di Raimondo Giustozzi
“Sono trascorsi quarantasette anni, quasi mezzo secolo, dalla tragica notte del 18 maggio 1977 in cui, nelle Marche, tra le province di Ascoli Piceno e Macerata, nei centri cittadini di Porto San Giorgio e poi di Civitanova Marche, ebbero luogo tre violenti scontri a fuoco ai quali presero parte, complessivamente, dieci miliari delle Compagnie Carabinieri di Fermo e di Civitanova e sei pericolosissimi criminali, quasi tutti appartenenti a una associazione di tipo mafioso, già pluriomicidi ed evasi” (Giuseppe Bommarito, Marco D Stefano, Notte di sangue, il 18 maggio 1977: i tre conflitti a fuoco di Porto San Giorgio e Civitanova Marche, prefazione, pag. 7, Affinità Elettive, 2024, Ancona).
Nella tarda serata di martedì 17 maggio 1977, alle 22,30, “sotto un cielo nuvoloso e carico di pioggia, il treno, proveniente da Giulianova, giungeva puntualissimo alla stazione di Porto San Giorgio, utilizzata da lavoratori pendolari o da rappresentanti in visita alle numerose imprese calzaturiere del comprensorio” (ibidem, pag. 19). I cinque giovani, che scesero dal treno, non sembravano affatto lavoratori, che guadagnavano il pane con il sudore della fronte, ma la personificazione di una banda di delinquenti, avvezzi a rapine alle banche, al traffico di droga. Capo della banda era Carlo Alè, originario di Ortona, in provincia di Chieti. Gli altri quattro pregiudicati erano: Domenico Di Renzo, pescarese di 24 anni, Agatino Bonaccorsi, ventinovenne, catanese, Giovanni De Luca, ventiquattrenne, originario di Catania e Angelo Santonocito, ventidue anni, catanese anche lui. Antonio Rapino, di Ortona, 33 anni all’epoca dei fatti, amico di Carlo Alè, era il basista del gruppo. Era nel piazzale della stazione ad aspettarli con la sua Volvo bianca, per portarli al ristorante “Il Caminetto”, non lontano dalla stazione. Sistema il borsone pieno di armi nel bagagliaio dell’autovettura. Aveva provveduto a sistemare in precedenza gli effetti personali dei compagni presso il covo della banda, situato nella zona sud della cittadina, in via Napoli N° 5, in una posizione strategica per la sua vicinanza con il casello dell’autostrada A14.
La narrazione degli eventi, accaduti prima a Porto San Giorgio, poi a Civitanova Marche, si interrompe. È uno dei primi flashback di cui è ricco il saggio. La banda, erroneamente chiamata dalla stampa del tempo “Banda dei Catanesi”, era in realtà formata da tre catanesi e tre abruzzesi. Si era costituita a Torino, dove operava la banda dei” Cursoti”, una formazione criminale mafiosa sorta nel 1974 – 75 a Catania; qui aveva preso il nome dal quartiere Corso della città etnea. Non potendo gareggiare con altre più importanti famiglie mafiose del posto, alcuni scelsero di emigrare a Torino, altri a Milano dove iniziarono la loro attività criminale, con rapine in banche, spaccio di droga, furti di ogni genere, omicidi. Carlo Alè si trasferisce nella città capoluogo del Piemonte dopo la fuga dal carcere di Lanciano, dove era stato imprigionato per una rapina, tentato omicidio del brigadiere delle guardie carcerarie e per aver tenuto in ostaggio il comandante degli agenti di custodia. A Torino avvicina la banda dei Cursoti e conosce il loro capo: Rosario Condorelli, un criminale incallito, evaso dal carcere torinese “Le Nuove” nel novembre 1976 assieme a Carlo Alè ed agli altri protagonisti delle tragiche vicende marchigiane del 18 maggio 1977.
Dopo l’uccisione del commissario di Pubblica Sicurezza Vincenzo Rosano (2 febbraio 1977) ad opera di Condorelli e Santonocito, la caccia delle forze dell’ordine, per contrastare il gruppo dei Cursoti, si fa sempre più incessante. Questo suggerisce alla formazione malavitosa di dividersi. Condorelli e altri affiliati rimangono in Piemonte, macchiandosi di delitti efferati. Carlo Alè, Domenico Di Renzo, Agatino Bonaccorsi, Giovanni De Luca e Angelo Santonocito decidono di scendere in Abruzzo per continuare la propria attività criminale. Qui avevano le proprie basi operative, trovate loro dal basista del gruppo, Antonio Rapino. La banda opera la prima rapina al Banco di Napoli, sede di Pescara, il 29 aprile 1977, che frutta solo quattro milioni di lire, un’altra rapina del 16 maggio 1977, sempre a Pescara, questa volta alla Banca Popolare di Teramo e Città Sant’Angelo, frutta una cifra molto alta. Non contenti di ciò, tra una rapina e l’altra, i malavitosi uccidono a sangue freddo un uomo, che si faceva chiamare Imperatore, collaboratore e confidente delle forze dell’ordine, un “malacarne”, un ficcanaso, autore di piccoli reati, che spifferava agli sbirri quanto sapeva sugli ambienti criminali frequentati nelle bische e nei bar.
Anche in Abruzzo i “Catanesi” trovano terra bruciata. Decidono allora di trasferirsi nelle Marche, esattamente a Porto San Giorgio dove Rapino trova un altro covo, complice la sorella Derna, che non sapendo nulla dei traffici illeciti e delle pericolose amicizie del fratello, su sua richiesta gli cede alcuni locali di un Supermercato sfitto. Tutto il litorale e l’interno del territorio è ricco di fabbriche. Piccoli e grandi “capitani d’industria” locale danno lavoro a migliaia di operai nel settore della calzatura e dell’indotto. Niente di più facile architettare qualche rapimento di uno tra i più ricchi industriali, come aveva fatto il 26 gennaio 1977 l’Anonima Sarda, a Marina Palmense, frazione di Fermo, con il sequestro dell’imprenditore calzaturiero Mario Botticelli, rilasciato nell’aprile dello stesso anno dietro il pagamento di 750 milioni delle vecchie lire. La banda dei Catanesi progettava proprio un sequestro, come risultò nella sentenza della Corte di Assise di Macerata, dove si legge: “Avevamo bisogno di una casa per metterci dentro un sequestrato” (Ibidem, pp. 46-47).
Altro flashback e il racconto si fa sempre più avvincente. I sei pregiudicati, Carlo Alè, Domenico Di Renzo, Agatino Bonaccorsi, Giovanni De Luca e Angelo Santonocito, Antonio Rapino, quest’ultimo alla guida della Volvo Bianca, arrivati davanti al ristorante “Il Caminetto”, posto sul lungomare sud di Porto San Giorgio, entrano nel locale, dopo aver parcheggiato la macchina. Sono quasi le 23,00 di martedì 17 maggio 1977. Proprio quando loro stanno entrando, Rosario Aiosa, capitano dell’Arma dei carabinieri presso la caserma di Fermo, e il suo autista, Nunzio Iannello, stanno uscendo dallo stesso locale. Si erano recati in Ancona per motivi di servizio. Rientrati a Fermo, tolta la divisa militare e con una macchina civile, decidono di scendere a Porto San Giorgio e cenare al ristorante “Il Caminetto”. Il capitano Aiosa osserva subito i sei giovani, rilassati e sorridenti, incrociando i loro sguardi. Nota subito che sono usciti in sei da una macchina omologata per cinque persone. È il primo indizio che allarma i due carabinieri. L’autista Iannello osserva una targa vecchia su un modello nuovo di Volvo. È il secondo tassello che preoccupa il capitano Aiosa. Ritornano in caserma per verificare se la Volvo risulta rubata. Fatti gli accertamenti, la macchina dei sei giovani è in regola. Il capitano Aiosa comunque decide di ritornare al ristorante “Il Caminetto” per verificare “chi fossero quegli individui e soprattutto per capire il motivo della loro presenza a Porto San Giorgio. La motivazione di tipo turistico non reggeva in quanto la stagione estiva non era ancora cominciata”.
Decide comunque di portare con sé altri cinque carabinieri. Su una macchina Fiat 127, con targa civile, salgono il capitano Rosario Aiosa, l’autista Nunzio Iannello e il brigadiere Velemiro di Toro Mammarella. Sempre su un’altra Fiat 127, con targa civile, salgono il maresciallo maggiore Mario Pennesi e l’appuntato Giovanni Dell’Avvocato, 32 anni, nato a Pescara, sposato e padre di un bimbo, comandante e addetto al Nucleo operativo della Compagnia. Gli appuntati Alfredo Beni e Pietro Bruè, entrambi effettivi al Nucleo Radiomobile, partono con una radiomobile Alfa Romeo Giulia. Era uno schieramento più che sufficiente per identificare sei giovani. Il capitano Aiosa fa sistemare le auto civili una a destra e l’altra a sinistra del viale sul lungomare, in una posizione che consentiva di osservare l’ingresso del ristorante. La radiomobile Alfa Romeo Giulia viene posizionata sul lato sinistro del lungomare sud, a circa 50 metri e non vista da chi usciva dal ristorante. Il piano era stato preparato nel migliore dei modi. La Volvo, per uscire dal parcheggio, avrebbe dovuto fare la retromarcia. Le due macchine civili sarebbero intervenute lateralmente per bloccarla. La radiomobile sarebbe intervenuta prontamente da dietro. Ma non andò così.
I sei giovani escono dal ristorante verso la mezzanotte e un quarto del 18 maggio 1977, ma, mentre Antonio Rapino e Carlo Alé vanno verso la macchina, gli altri quattro, sospettando qualcosa, fuggono di lato e si mettono a correre lungo la via Verdi, una parallela al lungomare, andando verso Nord. In una frazione di secondi, il capitano Aiosa ordina alle tre vetture di bloccare la Volvo e controllare i due malviventi, mentre lui, pistola in pugno, si getta all’inseguimento degli altri quattro, facendo segno al maresciallo Pennesi e al carabiniere Iannello di seguirlo.
Nel frattempo, il brigadiere Velemiro Di Toro Mammarella e l’appuntato Giovanni Dell’Avvocato si avvicinano alla Volvo per procedere all’identificazione dei due banditi. Improvvisamente, aperta la portiera anteriore destra della macchina, Carlo Alé, impugnata la pistola, esplode una serie di colpi contro i due militari. Di Toro Mammarella, colpito di striscio alla regione orbitale sinistra del capo da un proiettile che per sua fortuna ha uno strano rimbalzo sul tettuccio della Volvo, cade a terra e rialzandosi si tocca il cranio lacerato che butta sangue vicino alla tempia. Uditi gli spari, gli appuntati Alfredo Beni e Pietro Bruè, senza pensare di coprirsi, si fanno avanti con la pistola mitragliatrice in difesa dei loro colleghi ed esplodono alcuni colpi verso Carlo Alè ma senza raggiungerlo. Il bandito, nascosto dietro la Volvo, improvvisamente, fa un balzo di lato e scarica l’ultimo proiettile, colpendo in pieno petto Alfredo Beni che cade a terra “con il viso rivolto al cielo senza più dare segni di vita”. Lascia la moglie e tre figli.
Carlo Alè, dopo la sparatoria, riesce a dileguarsi, correndo all’impazzata per le strade buie e deserte della cittadina adriatica. Antonio Rapino viene ammanettato all’istante, senza opporre resistenza, terrorizzato di essersi trovato in mezzo a quell’inferno. Rischia il linciaggio quando viene portato, alle prime luci dell’alba, a Civitanova Marche per l’identificazione degli altri componenti della banda. All’interno della sua macchina i carabinieri trovano di tutto: “centinaia di cartucce e pallottole, bombe a mano, candelotti di dinamite, fucili dal calcio segato, pistole di vario calibro, guanti di pelle, calze di nylon da infilare in faccia, nastro adesivo, boccette di cloroformio e parrucche. Insomma una sorta di cassetta degli attrezzi del bravo criminale” (pag. 49).
Il carabiniere Iannello, all’inseguimento dei quattro malviventi in fuga, udendo gli spari, disattende l’ordine del capitano Rosario Aiosa e ritorna verso il ristorante “Il Caminetto” per prestare soccorso. Non ha la prestanza fisica del suo superiore, per raggiungere i quattro fuggitivi. Mentre è in fase di rientro, si imbatte con un giovane che sta correndo verso Nord. È Carlo Alè che, all’intimidazione di fermarsi, sgattaiola per una strada parallela, facendo perdere le tracce Il carabiniere esplode in aria alcuni colpi con la propria arma in dotazione, ma perde di vista il bandito. Rosario Aiosa corre all’impazzata verso i quattro fuggitivi. È giovane, atletico e prestante. Tutto attorno a lui è notte fonda, le strade sono poco illuminate, la pioggia cade ad intermittenza, quando non accenna anche a scrosci improvvisi e violenti. Il capitano non si ferma, corre a perdifiato fino ad incontrarsi faccia a faccia con un bandito, gli altri tre sono riusciti a distanziarsi e corrono verso Nord su una strada parallela al lungomare.
Giovanni De Luca, uno dei quattro, invece, viene raggiunto dal capitano Aiosa, che gli si avvicina per perquisirlo. Giovanni De Luca, pluriomicida, evaso dal carcere di Fossombrone, finge di scivolare e terra, come se non si reggesse più in pedi, quando, improvvisamente fa fuoco con la pistola all’indirizzo del capitano Aiosa. Lo colpiscono due proiettili, “l’uno all’addome, l’altro alla coscia., con fori di entrata e di uscita, causandogli gravissime ferite soprattutto al fegato e allo stomaco”. Nonostante la perdita copiosa di sangue, il capitano Aiosa riesce a rimanere in piedi e a scaricare, con una pistola 357 Magnum Smith & Vesson, non d’ordinanza, quattro proiettili sul bandito. De Luca stramazza a terra, non prima di essere riuscito a rivolgersi al capitano dei carabinieri in modo beffardo e provocatorio: “Che fai, mi spari?”. Non muore subito ma all’ospedale di Porto San Giorgio. Un tassista, tale Adelfo Pierangeli, che transitava per caso con il Taxi, vedendolo a terra, pensa che fosse vittima di un investimento provocato da qualche pirata della strada, che lo aveva lasciato morire. Giovanni De Luca giunge morto all’ospedale. Intanto, con la forza della disperazione, il capitano Rosario Aiosa, barcollando, ma stringendo i denti, raggiunge il piazzale, davanti al ristorante, dove si trovano gli altri carabinieri. Dà ordine di ricoverare il carabiniere ferito presso l’Ospedale di Porto San Giorgio e di farsi ricoverare prima presso lo stesso nosocomio, poi all’ospedale Umberto I di Ancona dove rimane per circa due mesi, lottando tra la vita e la morte con tutte le proprie forze. Dirà più volte di essere nato una seconda volta proprio nella città dorica: “Ad Ancona sono nato la seconda volta, e la mia levatrice è stato Landi”, primario al reparto di patologia Chirurgica.
Domenico Di Renzo, Agatino Bonaccorsi, Giovanni De Luca e Angelo Santonocito, i tre banditi in fuga, rubata una Fiat 500 a Porto San Giorgio, arrivano a Porto Sant’Elpidio. Da qui percorrono a piedi un tratto della ferrovia, evitando il posto di blocco sulla SS 16 Adriatica all’altezza del ponte sul fiume Chienti, che divide Porto Sant’Elpidio e Civitanova Marche. Qui rubano un’altra Fiat 500 e arrivano nel piazzale della locale stazione. Tutte le Marche intanto ed anche le regioni confinanti venivano messe in allarme. Carabinieri, poliziotti e finanzieri erano stati allertati e controllavano il territorio: “I lampeggianti delle auto delle forze dell’ordine squarciavano il buio della notte”. Anche la locale Compagnia dei Carabinieri di Civitanova era in allarme. Il brigadiere Angelo Albanesi, 31 anni, capo equipaggio del nucleo Radiomobile di Civitanova Marche, appena avuta la notizia del rinvenimento nella Volvo di rullini, si precipita a Porto San Giorgio. Forse possono aiutare gli inquirenti per identificare i componenti della banda. Ritorna a Civitanova Marche e va a trovare il fotografo Dante Orlandi, che abitava in via Tito Speri, per sviluppare le fotografie. Orlandi, svegliato nel cuore della notte, esamina i rullini e vede che le foto sono a colori. Non può fare nulla perché non ha la strumentazione adatta per sviluppare tali fotografie.
Angelo Albanesi allora, trovandosi in via Tito Speri, la stessa dove abitava il capitano Sergio Piermanni. suona alla porta del capitano e gli racconta tutto quello che è successo nella vicina Porto San Giorgio e dei tre malviventi in fuga. “Senza pensarci due volte, il maresciallo Piermanni, uno che si sentiva in servizio, anche quando era a riposo o in ferie, una persona retta che credeva fermamente nel proprio lavoro e affrontava la vita con coraggio e responsabilità, comprese subito cosa doveva fare” (pag. 83). Salutata la moglie Giovanna con un bacio e un “torno presto”, data una carezza ai due figli che dormivano, presa la pistola d’ordinanza, sale nell’auto di servizio con Angelo Albanesi e il carabiniere Franco Bozzi che fungeva da autista. Girano per la città e arrivano in piazza Rosselli, davanti alla stazione ferroviaria di Civitanova Marche. Piove a dirotto. Sono da poco passate le ore 4,00 di martedì 18 maggio 1977. I carabinieri notano una Fiat 500 con le luci di posizione accese e con il muso rivolto verso la strada. Si avvicinano e vedono tre giovani che sembravano stessero accovacciandosi pe non farsi notare. Angelo Albanesi e il capitano Sergio Piermanni si avvicinano per identificarli. I tre si alzano improvvisamente e iniziano a sparare all’impazzata contro i due militi.
“Piermanni, benché ferito gravemente in più punti (raggiunto da ben quattro proiettili esplosi da una pistola Cobra calibro 38, uno all’ascella sinistra, uno al braccio sinistro, uno alla milza e uno all’inguine), aprì tuttavia il fuoco con la pistola d’ordinanza scaricando in gran parte da terra, mentre stava cadendo al suolo, l’intero caricatore, e riuscì a colpire uno dei tre giovani, probabilmente il Santonocito, quello che gli aveva sparato e che gli stava di fronte a meno di un metro. Poi si accasciò, in una pozza di sangue, tenendo in mano la propria pistola” (pag. 86). Accanto al corpo di Piermanni venne trovato in seguito, durante le indagini, un documento di identità di uno dei banditi. Questo dimostra che il capitano si era avvicinato ai banditi con l’intento di verificare chi fossero. Questi ultimi avevano fatto finta di aderire alla richiesta, poi avevano iniziato a sparare per primi.
Il brigadiere Angelo Albanesi, alla vista del proprio capitano, riverso in terra in un lago di sangue e le armi dei banditi puntate su di lui, “con notevole sangue freddo si sposta in un attimo ancor più lateralmente rispetto alla Fiat 500, in modo da avere una linea di tiro più efficace nei confronti dei malviventi e scaricò dalla sua pistola mitragliatrice M /12 il suo intero caricatore di trenta colpi sui tre malviventi, anche quello che era stato colpito da Piermanni. La morte per loro fu istantanea” (pag. 86- 87). Erano le 4,20 del 18 maggio 1977. Angelo Albanesi, in preda alla disperazione, gridava: “Aiutate il maresciallo” e urlava all’indirizzo dei banditi freddati: “Perché avete sparato? Se non sparavate voi, non sparavamo nemmeno noi”.
Terminava così la “Notte di sangue”, la “Battaglia delle Marche”, come scrive il capitano Rosario Aiosa nella prefazione al libro di Giuseppe Bommarito e Marco Di Stefano, un saggio veramente da leggere. Qualche regista potrebbe usarlo per realizzare un film vero e proprio. La narrazione dei fatti è precisa e dettagliata, l‘ambientazione storica e geografica è superba. La pioggia di quel lontano martedì 18 maggio 1977 accompagna quasi tutta l’intera vicenda. I corpi dei banditi rimangono esposti all’inclemenza della pioggia fino alle ore 11,00 dello stesso giorno, per i rilievi messi in atto dalle forze inquirenti. La folla si accalca tutto intorno, mossa da rabbia e pietà. I funerali solenni celebrati il 20 maggio 1977 furono seguiti da circa 30.000 persone, nella chiesa di Cristo Re di Civitanova Marche. Ad officiare il rito, presieduto dall’arcivescovo mons. Cleto Bellucci, intervennero trenta sacerdoti concelebranti. Enorme commozione suscitò il grido di Alessandro, di otto anni, il figlio più grande del capitano Sergio Piermanni: “Cosa hanno fatto al mio papà? Perché me lo hanno ucciso?”. Si lanciò piangendo sulla bara del padre avvolta dal tricolore” (pag. 121). Non meno imponente fu il saluto alle bare dei due militi, caduti nell’adempimento del loro dovere. in piazza XX settembre di Civitanova Marche. Dopo l’alza bandiera, il minuto di silenzio e l’inno nazionale eseguito dalla locale banda cittadina, la bara del capitano Sergio Piermanni si diresse verso il cimitero locale di San Marone, quella dell’appuntato Alfredo Beni si diresse verso Fiuminata, una località dell’alto maceratese.
La prefazione del capitano Rosario Aiosa, le testimonianze del maresciallo Angelo Albanesi, di Filippo Beni, figlio di Alfredo Beni, le onorificenze concesse a Sergio Piermanni, Alfredo Beni, Rosario Aiosa, Angelo Albanesi, Velemiro Di Toro Mammarella costituiscono il valore aggiunto del saggio. Angelo Albanesi verrà sempre tormentato di “aver informato il maresciallo Piermanni della sparatoria verificatasi in quel di Porto San Giorgio e che di conseguenza si era unito a me” (pag.144). Ricostruite anche nei dettagli le risultanze processuali a carico di Carlo Alè, il capo della banda. Dopo aver ucciso Alfredo Beni, ruba una Mini Minor a Porto Sant’Elpidio e fugge nel cuore della notte verso Francavilla, nel covo abruzzese della banda. Viene arrestato alle ore 9,00 del 19 maggio 1977 e condannato all’ergastolo. Antonio Rapino, il basista della banda, fu condannato anche lui per reati di detenzione e porto abusivo di armi e di esplosivi. Morì il 6 agosto 1988 per affogamento nel mare Adriatico, a Ortona, suo paese natale.
Ogni anno, in occasione della terribile notte di sangue che sconvolse due tranquille cittadine adriatiche, Porto San Giorgio e Civitanova Marche, viene ricordato il sacrificio del capitano Sergio Piermanni e dell’appuntato Alfredo Beni. A Piermanni, comune di Civitanova Marche ha intitolato tutto il lungomare Sud della cittadina adriatica, onorandolo anche con lapidi e monumenti, una stele e un busto in bronzo posti in diversi punti delle città. “Anche Fiuminata ha voluto ricordare il suo appuntato Alfredo Beni, dedicandogli una strada che dall’interno porta alla Settempedana (la strada provinciale 361 che, fiancheggiando il fiume Potenza, collega le Marche all’Umbria), e un bellissimo cippo commemorativo” (pag. 115).
Bibliografia
Giuseppe Bommarito: Avvocato di cassazione, vive e lavora a Macerata, è presidente dell’associazione “Con Nicola, oltre il deserto di indifferenza”, fondata nel 2009 dopo la morte per droga dell’unico figlio, deceduto a 26 anni. È impegnato nella lotta alla droga, all’alcol e al disagio giovanile. È autore di diversi libri: Un piccol faro su Nick (2009), Fiocchi di neve (2010), Sia fatta la tua volontà (2016), Adeso riposa (2019), La leggenda del santo ergastolano (2022), Le vittime dimenticate. Scrive da oltre dieci anni come opinionista sul quotidiano on line “Cronache Maceratesi”, ove si occupa prevalentemente di droga e delle presenze della criminalità organizzata nelle Marche.
Marco Di Stefano: Nato a Milano il 28 settembre del 1962, ha iniziato la vita militare nel 1981, arruolandosi Carabiniere Ausiliario e, dopo aver frequentato l’Academia Militare di Modena e la Scuola Ufficiali di Roma, ha iniziato la sua carriera di Ufficiale nell’Arma del Carabinieri durata 41 anni, raggiungendo il grado di Generale di Brigata. Ha comandato vari reparti delle organizzazioni territoriali ed addestrative in tutta Italia e, dal 1995 fino al 2022 ha comandato numerose missioni internazionali delle Nazioni Unite e della Nato in El Salvador, Guatemala, Cile, Gibuti, Somalia, Kosovo, Israele e Palestina. Dall’ottobre 2022 è in congedo nella riserva dell’Arma dei Carabinieri e si dedica alla sua passione, la geopolitica (4 di copertina)
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