di Raimondo Giustozzi
Scrive l’autore come premessa del saggio: “Subito dopo la fine della guerra, tra il maggio e il giugno 1945, migliaia di italiani della Venezia Giulia, dell’Istria e della Dalmazia furono arrestati dall’esercito jugoslavo: molti furono uccisi e gettati nelle “foibe”, diventate una specie di grandi fosse comuni, molti furono deportati nei campi di raccolta in Slovenia e Croazia, dove morirono di stenti e malattie. Su questa tragedia per quasi sessant’anni c’è stato il silenzio, oppure la vicenda è stata utilizzata come arma politica per accusare gli avversari della responsabilità per gli eccidi, senza cercare di capire cosa sia veramente successo e perché” (Pierluigi Pallante, la tragedia delle Foibe, pag. 11, Editori Riuniti, Roma, 2006).
Fatte queste considerazioni preliminari, l’autore ritiene che “La storia non ha il compito di assolvere o condannare, ma deve esaminare i fatti, con distacco dalle passioni e dai coinvolgimenti personali, per capire le motivazioni che hanno determinato lo sviluppo di certi avvenimenti. Ancora oggi invece sulle foibe si preferisce fare propaganda politica e non storia”. A Civitanova Marche, sul lungomare sud è stato posto anni fa un monumento dedicato ai Martiri delle Foibe. L’iniziativa è lodevole se accompagnata dal desiderio di leggere e documentarsi su ciò che successe nella Venezia Giulia, Istria, Dalmazia dopo i trattati di pace della prima guerra mondiale e la conclusione, tragica per l’Italia della seconda guerra mondiale.
“Esistono a tutt’oggi tre fattori, diversi rispetto al passato, che non consentono di affrontare i problemi di allora con lo sguardo di oggi. Durante la seconda guerra mondiale, la questione di Trieste, della Venezia Giulia e dell’Istria si sviluppa nel momento particolare della costruzione dello Stato Socialista Jugoslavo. Oggi, con la dissoluzione della Jugoslavia, non esiste più un interlocutore jugoslavo, anzi, tutto quello che era jugoslavo appare non solo improponibile, ma indesiderabile. Un altro fattore è rappresentato dalla scomparsa dell’Unione Sovietica, protagonista per oltre cinquant’anni sulla scena internazionale. Attualmente la Russia ha certo un peso rilevante, ma non esistono più i due blocchi contrapposti e ideologicamente alternativi. Negli avvenimenti di allora pesava anche l’esistenza di un’organizzazione internazionale, il Cominform, che poteva decidere sulla linea politica dei singoli partiti comunisti nazionali.” (pag. 12). Oggi non esiste più un simile condizionamento.
Un elemento che ha impedito fino ad ora di fare chiarezza sul problema delle foibe e dell’esodo di trecento mila italiani della Venezia Giulia, dell’Istria e della Dalmazia è la rimozione del passato. Gli ex comunisti e gli ex fascisti talvolta considerano la propria storia come un peso e un ostacolo. Oggi ragionano e agiscono in maniera differente, quindi preferiscono dimenticare o nascondere scelte diverse, fatte in passato in altri contesti storici. Il paese stesso, che usciva sconfitto dalla guerra, pur avendo organizzato un movimento di resistenza al Nazi – Fascismo, non ha voluto per decenni prendere coscienza dei danni causati dal Fascismo nelle zone interessate. Tutta la vicenda sui confini del Nord Est va inquadrata poi nel contesto dei nazionalismi e degli equilibri internazionali subito dopo la guerra.
“Il superamento dei contrasti e delle contrapposizioni etniche può avvenire solo con il superamento dei fumi ideologici e delle strumentalizzazioni propagandistiche: “Oltrepassare le frontiere, anche amarle – in quanto definiscono una realtà, un’individualità, le danno forma, salvandola dall’indistinto – ma senza idolatrarle, senza farne degli idoli che esigono sacrifici di sangue. Saperle flessibili, provvisorie e periture, come un corpo umano, e perciò degne di essere amate; mortali, nel senso di soggette alla morte, come i viaggiatori, non occasione e causa di morte, come lo sono state e lo sono tante volte” (pag. 14).
Il saggio di Pierluigi Pallante è diviso in sei parti: Trieste all’Italia, i Comunisti e la questione nazionale, il Litorale adriatico, il superamento dei contrasti e gli accordi del 1944, dalla svolta jugoslava alla liberazione di Trieste, la tragedia delle foibe e in appendice una nutrita serie di documenti del periodo preso in esame, dal Patto di Londra (26 aprile 1915) alla lettera del Pci Alta Italia al Comitato centrale del Pc jugoslavo (29 gennaio 1945).
Trieste all’Italia (prima parte)
Nella prima parte, dopo una breve introduzione, vengono dibattuti: la questione di Trieste, il movimento operaio nella città giuliana, le colpe del regime fascista e la resistenza slovena. L’accordo di Londra (26 aprile 1915) assegnava all’Italia tutto il territorio richiesto dagli irredentisti, tranne la città di Fiume, Con la guerra vittoriosa, le truppe italiane occuparono più territorio di quello stabilito per raggiungere i confini naturali e perché le città erano abitate in prevalenza da italiani. Alla conferenza di pace di Parigi, la delegazione italiana, guidata da Orlando, presidente del Consiglio e da Sonnino, ministro degli esteri, reclamava l’applicazione integrale del Patto di Londra e presentava la guerra mondiale come la quarta guerra di indipendenza. In realtà le cose non stavano proprio così. L’Italia, al pari di Francia e Inghilterra, era animata da un non malcelato nazionalismo, forte della vittoria conseguita sul campo
Allo scoppio della guerra nella Venezia Giulia c’erano 350.000 italiani e 470.000 slavi. Trieste era la più grande città slovena. Contava 56.000 sloveni a fronte dei 35.000 abitanti sloveni di Lubiana. “La città adriatica assumeva quindi per gli sloveni il significato di capitale morale e naturale della Slovenia, simbolo della sua riscossa nazionale, meta a cui tendere”. Il confine orientale dell’Italia era insomma il terreno ideale di scontro fra opposti nazionalismi. Francesco Saverio Nitti, il nuovo presidente del Consiglio, intraprese con coraggio un diverso indirizzo politico nei rapporti internazionale, cercando di realizzare un accordo diretto con la Jugoslavia, il nuovo stato che raccoglieva tutti gli slavi del Sud. Gli equilibri internazionali erano mutati. Il governo italiano era conscio di questo. Francia e Inghilterra non appoggiavano più le rivendicazioni dell’Italia. Il presidente americano W. Wilson esigeva confini “lungo linee di nazionalità chiaramente riconoscibili” e rivendicava il diritto all’autodeterminazione dei popoli.
Alla politica perseguita da Nitti e da tutto il regime liberal democratico, l’impresa di Fiume guidata dal poeta – vate Gabriele D’Annunzio, arrivò come un fulmine a ciel sereno. Un corpo di volontari, in gran parte ex militari o militari, tra cui alcuni reparti dell’esercito regolare, occupò il 12 settembre 1919 la città di Fiume per annetterla all’Italia, impedendo la realizzazione dell’impegno internazionale preso dal governo italiano; tra l’altro, nel Patto di Londra era prevista l’annessione di Trieste, Pola e Zara ma non di Fiume, lasciata all’Austria come sbocco sul mare Adriatico. I legionari fiumani vennero sloggiati dall’esercito italiano nel famoso “Natale di sangue” (1920). Le nuove frontiere del Nord Est furono stabilite con i trattati di Rapallo (12 novembre 1920) e di Roma (27 gennaio 1924), con i quali l’Italia ottenne prima tutta la Venezia Giulia e poi anche Fiume; in pratica furono annesse zone abitate in prevalenza da popolazione slovena.
Il movimento operaio a Trieste.
Già sotto l’impero austro – ungarico, si era organizzata una forte rappresentanza della social democrazia austriaca nelle varie sezioni nazionali: italiana, slovena, croata, mantenendo un’unica organizzazione di partito. Nel 1919 tutte le sezioni socialiste della Venezia Giulia aderirono al Partito socialista italiano. Le organizzazione slovene e croate, dopo la costituzione di un proprio partito socialista, confluirono nel Partito socialista italiano il 21 settembre 1919, mettendo da parte per il momento alle questioni politiche, quelle nazionali e di appartenenza statale. L’importante era lottare assieme per la costruzione del socialismo dentro il cui alveo si sarebbe trovata la soluzione più consona alle esigenze dei popoli. Dopo il Congresso di Livorno del 1921, la maggioranza della sezione socialista confluì nel Partito Comunista d’Italia, trovando l’appoggio unanime dei socialisti sloveni e croati. La fratellanza internazionalista, per la costruzione del socialismo, fu testimoniata tra tutti gli operai italiani, croati, sloveni, polacchi, cechi, ungheresi nello sciopero generale contro i fascisti che il 28 febbraio del 1921 avevano devastato per la terza volta la Camera del lavoro di Trieste. La lotta degli operai ebbe inizio il 2 marzo 1921 nel bacino carbonifero dell’Arsa, presso la città di Albona. Occupate le miniere, i lavoratori elessero un Soviet (Consiglio operaio), instaurando il potere in un territorio che comprendeva circa 6.000 abitanti. La Rivoluzione Russa faceva scuola. Lo sciopero fu appoggiato da tutte le organizzazioni operaie e popolari dell’Istria. L’intervento dell’esercito italiano pose fine all’autogestione del territorio. Alcuni operai morirono negli scontri e il resto di quelli che si erano resi colpevoli di atti di violenza e intimidazione furono processati successivamente a Pola. La breve ma esaltante esperienza dimostrava che gli antagonismi nazionali dovevano e potevano essere messi da parte almeno per il momento.
Il regime fascista.
La situazione di tutta la Venezia Giulia precipita quando la regione diventa la culla del Fascismo. Il Fascio di Trieste viene costituito il 3 aprile 1919, pochi giorni dopo quello di Milano (23 marzo 1919), quando, in piazza San Sepolcro viene fondata l’organizzazione dei Fasci di combattimento. Le prime squadre fasciste includono i più accesi irredentisti italiani. Il 13 luglio 1920, anche per sabotare le trattative diplomatiche italo – jugoslave sulla questione di Fiume e dei confini tra i due paese, i fascisti incendiano lo Slovenski Narodni Dom, la Casa del popolo sloveno, simbolo della comunità slava a Trieste, dove avevano sede la vita associativa, le istituzioni economiche slovene e l’Hotel Balkan. L’episodio segna l’inizio della prima grande frattura tra gli italiani della Venezia Giulia, i croati e gli sloveni. Le violenze fasciste, con l’appoggio delle autorità locali, non si placano. Viene incendiata per diverse volte la tipografia Il lavoratore e il 21 febbraio 1921 viene devastata per la terza volta, l’ultima, la Camera del Lavoro, unico centro che ancora resisteva. La stessa cosa tocca a tutte le istituzioni slovene.
La politica di oppressione nazionalista e di persecuzione della popolazione slovena sul piano culturale ed economico, si acuisce con l’ascesa al potere del Fascismo che vuole realizzare la bonifica etnica della Venezia Giulia. Il 28 marzo 1923, con il decreto n. 900 si dà inizio alla italianizzazione di tutte le denominazioni slave della regione e nel dicembre dello stesso anno, tutti i nomi di battesimo slavi vengono italianizzati. Dal 1921 al 1928, soprattutto dopo la riforma Gentile, sono soppresse tutte le scuole slovene e croate e reso obbligatorio solo l’insegnamento della lingua italiana. Nel 1925, in forma ufficiale, vengono abolite la lingua slovena e croata negli uffici, nei tribunali, nelle scuole, nelle chiese e nei locali pubblici. Nel 1928 vengono cambiati retroattivamente i cognomi slavi, persino nei cimiteri. La stessa cosa sarà fatta dalle autorità jugoslave vittoriose sul nazi fascismo. Nella storia occorre sempre legare le conseguenze alle cause.
In tutto il territorio sono eliminate le cooperative e le organizzazioni economiche, finanziarie e culturali: “Il ricco patrimonio cooperativo, le banche popolari, le casse artigianali e le numerose iniziative sociali, caratteristiche dell’economia piccolo- contadina degli sloveni, venivano distrutte e saccheggiate, mentre si estendeva sulle campagne istriane e carsiche il predominio del capitale finanziario che, attraverso le grandi banche italiane, si sostituiva al piccolo capitale commerciale sloveno e croato” (pag. 25). L’azione di normalizzazione si rivolse anche contro la Chiesa cattolica, accusata di proteggere gli sloveni, con la rimozione dell’arcivescovo di Gorizia Francesco Borgia Sedej e del vescovo di Trieste Luigi Fogar, dopo il Concordato con la Santa Sede (11 febbraio 1929). Tutta la politica del Fascismo consolidò negli Sloveni l’idea dell’equivalenza fra Italia e Fascismo e a rifiutare nella maggior parte degli sloveni tutto ciò che era italiano.
La resistenza slovena.
La resistenza degli sloveni e dei croati contro la politica di snazionalizzazione ha inizio nel 1918, nel periodo prefascista, appena dopo la prima guerra mondiale. Continua dopo il 1927 a seguito della soppressione delle associazioni culturali slovene e croate con la creazione clandestina del Tigr (l’acronimo Trst, Istra, Gorica, Rijeka stava per Trieste, Istria, Gorizia, Fiume) organizzazione terroristica dei nazionalisti slavi, di tendenze filo – jugoslave, non per l’indipendenza della Slovenia. La sostanziale inattività del Partito Comunista Italiano consentì al nazionalismo di fare breccia anche all’interno dei militanti comunisti. Gli episodi di resistenza al fascismo furono numerosi. Il piano per far fallire le elezioni di Pisino (24 marzo 1929) fu pagato con la vita di Vladimir Gortan. Il 16 novembre 1930 furono fucilati nel poligono di tiro di Basovizza quattro sloveni per alcuni attentati dinamitardi. Dal 1930 al 1934 il PCI iniziò ad occuparsi del problema sloveno e nel gennaio 1936 venne firmato un patto di unità d’azione fra il Partito Comunista italiano e il movimento nazionale rivoluzionario degli sloveni e dei croati della Venezia Giulia, pur mantenendo ciascuno l’autonomia organizzativa e politica. Nel 1940 il Fascismo, prima dell’entrata in guerra dell’Italia, operò nella regione centinaia di arresti di antifascisti, per assicurarsi il controllo delle retrovie. Dopo l’invasione della Jugoslavia, davanti al tribunale speciale per la difesa dello stato, celebrato a Trieste dal 1° al 4 dicembre 1941, vennero condannati a morte nove antifascisti, tra questi Pinko Tomaẑic, responsabile della pubblicazione nella Venezia Giulia del giornale in lingua slovena Delo per conto dell’organizzazione comunista clandestina. Dal 1927 al 1943 sui 31 giustiziati, 24 erano sloveni e croati.
I comunisti e la questione nazionale (seconda parte).
La questione nazionale e la lotta di classe per la costituzione di uno stato socialista sono stati due temi ampiamente dibattuti nel corso dei diversi congressi del Partito Comunista. In quello di Lione (1926) e in quello di Colonia (1931) “I comunisti italiani affermavano il diritto di autodecisione delle minoranze nazionali (slovene, croate) fino al possibile distacco dallo Stato italiano”. Nella Venezia Giulia la lotta di classe diventava lotta di liberazione. “La popolazione slovena e croata della regione era composta quasi esclusivamente da operai e contadini… la lotta fra gli slavi e gli italiani prese la forma caratteristica della lotta nazionale perché i dominatori politici ed economici in quelle province erano quasi esclusivamente italiani”. La realizzazione di uno Stato Socialista Jugoslavo voleva dire servire gli interessi della rivoluzione socialista. In questo quadro era giustificata l’autodecisione del popolo sloveno e croato di staccarsi dall’Italia, anche se non si parlava ancora di eventuali nuovi confini geografici. La lotta di liberazione si legava alla lotta di classe e per gli italiani dell’Istria, della Venezia Giulia e della Dalmazia, con la sconfitta dell’Italia nella seconda guerra mondiale era l’inizio della tragedia che culminerà nelle foibe e nell’esodo forzato.
Il litorale adriatico (terza parte)
Con l’espressione litorale adriatico si intende tutta la fetta di territorio che da Trieste e dalla Slovenia scende verso l’Istria, attraversa tutta la Dalmazia fino ad arrivare all’Albania. Con l’aggressione della Jugoslavia ad opera della Germania, Italia, Ungheria e Bulgaria, tutto il litorale adriatico divenne teatro di guerra. Con la sconfitta della Jugoslavia, gran parte della Slovenia andò all’Italia, formando la provincia di Lubiana. La Croazia, organizzato nello stato indipendente di Croazia fu assegnata al duca di Spoleto, Aimone di Savoia, cugino del re Vittorio Emanuele III, che si vide bene di prenderne possesso, ossessionato come tutta la casa savoia del ginepraio balcanico. L’Italia mantenne il controllo militare del Montenegro, formalmente indipendente e dell’Albania, ingrandita con l’aggiunta del Kosovo e della Macedonia occidentale. Con l’occupazione italiana nasce immediatamente la resistenza slovena. “L’insurrezione, all’inizio in larga parte spontanea, venne in seguito organizzata dal partito comunista sloveno e croato e inserita nella prospettiva politica non solo dell’opposizione al fascismo e all’Italia, ma al tempo stesso della lotta contro l’oppressione di classe della borghesia, per un profondo rinnovamento democratico e socialista del paese” (pag. 42). Tutta la Venezia Giulia fu investita nella sfera d’operazioni dell’esercito partigiano jugoslavo guidato dal maresciallo Tito: ”La resistenza slovena ebbe grande importanza perché in pratica portava la lotta armata in territorio italiano, all’interno di uno degli Stati fascisti, immobilizzando ingenti forze militari” (pag. 43).
Alle operazioni partigiane, l’esercito italiano rispose con brutalità: “Numerosi furono i crimini commessi dall’esercito italiano e dai fascisti contro la popolazione civile, con la distruzione e l’incendio di interi villaggi e l’uccisione di tutti gli abitanti, vecchi, donne, bambini, la presa d’ostaggi, la distruzione e l’incendio di intere località, le rappresaglie sulle famiglie di semplici sospetti, lo sgombero di larghe zone abitate, il disboscamento di aree considerate particolarmente ricettive per le formazioni partigiane, la deportazione di larghi nuclei della popolazione locale, la distruzione e il saccheggio del bestiame. Rispetto all’alleato tedesco, differirono solo la frequenza e l’intensità di tali misure” (pag. 44). Durante i ventinove mesi di occupazione italiana (1941 – 1943), nella sola provincia di Lubiana furono giustiziati 900 partigiani e circa 5.000 civili, come ostaggi o durante i rastrellamenti. Altri 7.000 sloveni morirono di stenti, malattie e maltrattamenti nei campi di concentramento in Italia e nella Jugoslavia” (pag. 45). Terminata la guerra, tutti gli ufficiali dell’esercito italiano, che si erano resi responsabili degli eccidi, vennero processati ma nessuno venne condannato. L’Italia arrivò almeno ad istituire una commissione di inchiesta (6 maggio 1946) per processare militari e civili italiani che si erano macchiati di crimini di guerra. La Jugoslavia reclamò il processo a 750 criminali italiani. Il processo si risolse con un nulla di fatto, tutti prosciolti. La Jugoslavia non ci pensò minimamente ad istituire un tribunale per processare quanti si erano macchiati tra partigiani sloveni e croati di aver scaraventato nelle foibe tutti gli italiani che incontravano sulla propria strada, alcuni fascisti, ma la maggior parte civili, uomini, donne, anziani che avevano il solo torto di essere italiani dell’Istria, della Dalmazia e della Venezia Giulia.
La Venezia Giulia dopo l’8 settembre
L’otto settembre 1943 e nei giorni successivi c’erano nella Venezia Giulia circa 100.000 soldati italiani, mentre i tedeschi avevano a disposizione non più di cinquemila seimila uomini. Invano i rappresentanti del fronte democratico nazionale di Trieste si recarono dal generale Ferrero del XIII Corpo d’armata per chiedere di resistere al tedeschi. Nel giro di pochi giorni tutto l’esercito italiano presente in Istria, Croazia, Slovenia e Venezia Giulia si disintegrò. Dopo il crollo dell’apparato statale e prima dell’arrivo dei tedeschi iniziarono le stragi ai danni della popolazione italiana. Le vittime, 400 – 500 persone venivano scaraventate all’interno delle foibe. Ovviamente per primi furono coinvolti “Gli esponenti fascisti locali, insieme ai funzionari e impiegati dello stato e ai possidenti. Furono arrestati e fatti sparire podestà, funzionari comunali, carabinieri, guardie campestri, esattori delle tasse, proprietari terrieri. Successivamente l’epurazione si estese ad insegnanti, commercianti, farmacisti e alla classe media produttiva. Erano tutti di nazionalità italiana perché la quasi totalità dei posti dirigenti in campo economico, amministrativo e impiegatizio era occupato dal ceto italiano” (pag. 50). Accanto ad istanze sociali, rivendicazioni politiche e richiami nazionalistici ci furono anche vendette personali ed episodi di criminalità comune. Il senso di insicurezza si impadronì della popolazione italiana che iniziò a pensare alla fuga. La successiva offensiva dei tedeschi mise a ferro e a fuoco l’intera regione con numerosi villaggi distrutti e con eccidi degli abitanti. Tutto il litorale adriatico divenne zona di operazione militare tedesca. All’Italia si sostituì l’amministrazione politica tedesca che comprendeva le province di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume, Lubiana. Il nome dato alla nuova amministrazione “Adriatisches Küstenland” era quello esistente al tempo dell’impero austro ungarico. La Repubblica Sociale Italiana con sede a Salò era solo un fantoccio nelle mani di Hitler. Mussolini cercò di annettere tutto il territorio in questione alla neonata repubblica ma invano. In tutta la regione intanto imperversavano i partigiani di Tito, gli Ustascia di Ante Pavelić, i Cetnici di Mihajlovic, i Domobranci sloveni. Tito e i suoi partigiani godevano dell’appoggio inglese che aveva preso le distanze dal movimento monarchico nazionalista guidato da Mihajlovic. Ustascia croati e Domobranci sloveni appoggiavano invece i tedeschi. Furono massacrati dai Tito a guerra conclusa. 75.000 ustascia croati furono uccisi nei dintorni di Maribor e sepolti in enormi fosse comuni. Altri 30.000 ustascia furono fucilati nella foresta di Kocevlje. Ante Pavelić si salvò, riparando in Argentina. E’ morto a Madrid nel 1959 attorniato da alcuni fedelissimi che lo avevano seguito in esilio.
Il superamento dei contrasti e gli accordi del 1944 (quarta parte).
Il 16 settembre 1943, pochi giorni dopo l’armistizio, “La presidenza del Consiglio antifascista di liberazione nazionale della Jugoslavia decretava l’annessione del Litorale sloveno, dell’Istria croata e delle isole croate adriatiche alla Jugoslavia” e garantiva l’autonomia alla minoranza italiana. Erano i primi paletti che venivano fissati. “Secondo il Partito comunista italiano, le richieste jugoslave erano in larga parte legittime, perché riguardavano territori abitati prevalentemente da sloveni e croati, ma erano inaccettabili per le zone a maggioranza italiana, anche per il modo in cui erano state avanzate, non essendo rispettato il principio di autodecisione” (pag. 64). Il Partito Comunista Jugoslavo pensava che non era da mettere in discussione l’appartenenza di Trieste alla futura repubblica jugoslava. Il contrasto politico tra i due partiti pregiudicava anche la collaborazione militare contro l’occupante tedesco, con il rischio di stroncare sul nascere le formazioni partigiane italiane nel Friuli e nella Venezia Giulia (pag. 65). Il Comando sloveno pretendeva che i battaglioni partigiani italiani, che operavano fra Cividale e Gemona, si spostassero a occidente del Tagliamento oppure si mettessero con l’autorità militare slovena. Ci furono inoltre incidenti tra formazioni partigiane. Furono strappati i tricolori dalle divise dei partigiani italiani e furono imposti segni e simboli sloveni a partigiani italiani. Gli slavi acceleravano, sentendo ormai la vittoria in pugno, i dirigenti del partito comunista italiano ritenevano invece che la questione dell’appartenenza nazionale dei territori contesi tra Italia e Jugoslavia si sarebbe dovuta affrontare a guerra conclusa. Nel Comitato di Liberazione triestino, un peso specifico era rappresentato dal “Partito d’Azione che, pur sottolineando le responsabilità del fascismo nell’inasprimento dei rapporti fra le varie nazionalità della regione, rivendicava all’Italia l’appartenenza di Trieste e di tutta la Venezia Giulia” 8 pag. 68).
Gli accordi fra comunisti italiani e sloveni.
Nonostante la guerra ancora in corso contro l’occupante tedesco, il clima di tensione tra i due partiti comunisti non era affatto rassicurante. I Comunisti italiani premevano per rafforzare la lotta contro il comune nemico nazi fascista, rinviando al dopoguerra la soluzione del problema territoriale, da risolversi secondo il principio della libera autodecisione dei popoli. Il Pc jugoslavo accettò la proposta ma ribadì che alla fine del conflitto non avrebbe mai trattato con un’Italia monarchica, capitalista e legata all’imperialismo ma solo con un’Italia democratica. Sono i fumi ideologici che imperverseranno per anni soprattutto dopo lo strappo della Jugoslavia dal blocco sovietico e contro il Cominform. In un documento sottoscritto da rappresentanti dei due partiti (aprile 1944) ci si impegnava nella lotta comune contro il Nazi Fascismo e che “La soluzione definitiva dei problemi nazionali e territoriali dipenderà soprattutto dalla situazione generale in questa parte d’Europa e anzitutto in Jugoslavia e in Italia” (pag. 71). Il clima di sospetti, di incomprensioni e di contrasti tra comunisti italiani e sloveni “Portò ai drammatici fatti di Poržus, dove il 7 febbraio 1945 e nei giorni successivi fu catturato e trucidato un intero comando osovano, partigiani della Osoppo, con l’accusa di intesa con il nemico nazista, da parte di un distaccamento di Gap garibaldini, guidati da “Giacca”. Ventidue furono i partigiani uccisi, fra cui il comandante Francesco de Gregori “Bolla”, romano e zio, omonimo del noto cantante, il commissario politico Gastone Valente “Enea” e Guido Pasolini “Ermes”, fratello di Piero Paolo Pasolini (pag. 76). Questi contrasti non portarono mai ad un comando unico ma solo a comandi di coordinamento. La reazione nazista verso il movimento partigiano che operava a Trieste, nella Venezia Giulia e nell’Istria fu feroce. Una delle rappresaglie più crudeli fu compiuta nel villaggio di Lipa, sulla strada Postumia – Fiume, dove il 30 aprile 1944 i tedeschi e i fascisti uccisero tutti gli abitanti, vecchi, donne, bambini e incendiarono le case (286 massacrati e un superstite).
Una delle creazioni più importanti, voluta dalla resistenza partigiana, fu la costituzione di una zona libera, la Carnia, che durò quasi tre mesi come esperienza di libero governo, pur essendo la regione interamente circondata da zone occupate e governate dai tedeschi. La libera repubblica dell’Ossola, in Piemonte, durò appena quaranta giorni e i suoi rappresentanti, dopo la rioccupazione dell’Ossola da parte dei Nazisti e Fascisti, sconfinarono nella vicina Svizzera.
Dalla svolta Jugoslava alla liberazione di Trieste (quinta parte).
La seconda guerra mondiale terminava in Europa con la sconfitta della Germania e dell’Italia. Il contesto internazionale si era già delineato. Stati Uniti d’America, Unione Sovietica, Gran Bretagna erano i paesi vincitori ai quali si aggiungeva la Francia. Churchill alla conferenza di Teheran aveva spinto perché si aprisse un fronte nell’alto adriatico per arrivare a Vienna, Lubiana prima dell’Armata Rossa, effettuando sbarchi in Dalmazia, Istria e Trieste. Prevalse la decisione di Roosevelt, affatto intenzionato a scontrarsi con Stalin che reclamava invece l’apertura di un secondo fronte proprio in Francia, come avvenne il 6 giugno 1944 con lo sbarco anglo americano in Normandia. La questione di Trieste e della Venezia Giulia, compresa l’Istria e la Dalmazia non era stata mai affrontata. Il presidente americano proponeva che si arrivasse alla libera autodecisione dei popoli. La Jugoslavia invece aveva fretta di arrivare a Trieste prima di tutti. E avvenne proprio questo. La città venne liberata prima di Lubiana. Tito godeva dell’appoggio incondizionato di Stalin. Il disaccordo tra i due leader avverrà dopo, nel 1948, quando Tito si sgancerà dall’orbita sovietica e darà vita ai cosiddetti paesi non allineati, né con i Russi né con gli Americani, anche se questi ultimi brigarono non poco per aiutarlo in funzione anti Unione Sovietica.
“La mancanza di un accordo formale sulla natura dell’occupazione della regione Giulia doveva pesare molto sul corso degli avvenimenti. In pratica, si lasciava alle circostanze militari propriamente dette – avanzata degli Anglo – Sassoni a ovest dell’Adriatico, avanzata dei partigiani jugoslavi nella regione Giulia – un’importanza decisiva” (pag. 93). Il 19 settembre 1944 il maresciallo Tito, in un discorso per l’anniversario della II Brigata Dalmata, rivendicò i territori dell’Istria, del litorale sloveno e della Carinzia, parlando della liberazione di Fratelli che per decine di anni erano stati costretti a vivere sotto la dittatura fascista. L’intervento del maresciallo era la risposta agli storici italiani Gaetano Salvemini, Benedetto Croce e all’ex ministro degli esteri, Carlo Sforza, che avevano difeso le ragioni dell’Italia. Lo scontro avveniva poi tra i due partiti comunisti, quello italiano e quello jugoslavo, senza che si arrivasse ad un accordo. Plenipotenziario per il PCI era Vincenzo Bianco che venne addirittura arrestato dalle autorità jugoslave. Tito era in una posizione di forza. Era il capo leggendario che aveva combattuto contro i tedeschi. Godeva di un grande prestigio internazionale. La Jugoslavia non era quella che abbiamo purtroppo visto negli ultimi anni del secolo scorso, dilaniata da guerre etniche, con distruzioni morali e materiali immani.
La tragedia delle foibe (sesta parte).
La tragedia delle Foibe scoppia a Trieste e nella Venezia Giulia nel maggio 1945, in Istria era stata anticipata al 1943 dopo l’armistizio e con la dissoluzione dello stato italiano. Se le violenze scoppiate in Istria avvennero al riparo da occhi indiscreti, quelle della Venezia Giulia nel 1945 avvennero in presenza di una amministrazione civile e di una forza militare quale era la IV armata jugoslava. Agli eccidi del 1945 avvennero poi in un territorio dove erano presenti le forze armate alleate che non fecero nulla per scongiurare gli eccidi.
Il territorio conteso venne diviso in due zone, in seguito chiamate Zona A e Zona B, la prima, che comprendeva anche la città di Trieste, sotto l’Amministrazione militare alleata, la seconda sotto quella jugoslava. L’accordo non avrebbe pregiudicato la soluzione finale; in realtà sarà questa la linea di confine definitiva e solo nel 1954 sarebbe tornata a far parte dello Stato italiano (pag. 114). La linea Morgan realizzava un compromesso tra le rivendicazioni jugoslave, dirette ad estendere l’area di occupazione fino all’Isonzo, e la posizione americana che prevedeva l’occupazione alleata di tutta la Venezia Giulia. La linea Morgan fu rivista e furono spostati alcuni paletti di confine a favore della Jugoslavia con soluzioni a dir poco tragicomiche, sala e cucina di una abitazione annessi alla Jugoslavia, camera da letto all’Italia. Trieste per 40 giorni fu amministrata dalla Jugoslavia. Furono proprio in questi quaranta giorni che si consumarono i più efferati casi di uccisioni indiscriminate ai danni della popolazione italiana di tutta l’area contesa.
Se le Foibe erano luoghi dove si occultava tutto quello che non serviva più o quello che era pericoloso conservare, carcasse di animali, mobili, tracce di furti, cadaveri, gettare un uomo nella foiba significava quindi trattarlo come un rifiuto. Indicava anche l’annullamento dell’esistenza. La morte, anche la più terribile, può essere accettata se almeno c’è una tomba che raccoglie le spoglie e una lapide che ricorda la vita trascorsa. Da questo rovesciamento dei valori nascono le due interpretazioni radicalmente contrapposte: da un lato la violenza cieca e la barbarie, la distruzione di ciò che è civiltà e progresso, e quindi di tutto quello che rappresenta o costituisce l’Italia, dall’altro la stessa azione diventa l’espressione fulminea della giustizia antifascista, lo sradicamento dal mondo della barbarie nazifascista (pag. 114). Le due interpretazioni rimarranno cristallizzate dopo la rottura tra Stalin e Tito nel 1948 e l’interesse occidentale di attirare nel proprio campo la Jugoslavia. Gli infoibati, la popolazione dell’Istria, della Venezia Giulia, della Dalmazia verranno sacrificati sull’altare di questa politica scellerata.
Basovizza, Monrupino, Tarnova, Opicina, Monte Nero, Prosecco, Volci, Prestrane, Grobnico, Bricko – Banovic, Sisak, Kocevje sono i nomi delle principali foibe in cui avvennero gli eccidi. Il numero dei corpi esumati dalle cavità rimaste in territorio italiano è limitato. Quasi tutte le foibe si trovavano nella zona B, passata in seguito sotto il controllo jugoslavo, che ebbe tutto il tempo per occultare le prove. Certo è che il termine foibe divenne sinonimo di paura e di angoscia per tutti gli italiani della zona. Incomincia proprio in questo lungo periodo l’esodo in massa di italiani della Venezia Giulia, della Dalmazia verso l’Italia, con qualsiasi mezzo. Il quadro internazionale era ancora precario. Se la guerra in Europa era finita, continuava ancora nel Pacifico. Gli Stati Uniti per non sacrificare le vite di altri soldati americani, chiedevano all’URSS di partecipare nella lotta contro il Giappone. Il maresciallo Tito aveva in Stalin il grande alleato. Gli Stati Uniti non volevano impegnarsi più di tanto nell’intricata questione dei confini orientali dell’Italia.
“Alla tragedia delle “foibe” concorsero spinte e fattori diversi, di natura ideologica (scontro tra fascismo e antifascismo), nazionale (appartenenza territoriale) e sociale (lotta di classe, per il socialismo). Importante rimane il problema della quantificazione, vale a dire se le vittime siano state alcune centinaia, migliaia o addirittura decine di migliaia: numeri e grandezze così diverse dimostrano quanto si sia preferito fare lotta politica sulla questione piuttosto che storia. Riuscire a determinare il numero non costituisce una questione puramente contabile e ragionieristica. Non si toglierebbe l’orrore per la vicenda se i morti fossero stati poche decine. Anche un solo infoibato dovrebbe fare riflettere sulla disumanità del trattamento riservato agli italiani ma cambierebbe l’analisi storica e la ricerca delle cause della tragedia” (pag. 117).
Ci vorrebbe un grande sforzo per arrivare alla verità. Invece rimangono le posizioni di sempre. Da un lato il governo jugoslavo affermava che i morti erano tutti fascisti caduti nel corso di combattimenti contro i partigiani oppure criminali di guerra, dall’altro sul versante opposto permane la tesi del genocidio nazionale contro gli italiani. Così il tentativo di ridurre al minimo l’entità della strage o, dall’altra parte, la chiara esagerazione del fenomeno, sono entrambi strumentali e servono a giustificare l’una o l’altra tesi.
Nei giorni dell’occupazione anche della zona B da parte dell’autorità jugoslava si aveva fretta di processare e uccidere il più rapidamente possibile ma in silenzio. In questo compito un ruolo di primo piano fu quello dell’Ozna, letteralmente il dipartimento per la protezione del popolo, la famigerata polizia segreta jugoslava, che non andava tanto per il sottile. Anche alcuni capi politici jugoslavi condannavano l’eccessivo zelo della polizia segreta. Non si poteva costruire nessuno stato socialista sul terrore, soprattutto ci si alienava le simpatie degli operai italiani. Il partito comunista jugoslavo era costituito solo da quadri ma non esisteva un grande movimento operaio. Le industrie in Jugoslavia erano poche, le uniche erano quelle della Venezia Giulia e della costa dalmata in mano agli italiani. C’era anche in alcuni dirigenti comunisti jugoslavi il buon senso ma prevalse il terrore. Certo, tutti i fascisti erano italiani, ma non tutti gli italiani erano fascisti, prova ne sia il movimento partigiano italiano che combatté contro Nazisti e Fascisti e assieme a loro migliaia di soldati italiani che, dopo l’8 settembre 1943, andarono a combattere con i partigiani jugoslavi.
Negli eccessi contro gli italiani e nel successivo esodo degli italiani dalla Venezia Giulia e dall’Istria, prevalse la contrapposizione nazionalista e revanscista jugoslava. All’interno di un organismo socialista jugoslavo potevano riconoscersi anche gli italiani che lottavano per una soluzione rivoluzionaria e credevano nella collaborazione tra i popoli. Ciò non avvenne. “Probabilmente proprio lo scontro nazionale, che i comunisti soprattutto italiani avevano cercato di evitare, favorì il prevalere dell’elemento nazionale su quello dell’internazionalismo proletario nella gestione locale della politica nazionale jugoslava” (pag. 127).
Il volume di Pierluigi Pallante, la tragedia delle Foibe, memoria e storia, presenta nuove chiavi interpretative, collocando la vicenda all’interno della storia italiana del Novecento, e propone un’ampia raccolta di documenti, in gran parte inediti o solo parzialmente pubblicati. Tutto il testo è ricco di note che ampliano il saggio. E’ un libro da leggere con passione e interesse per cercare risposte ai tanti misteri del passato.
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