entro il 2023.

Trattativa che stava per andare in porto ma che ovviamente è stata rapidamente sospesa dai sauditi, per le ragioni demagogiche che abbiamo descritto, con l’inizio delle operazioni militari di Israele contro Hamas a Gaza dopo il terribile pogrom del 7 ottobre. Trattativa che resterà sospesa non solo fino alla fine delle operazioni militari di Israele a Gaza, ma anche sino a quando non sarà definito uno Stato palestinese. Definizione complessa, irta di difficoltà ma obbligata.

Infatti, non solo il governo di Bibi Netanyhau, ma anche Mbs e i sauditi (e Joe Biden), così come i paesi arabi firmatari degli Accordi di Abramo sino al 6 ottobre 2023 erano del tutto intenzionati a saldare nuovi e intensi rapporti tra paesi arabi e Israele disinteressandosi del tutto, se non a parole, della questione palestinese. Hanno continuato a lasciare che restasse sullo sfondo avendo a simbolo la marcescente leadership della Anp di Abu Mazen.

Ma il pogrom di Hamas con la sua terrificante efficacia, anche politica, con la sua crudeltà e quindi la conseguente e obbligata reazione israeliana li hanno costretti a un difficile lavoro di recupero dell’ipotesi, data per tramontata, della formazione di uno Stato palestinese. Formazione di difficile soluzione – soprattutto per mancanza di una forte leadership alternativa a quella fallimentare di Abu Mazen – di cui già sia Antony Blinken che Joe Biden trattano con tutti i loro interlocutori arabi.

Formazione di uno Stato palestinese che deve passare ovviamente per una trattativa con Israele che potrà avviarsi concretamente solo dopo nuove elezioni per il governo di Gerusalemme al termine delle operazioni militari a Gaza. È escluso infatti che la attuale maggioranza governativa, che ha la piena responsabilità della totale mancanza di difesa israeliana contro il pogrom del 7 ottobre, accetti persino di iniziarla.

Il governo di Bibi Netanyhau si regge sui due partiti di estrema destra para fascista e suprematista di Bezael Smotrich e Itamar ben Gvir che addirittura puntano ad annettere a Israele la Cisgiordania e a espellervi i palestinesi. Totalmente indisponibili, quindi, come peraltro larga parte dei parlamentari del Likud, anche solo ad avviare una trattativa con i palestinesi per la nascita di un loro Stato.

Sarà dunque un processo lento e complesso, che necessita della vittoria elettorale in Israele di un governo totalmente alternativo a quello di Netanyhau e della individuazione di una nuova, credibile, leadership palestinese. Ma è più che probabile che alla sua fine, quando sarà chiusa la fase aperta da Hamas col suo pogrom del 7 ottobre, si riprenderà la strada della pacificazione tra Israele e i paesi arabi. Arabia Saudita in testa. Troppe e troppo cogenti e urgenti sono infatti le motivazioni strutturali, economiche, di sviluppo addirittura di una nuova grande area economica regionale integrata arabo-israeliana, di raccordo tra l’Indo Pacifico e l’Europa, per potere essere intralciate.

L’unico, grave, pericolo, che potrà ostacolarla viene e verrà dall’Iran dei Pasdaran e degli ayatollah. La loro strategia di rafforzare una potenza regionale aggressiva e espansiva ne verrebbe infatti radicalmente inficiata. Per questo, Teheran farà di tutto per ostacolarla, ben al di là del sostegno a una organizzazione locale come Hamas. Anche a costo di far deflagrare una nuova guerra.

Linkiesta, Esteri, 09 novembre 2023

Carlo Panella

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