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“Trucioli di utopie che hanno appassionato più di una generazione”

di Raimondo GiustozziCopertina del libro

Il titolo è preso dal libro di Eraldo Affinati, Sulle strade di don Lorenzo Milani l’uomo del futuro,  finalista al premio Strega del 2016, pubblicato da Mondadori nello stesso anno. L’autore tiene alta la figura di don Milani, quasi ad eternare nel tempo una promessa non mantenuta negli anni successivi alla morte (26 giugno 1967) del priore di Barbiana. Ricordo un collega, che ho conosciuto quando insegnavo nella Scuola Media di Verano Brianza (Mb). Riteneva che la figura di don Milani rappresentasse la cronaca non la storia. Eraldo Affinati fa di don Milani l’uomo del futuro. Chi ha ragione? La risposta immediata è: Eraldo Affinati. Sarò di parte ma non mi interessa. Sono sempre stato legato al pensiero di don Milani. Da insegnante e non solo ho sempre cercato di orientare le mie scelte dentro il suo pensiero. Meglio essere l’ultimo idealista impenitente che un arrivista tra tanti. L’ho detto più volte.

 

Le utopie, rivolte a risolvere i problemi degli ultimi, hanno poi indirizzato le scelte di tanti: don Luigi Melesi (Cortenova, 4 gennaio 1933 – Lecco, 11 luglio 2018), don Andrea Gallo (Campo Ligure, 18 luglio 1928 – Genova, 22 maggio 2013), don Oreste Bensi (San Clemente, 7 settembre 1925 – Rimini, 2 novembre 2007), don Roberto Malgesini (Morbegno, 1969 – Lecco, 15 settembre 2020). Mi fermo qui perché l’elenco sarebbe molto lungo. Meglio essere con loro che con chi dopo il delitto di don Roberto Malgesini, ucciso da un nord africano, ha detto subito: rimandiamoli tutti a casa. La politica è la nobile arte di chi pensa alla polis, alla città, alla comunità locale, nazionale e internazionale, per risolvere i problemi di tutti, per quanto è possibile. Chi invece fa politica per escludere qualcuno, ieri i meridionali, l’altro ieri l’Europa, oggi gli immigrati, domani non si sa, fa altro ma non pensa al bene comune. Chi ha gli strumenti personali o appoggi di qualsiasi genere, per risolvere i propri problemi, sa come muoversi. La vecchia commendatio latina funziona ancora, eccome si funziona e in tutte le pieghe della società.

 

Don Luigi Melesi, il salesiano “prete da galera” per essere stato cappellano del carcere milanese di San Vittore dal 1978 al 2008, per tutta la vita si è schierato sempre dalla parte del colpevole. “Stretto collaboratore del cardinale Carlo Maria Martini, di cui era consigliere ascoltato, don Luigi convinse i brigatisti rossi a consegnare le armi all’arcivescovo di Milano, sventando così nuovi attentati. La sua esperienza “dietro le sbarre” è stata raccontata da Silvio Valota nel libro “Prete da galera”, in cui don Luigi ricorda i tanti incontri in carcere, da Vallanzasca a Gabriele Cagliari, suicida negli anni di Tangentopoli, ai molti volti sconosciuti, di cui svela l’umanità nascosta dietro vicende drammatiche. Una persona, per diventare buona, deve sentirsi amata, ripeteva don Luigi che, nel 1967, insieme a don Ugo De Censi, aveva creato l’Operazione Mato Grosso, movimento impegnato per il Terzo Mondo sulla linea della Populorum progressio. Non è possibile aiutare una persona a cambiare la sua vita in meglio, se non ci si mette dalla sua parte, se non si prende a carico la sua vita e la sua storia», era il programma di questo prete degli ultimi” (Fonte Internet).

 

Don Luigi Melesi, assieme a Gottardo Blasich, Bano Ferrari e Roberto Abbiati collaborava alla rivista “Espressione Giovani”, Elle di Ci Leumann Editore (Torino). Nei miei venti anni trascorsi a Giussano (Mb) ho conosciuto personalmente Bano Ferrari e Roberto Abbiati. Fondato il gruppo dei  Barabba’s clown presso il carcere minorile di Arese, avevano messo in piedi, presso l’ex cinema Celeste della cittadina brianzola, dove abitavo, la compagnia “Teatro dell’Arlecchino”. Ricordo il loro impegno presso le scuole del comprensorio nelle proposte teatrali. Un’opera mi affascinò in particolar modo: “Vendesi mare, cercasi Noè”, messa in scena presso la Scuola Media di Verano Brianza, dove ho insegnato in modo continuativo dal 1980 al 1996. Fu grazie a loro che venni in possesso di molti numeri della rivista di cui sopra. Li ho tra le memorie a me più care. Mi intestardii nel proporre agli alunni il testo teatrale “La Gabbia storie vere di minorenni in riformatorio”, scritto da don Luigi Melesi, musiche degli ‘Anawim di Milano (Espressione Giovani 1° marzo 1978, pp.5- 32). Volevo rappresentarlo. Non trovai molto entusiasmo nei ragazzi. Scelsi di rappresentare un altro testo della rivista (Espressione Giovani,  1° gennaio – febbraio 1981, pp.10- 29), adattamento teatrale di don Luigi Melesi, tratto da un racconto di Joseph Roth, musiche di Gino Campanile e C.: La leggenda del Santo bevitore ballata da dodici vagabondi, che ho replicato anche presso la Scuola Media “E. Mestica” di Civitanova Marche. In ambedue i casi fu un successo.

 

Da troppi anni si parla di inclusione. Don Milani andava molto più in là. Scrivevano I ragazzi di Barbiana: “I Care è il motto dei giovani americani del dissenso. Significa Mi importa, mi sta a cuore, insomma l’esatto contrario del motto fascista: Me ne frego” (Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa). La scritta campeggiava sulle pareti della scuola di Barbiana, località che ho potuto visitare nel 1976 quando ero militare a Firenze, in una imprecisata domenica estiva, assieme ad un altro soldato che era con me all’ospedale San Gallo. Il motto poteva benissimo rimanere consegnato nei cassetti della storia. E’ stato riportato agli onori della cronaca, proprio alcuni anni fa. Non ci fu telegiornale che non lo avesse ripreso. Era sullo sfondo, in alto a sinistra, dietro al palco dei relatori, nei locali del vecchio Lingotto di Torino, dove si svolsero i lavori del Congresso Nazionale del Partito della Sinistra.

Oggi il motto Me ne frego è entrato nel vocabolario di tutti, con varianti regionali: Non me ne po’ frega de meno, e chi se ne frega. Si pensa esclusivamente al proprio orticello, dove si semina solo egoismo individuale e di gruppo. Non sfuggono a questo intercalare quanti si dichiarano credenti, cattolici, apostolici, romani, pienamente rispettosi dell’ortodossia. Poveri e sciocchi. Forse non hanno mai letto una sola riga del Vangelo. Anche se si usa un linguaggio non consono, non si va lontano. Si rischia di ripetere i tristi errori del passato. Qualcuno pensa poi che il motto I Care non valga più perché c’è sempre chi si approfitta della disponibilità dell’altro, che viene usato come uno zerbino sul quale costruire la propria affermazione. La diffidenza verso l’altro è una mala pianta. Attorno ad essa cresce solo zizzania. I risultati si vedono ovunque.

Qualche anno fa mi capitò di ascoltare una maestra di Scuola Materna. Si lamentava che un bambino, particolarmente vivace, gli destabilizzasse la classe. Quando ne combinava qualcuna delle sue, lo mandava con i più piccoli. Risultato dei tre anni di scuola materna del bambino: l’odio per la scuola. Scrivevano i ragazzi di Barbiana: “Se ognuno di voi sapesse che ha da portare avanti tutti i ragazzi e in tutte le materie, aguzzerebbe l’ingegno per farli funzionare”. Altro che inclusione. Se quel bambino non avesse una mamma capace di incoraggiarlo, stimolarlo come lei sa fare, sarebbe già perso per la scuola fin dal primo anno delle Materne.

Ricordo gli anni del mio insegnamento nella Scuola Media di Verano Brianza. C’era chi non seguiva le lezioni di Geografia perché le trovava noiose. Un professore inventò di tutto, finanche la costruzione di un stazioncina meteorologica con anemoscopio, anemometro, igrometro a capello, barometro, per misurare la direzione, la velocità del vento, l’umidità dell’aria, la pressione atmosferica. Guido, l’amico “legnamé” (falegname, artigiano del mobile) di Lissone gli dava di tanto in tanto “qualche tuchel de lègn” (tasselli di legno). C’era chi se la rideva bonariamente, perché il prof. con materiali poveri riusciva a costruire, seguendo le indicazioni di una rivista, piccoli strumenti. Ora quell’alunno sarà diventato grande. Mi auguro solo che ricordi qualcosa di quello che aveva escogitato quell’insegnante per coinvolgerlo. Il problema grosso è che nessuno vuole avere a che fare con nessun ragazzo problematico. Un preside, che ho conosciuto negli anni di insegnamento qui a Civitanova, diceva che la scuola andrebbe meglio se gli alunni studiassero di più e i genitori rompessero di meno. La sua era un’utopia a buon mercato, frutto solo di un qualunquismo senza aggettivi.

Ritornando al libro di Eraldo Affinati, Sulle strade di don Lorenzo Milani l’uomo del futuro, un tassello narrativo, presente nel testo e non affatto secondario, è rappresentato dalle riflessioni che l’autore fa di tanto in tanto, a spiegazione della realtà a lui contemporanea, attraversando a Firenze le strade percorse da don Lorenzo Milani. Affinati si trova in via Antonio Gramsci e “I faretti sull’erba illuminano il volto di Giuseppe Mazzini. Due mangiapreti che fanno comunella? Noi siamo già nell’Inferno preconizzato da don Milani, pare che dicano. Ascoltali: Il Dio denaro ha vinto. I motori imperano nella testa dei ragazzi. La pornografia è entrata nella loro esperienza quotidiana. La deflagrazione del desiderio è compiuta. La politica è corrotta. La scuola è sfasciata. Gli scolari non sono più capaci di stare attenti. La donna viene massacrata. I poveri perdono. Il consumo trionfa. La moda ci guida. Il turista ha preso il posto del viaggiatore. Chi va su Google non legge più se non in modo estemporaneo e frammentario. La Chiesa è stata compromessa dalla pedofilia. I giovani bestemmiano, bevono e si ubriacano. I borghesi comandano. Gli operai vogliono diventare come loro. Le utopie si sono trasformate in flagelli. Le campagne si spopolano perché i contadini se ne vanno lasciando il posto agli immigrati, che raccolgono i frutti della terra per pochi euro, puliscono le stalle e danno da mangiare al bestiame. La Costituzione sembra lettera morta. Cristo è uno slogan di Papa Francesco. La scrittura somiglia alla pubblicità. La letteratura è fantasy, giallo e discorso. Il numero ha vinto sulla qualità. I canoni sembrano stravolti. Gli stili sono scomparsi. Le gerarchie irriconoscibili. I sindacati non più all’altezza. La coscienza civile è una favola a cui soltanto pochi vecchietti paiono ancora disposti a credere. Perfino il celebre motto “I care” è inutilizzabile dopo essere stato svenduto al Partito democratico” (Eraldo Affinati, Sulle strade di don Lorenzo Milani l’uomo del futuro, pag. 19, Mondadori, Milano, 2016).

L’ultimo è il capitolo più intrigante e il più divertente. “A cosa servono alla Chiesa i conventi chiusi? I conventi dovrebbero servire alla carne di Cristo e i rifugiati sono la carne di Cristo” – diceva Papa Francesco in un discorso del 19 maggio 2014, rivolto al mondo della scuola, citando don Milani come modello essenziale” (Ibidem, pag. 168). Eraldo Affinati, che è anche insegnante, dopo essere stato sfrattato dai Gesuiti della chiesa di San Saba, all’Aventino, che avevano concesso per sei anni quattro grandi locali al pianterreno dell’edificio, che dovrà essere trasformato in un ”filosofato”, va alla ricerca di una nuova sede per la “Penny Wirton”, la scuola di lingua italiana per immigrati, tenuta da lui assieme a un gruppo di volontari.

 

Chiede a don Antonio, parroco di Santa Prisca, a padre Rafael della chiesa di Santa Marcella, a don Guido, titolare della chiesa di San Gregorio Barbarigo al Laurentino, a fra Corrado economo francescano di via del Serafico, a don Fabio della chiesa di San Benedetto, a don Andrea, passionista presso la sede prestigiosa della Congregazione posta accanto a Villa Celimontana, due locali dove poter dar scuola. Nessuno, per un motivo o per l’altro, è disposto a dare quanto viene chiesto. Stabili, chiese, canoniche e conventi sono semivuoti ed hanno spazi immensi. E’ fin troppo facile citare il Vangelo: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo” (Lc 9, 51 – 62).

 

Armati di coraggio, Affinati e gli altri volontari della scuola provano da don Giorgio salesiano, al Testaccio, che li dirotta dalle suore della Divina Provvidenza ma niente da fare. Si rivolgono al vescovo di Roma centro, Matteo Zuppi che inizia a telefonare ai Marianisti di viale Manzoni, ai Verbiti della Piramide ma nessuno accoglie la richiesta. Alla fine, il gruppo si trasferisce presso la chiesa di San Vito all’Esquilino, a quella di Madonna ai Monti e alla Suburra ma niente da fare. Ricevono solo rifiuti. “Così quando arrivo a don Francesco, l’ultimo dei miei preti, dalle parti di via dei Serpenti, prima ancora di esprimermi, gli chiedo quali siano stati i suoi punti di riferimento. Lui risponde secco: Paolo VI, don Primo Mazzolari e don Milani. A quel punto, anche se l’ambiente di cui dispone mi sembra inadeguato e non potremo usufruirne, lo abbraccio riconoscente. Amo credere che il priore, nascosto dietro di noi, lasci scorrere i titoli di coda” (pag. 171). Sono proprio le ultime righe del libro.

 

L’incipit del libro somiglia molto a quello del romanzo “Il giardino dei Finzi Contini” di Giorgio Bassani. In un anno imprecisato, Eraldo Affinati e consorte, non impegnati negli esami di Stato, decidono di anticipare le vacanze estive per recarsi a Barbiana. Giunti a Barberino del Mugello, escono dall’autostrada e arrivano a destinazione. Giunti davanti alla canonica, si dirigono presso il piccolo cimitero dove don Milani riposa dal giugno del 1967. Non fanno nemmeno in tempo ad arrivare che squilla il cellulare. E’ un redattore del Tg2, edizione nazionale. Chiede al professore se può rilasciare una sua dichiarazione sul perché, agli esami di Stato di quell’anno, il numero delle lodi dato agli studenti era più alto al Sud che al Nord. Eraldo Affinati fissa la foto di don Milani sulla tomba e si chiede assieme alla moglie cosa avrebbe detto don Milani davanti a quella richiesta. “Forse una parolaccia”, suggerì mia moglie” (pag. 8).

 

La biografia del priore di Barbiana attraversa le cento settantuno pagine, rivisitando luoghi e ambienti o citando brani delle opere più conosciute di don Lorenzo Milani, da “Esperienze Pastorali”, alle “Lettere alla mamma”, “Lettere di don Lorenzo Milani, priore di Barbiana”, “Lettera a una professoressa”, “L’obbedienza non è più una virtù”. La ricchezza di alcune pagine è data da quello che dicono, a distanza di sessant’anni e più, quelli che sono stati gli allievi di don Milani, da Agostino Burberi a Aldo Bozzolini per la scuola di Barbiana, a Maresco Ballini e Mario Rosi. I secondi due furono i più attivi fra gli ex scolari di Calenzano, il paese nel quale don Lorenzo Milani approdò il 3 ottobre del 1947, a sostegno dell’anziano parroco don Daniele Pugi, buono come il pane, il quale non esitò neppure un istante ad accettare quel pretino “che nessuno vuole: un ragazzo d’una famiglia mezza ebrea”(ibidem, pag. 110). Particolare rilievo è dato all’intervista conversazione che l’autore ha con Adele Corradi, l’insegnante di lettere che diventò, assieme al prof. Agostino Ammannati, una delle più ferventi sostenitrici della Scuola di Barbiana, autrice tra l’altro di un libro su don Milani: “Non so se don Milani”, pubblicato nel 2012 e citato spesso nel testo di Affinati.

 

“C’è un punto in cui l’educatore accetta la propria impotenza, esce dal tribunale della storia e torna alla lavagna chinando il capo. Fu in seminario che Lorenzo cominciò a capire come si dovrebbe sentire chi insegna agli adolescenti difficili: un po’ sconfitto, un po’ vittorioso. Non significa forse questo essere padri?” (Eraldo Affinati, Sulle strade di don Lorenzo Milani l’uomo del futuro, pag. 100, Milano, Mondadori, 2016). La riflessione è posta all’ultima pagina di copertina del libro finalista al premio Strega 2016, assegnato a “La Scuola Cattolica” di Edoardo Albinati.

 

E’ Affinati stesso che precisa, nella prima pagina del romanzo- saggio, l’origine del racconto: “Certi libri ti crescono dentro prima che tu li riconosca. All’inizio si presentano camuffati da emozioni destinate a perdersi, poi lentamente conquistano uno spazio stabile e aderiscono alla tua vita, finché non puoi fare a meno di prenderne atto. Allora è come se riempissi un foglio già pronto scrivendo sotto dettatura. Credo sia andata così anche con queste pagine su don Lorenzo Milani: dieci capitoli, composti in seconda persona, a partire dai luoghi più rappresentativi della sua esistenza, intervallati da altrettante risonanze recuperate dai miei diari di viaggio intorno al mondo” (Ibidem, pag. 7).

 

Quelle che l’autore chiama le risonanze costituiscono le strade percorse da chi, senza conoscere il priore di Barbiana, segue i suoi stessi percorsi. Sono i maestri di villaggio, che pongono argini allo sfacelo dell’istruzione africana. Sono i teppisti berlinesi, frantumi della storia europea. In Marocco, sono gli adolescenti arabi, frenetici e istintivi. A New York sono gli italiani di Ellis Island, quando gli immigrati eravamo noi. In Cina e in India, Affinati incontra le suore di Pechino e Benares, pronte ad accogliere i più sfortunati. In Messico conosce i piccoli rapinatori messicani. A Volgograd avvicina i renitenti alla leva russi durante la guerra in Cecenia. In Giappone fa amicizia con Okamoto, superstite di Hiroshima. Nella sua città, Roma, prende contatto con i preti romani che non sanno trovare due locali per accogliere la scuola di Italiano per gli immigrati. Questi i capitoli: Gambia (2012), Berlino (2013), Marocco (2007), New York (2010), Pechino (2010), Benares (2003), Città del Messico (2010), Volgograd (2002), Hiroshima (2005), Roma (2014). Sono i capitoli intitolati, in ordine ai luoghi di cui sopra: “Accendere il fuoco”, “L’arca di Marzahn”, “L’ultimo maestro”, “Addio, addio, vita!”, “”Le biglie scheggiate”, “Suor Teresa”, “Città degli angeli”, “Il prezzo della vittoria”, “The game is over”, “I miei preti”.

 

Don Lorenzo Milani muore il 26 giugno 1967, quando Eraldo Affinati frequenta la Scuola Media. Diventato grande, anche lui maestro, decide di scrivere ancora un libro su questa figura controversa della Chiesa negli anni Cinquanta e Sessanta, dopo tutto quello che è stato scritto e detto sul priore di Barbiana, è anche perché sente dentro di sé di avere qualche affinità con don Milani. E’ ansioso di agire in fretta per non lasciarsi irretire dall’indecisione. Ecco allora rivisitare i luoghi di nascita del piccolo Lorenzo Milani Comparetti, cognome quest’ultimo del nonno paterno, che non avendo figli, impose che il proprio cognome passasse ai nipoti. La casa dove il piccolo Lorenzo viene alla luce il 27 maggio 1923 è una elegante palazzina in via Principe Eugenio 9, oggi diventata via Antonio Gramsci 25, a pochi passi da Borgo San Frediano, quartiere popolare caro a Vasco Pratolini, così descritto in uno dei suoi romanzi più belli: “C’è di là d’Arno un quartiere dove le facciate delle case, se può darsi tale nome a sì orribili catapecchie, sono specialmente in certi punti, stonacate, scabbiose, gli acquai con sgrondi rotti, un quartiere dove il minimo subbuglio può tirare sulle strade, accalcare insieme ad un tratto centinaia d’uomini e donne furenti!…”(V. Pratolini, Metello).

 

La differenza tra i due mondi quasi contigui è abissale. Da un lato la ricchezza sfacciata, dall’altra l’estrema povertà. Il papà di Lorenzo, Albano Milani, ateo, è un chimico con la passione per la letteratura. Possiede una tenuta con vasti terreni nella campagna di Montespertoli con l’annessa villa “Gigliola” e un’altra villa sul mare, a Castiglioncello, “Il Ginepro”. La mamma di Lorenzo, Alice Weiss, proviene da una famiglia di ebrei boemi trasferitisi a Firenze per ragioni commerciali. Il piccolo Lorenzo trascorre l’infanzia tra balie, tate, istitutrici. Non gli manca nulla. Anche quando il padre si trasferisce a Milano per lavoro nel 1930, va ad abitare in uno dei quartieri più eleganti della città lombarda, a pochi passi da via della Spiga, poco lontano da via Monte Napoleone. Terminate le Scuole Elementari e Medie, frequenta il prestigioso Liceo Classico “Berchet” dove prende la maturità. Dopo una breve parentesi all’Accademia di Brera, comunica ai propri genitori di voler entrare in seminario. Questi non approvano la scelta. La mamma ci soffre ma gli sarà accanto fino agli ultimi giorni. Dopo quattro anni trascorsi nel seminario a Cestello, di là d’Arno, viene ordinato sacerdote. Dopo i sette anni trascorsi a Calenzano, viene esiliato a Barbiana, quasi in un ideale penitenziario ecclesiastico. E’ il 7 dicembre 1954, in una giornata fredda, piovosa, con un vento di tramontana che penetra nelle ossa. Qui, come aveva fatto a Calenzano, va a trovare i ragazzi sparsi per le pendici del Monte Giovi e apre per loro una scuola. E’ in questo esilio che termina il libro “Esperienze Pastorali” iniziato a Calenzano ed è qui che nascono “Lettera a una professoressa” e “L’obbedienza non è più una virtù”.

 

Fatterello. E’ la rubrica che don Milani usava nella stesura del libro Esperienze Pastorali. L’ho usata anch’io in passato. In una non meglio precisata parrocchia, il parroco diceva ad un suo confratello che era titubante se accettare la nomina, come parroco di un’altra parrocchia. “Ma sì, accetta, almeno sarai ricordato come parroco e non come semplice pretino”. “Vanità delle vanità, tutto è Vanità” (Qoèlet).  Ah! Dimenticavo. Quel parroco, prima di diventare parroco, aveva una carica più alta e la nuova gli andava stretta. Così diceva. In una conversazione telefonica con un suo confratello lontano geograficamente, che gli chiedeva come si trovasse nella nuova carica di parroco, rispondeva dicendo che le cariche scaricano. Nullità e vanità vanno a braccetto, quando il vuoto è riempito dal niente.

 

Così scriveva invece don Milani alla mamma, signora Alice, che lo invitava a non legarsi troppo a Barbiana, tanto, prima o poi gli avrebbero trovato una destinazione più decente: “Non c’è motivo di parlare del domani. Non ti basta l’affanno d’ogni giorno’ E neanche c’è motivo di considerarmi tarpato se sono quassù. La grandezza d’una vita non si misura dalla grandezza del luogo in cui si è svolta, ma da tutt’altre cose. E neanche le possibilità di far del bene si misurano sul numero dei parrocchiani. Sai bene che ormai non ho più bisogno di andare a cercare nessuno, sono loro che mi cercano e non ho un minuto libero” (don Milani, Lettere alla mamma, pag. 118). C’è chi sceglie la testimonianza nuda e cruda e chi le cariche. Così va il mondo, avrebbe detto il grande Alessandro Manzoni.

 

Bello il libro di Eraldo Affinati. Si legge con piacere. Barbiana non può essere ridotta a “Trucioli di utopie che hanno appassionato più di una generazione”.

 

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