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Libri Giorgio Amendola, Una scelta di vita

Una scelta di vita

di Raimondo Giustozzi

Per Giorgio Amendola, figlio di Giovanni Amendola, morto a Cannes, in Francia, il 7 aprile 1926, dopo l’aggressione fascista subita il 19 luglio 1925, mentre era nelle terme di Montecatini, la giovinezza termina con la scelta di iscriversi al Partito Comunista: “Avevo ventitré anni. La vita non ea stata diritta e facile, ma tortuosa e piena di ostacoli. Tutte le varie e contrastanti esperienze, le tentazioni e le dispersioni, le molteplici influenze trovavano ora uno sbocco sicuro, in una scelta che doveva significare volontà, coerenza, disciplina interna e anche esterna, ma sempre politicamente e moralmente motivata. Sapevo che, compiendo quella scelta, andavo incontro a un mondo nuovo, appena intravvisto, e che avrei imparato a conoscere, nella lotta, donne e uomini generosamente impegnati nella dura battaglia dell’emancipazione. Non fu una scelta avventata e superficiale. Fu, per me, la scelta giusta” (Giorgio Amendola, Una scelta di vita, pp. 264 – 265, Rizzoli Editore, settima edizione, maggio 1977, Milano).

Ho letto il libro nel 1977, l’ho riletto in questi giorni con il solleone di luglio 2024. Ricordo che fu l’arcivescovo di Fermo, mons. Cleto Bellucci a suggerirmi la lettura. L’aveva trovato denso di insegnamenti, tra tutti la coerenza morale. D’altronde “Il Vangelo e il Concilio Vaticano II ci insegnano a cogliere i semi del verbo in tutte le persone amate dal Signore”. Mi premeva poi dare continuità a quella “Resistenza lunga nella lotta antifascista”, come insegna Simona Colarizi nel suo omonimo libro. Dopo Giacomo Matteotti dovevo dedicare del tempo per rileggere e scrivere su altri protagonisti della storia italiana. Occorre sempre muovere dalla conoscenza del nostro passato per cercare di capire meglio il presente e sperare in un futuro migliore. La lotta antifascista di Giovanni Amendola, Piero Gobetti, don Giovanni Minzoni, Giacomo Matteotti, Sandro Pertini, Giuseppe Saragat e di un’altra infinità di uomini e donne del nostro recente passato, muoveva proprio da questo orizzonte ideale.

“Il racconto di Giorgio Amendola si basa su una trama politica (perché la sua autobiografia degli anni giovanili è strettamente legata agli avvenimenti che hanno caratterizzato la storia italiana dagli inizi del secolo al 1929, l’anno appunto, della scelta di vita); ma nello stesso tempo prende l’avvio e il respiro del romanzo, testimoniando come si possano raccontare vicende reali, vissute, sofferte, godute, con l’immediatezza e la sincerità che è vanto di coloro che non giocano nell’impegno, né alla bella scrittura. Quelli che compongono il romanzo eterno della vita” (quarta di copertina del libro, testo di Davide Lajolo).

Il libro copre un lungo arco temporale, dalla nascita di Giorgio Amendola (1907) alla scelta dello stesso, quando decide, nel 1929, di iscriversi al Partito Comunista, l’unico per lui, che al momento poteva garantire una qualche probabilità di vittoria contro il Fascismo. Lasciamo parlare ancora Davide Lajolo, tanto è chiara la sua recensione:” In questo libro si alzano volti della politica e della letteratura, antifascisti e fascisti; erompono passioni e dubbi, azioni di battaglia e violenze vergognose. Si assiste, pagina per pagina al formarsi e al trasformarsi di un carattere, a come un ragazzo diventa uomo. Sincerità e spontaneità scoppiano anche quando narra le esperienze sentimentali, non escluse quelle intrise dalla volontà di scegliere la sua strada. Così le stravaganze (spie di un dramma sofferto) della madre sono trattate con una umanità toccante che colpisce il lettore.

Amendola ricorda, ma il suo non è un tornare indietro nel tempo, non è un rincorrere nostalgie; è un ieri rivissuto con tensione attiva. Croce, Nitti, Emilio Sereni, Colorni, i fratelli Rosselli, Bracco, Gorki, Stefan Zweig, Moravia, Marinetti, Ciano, le cose di Francia e d’Italia: pagine umanissime, trame politiche riscoperte in tutta la loro verità. Il volto del fascismo è definito al suo nascere, una volta per sempre, con il tono pacato di uno storico che ha vissuto ogni istante il dramma ed è riuscito a cogliere anche il significato delle ombre. Su tutte, si alza più alta la figura del grande Giovanni Amendola, perché il figlio riesce a liberarla dall’agiografia, a dirne i difetti e non solo le virtù, a scoprirne interamene l’anima oltre la dirittura morale, il rapporto padri e figli tanto dibattuto in discussioni che non finiranno mai, qui ha una dimensione esemplare. È un libro ossessivo perché in ogni pagina è rivelazione, riflessione, scoperta. È davvero la spiegazione di una scelta di vita” (Davide Lajolo).

La breve recensione di Davide Lajolo è un invito a leggerlo per chi non l’ha mai letto. Chi l’ha letto molti anni fa per la prima volta, dovrebbe rileggerlo, per riavvolgere, come in un film a passo ridotto, anche la propria storia personale e collettiva, a livello sociale e politico. Ideali, illusioni, tradimenti, amarezze, sconfitte, ripartenze nella propria vicenda umana, sentimentale, lavorativa. Sono 265 pagine che si leggono tutte d’un fiato perché sono vicine al cuore del lettore. I libri si leggono per trovare il senso del proprio cammino nella vita.

Nelle prime pagine, dopo aver parlato delle origini lontane della famiglia Amendola, l’autore traccia un ritratto della madre: “Su questa famiglia di piccola borghesia meridionale, poverissima, emergente con mille fatiche per conquistare migliori posizioni economiche e sociali, piombò devastatrice l’intrusa, la russa, mia madre” (pag. 14). Chi legge può pensare ad una valutazione non certo lusinghiera di un figlio verso la propria mamma. Non è così. Giorgio Amendola rimproverava alla mamma certe stravaganze artistiche e letterarie, ma l’amava con affetto filiale. Nel pieno della tragedia che si abbatte sulla famiglia con la morte del padre, la mamma inizia a manifestare dei disturbi mentali che la porteranno al ricovero in una clinica romana. Giorgio Amendola, il più grande dei quattro figli (Giorgio, Adelaide, Antonio, Pietro), segue da lontano il decorso della malattia della mamma, che, guarita, tornerà alla vita attiva con tutte l’energia che aveva. Scrive, traduce dal russo, collabora con giornali e riviste. Nata a Vilnius, in Lituania, Eva Oscarovna Kün, era dotata di una cultura cosmopolita. Conosceva e padroneggiava il russo, tedesco, inglese, francese, romeno e italiano.

Seguono le pagine dedicate alla spensierata fanciullezza di Giorgio Amendola nella casa romana di via Paisiello, la prima guerra mondiale, la partenza del padre pe il fronte, il suo ritorno, la nuova casa in via Porta Pinciana, sempre a Roma, le vacanze passate a Capri. L’adolescenza di Giorgio Amendola è come dice lui stesso, disordinata, trascorsa in città diverse, per il lavoro di giornalista del padre. Per un periodo, nel 1919, abita a Milano, dove frequenta la prima classe del ginnasio Torquato Tasso, in via Sicilia. Il rapporto con la scuola non fu sempre facile per il giovane Giorgio Amendola. Riportava sempre qualche materia da riparare nella sezione di settembre, prima dell’inizio del nuovo anno. Questo non gli precluse di portare a termine gli studi regolarmente, di iscriversi all’università e di laurearsi in Giurisprudenza, nel 1930, a Napoli, con una tesi di economia politica. Il padre, giornalista apprezzato del Corriere della Sera, pima di diventare deputato, nel 1919, eletto nelle file dei liberali democratici, cambiò più volte la residenza per motivi di lavoro: Firenze, Milano, Napoli, Roma. Gli amici di suo padre, da Giustino Fortunato, a Luigi Albertini, divennero anche suoi amici e protettori, quando si abbatté la tragedia sulla propria famiglia.

Arriva la marcia su Roma del fascismo. Scrive Giorgio Amendola: “Avevo quindici anni. In quelle settimane dell’autunno 1922 si decise il mio avvenire. E oggi che scrivo di quei tempi, dopo cinquant’anni, personalmente non me ne rammarico davvero. Forse senza il fascismo, il lato torpido e pigro del mio carattere avrebbe preso il sopravento, e io sarei cresciuto, malgrado la severità paterna, come il solto “figlio di papà” che trova facilmente la via aperta davanti a sé. Il fascismo e la precoce iniziazione alla lotta, poi l’assassinio di mio padre, e lo smembramento della famiglia, con mia madre sempre rinchiusa in una casa di salute, mi misero alla prova e mi obbligarono a tirare fuori quello che avevo di buono, soprattutto una testarda volontà” (Ibidem, pp.65- 66). Il padre, Giovanni Amendola, subisce una prima aggressione fascista il giorno di Santo Stefano del 1923. Timoroso che potesse succedergli qualcosa di brutto, Giorgio Amendola, dovendo uscire anche lui, manifesta al padre l’intenzione di accompagnarlo, ma “una sua occhiataccia mi fermò in casa”.  Ad informarlo dell’accaduto ci pensa Fabrizio Sarazani che aveva osservato dalla finestra della propria abitazione l’aggressione fascista, senza poter far nulla: “Mio padre avanzava svelto, quando alcuni individui scesi da un’automobile, che aveva continuato lentamente a seguirlo, raggiunsero Amendola e lo colpirono con dei manganelli. Pochi colpi alla testa, dati alle spalle, e Amendola cadde a terra. Alla scena era accorsa gente, gridando e dando l’allarme. Allora gli individui erano ripartiti in gran fretta. Qualcuno, però, aveva preso il numero della targa. Amendola era stato portato all’ospedale San Giacomo e là io corsi subito, accompagnato da Fabrizio, mio amico e compagno di scuola. Mio padre era già stato educato, aveva la testa fasciata ed era stato giudicato guaribile in quindici giorni” (Pag. 81).

All’Università Giorgio Amendola entra a far parte “dell’Unione goliardica per la libertà, un’associazione universitaria antifascista, chiaramente politica e non corporativa” (pag. 94). Proprio dentro questa organizzazione Giorgio Amendola conosce Galeazzo Ciano, il classico figlio di papà: “Galeazzo Ciano era un giovane aperto, intelligente, e aveva una gran voglia di pacere, di essere ammirato. Con me accentuava il suo distacco dal fascismo, come se la sua fosse una posizione obbligata. Se avesse potuto decidere liberamente – aveva l’aria di dire – sarebbe stato dalla nostra parte. Un giorno gli chiesi, con la mia consueta brutalità, perché se la pensava così, non si staccava dal fascismo. Fossi matto, mi rispose. Con mio padre ministro e membro del Gran Consiglio ho la carriera assicurata. Per te è un’altra cosa, devi restare dalla parte di tuo padre. Ho spesso pensato a quella manifestazione di scoperto cinismo. La sua carriera è finita drammaticamente a Verona e io sono qui a scrivere, ormai vecchio, i miei ricordi lontani. È proprio vero che i furbi non fanno mai carriera, proprio quella carriera che sembra essere lo scopo della loro vita” (pag. 98).

Giovanni Amendola, nel clima di guerra civile che si respirava per le strade e le piazze di Roma e non solo, invitava il figlio a non fare ragazzate, perché le avrebbe pagate care. Giorgio Amendola non la pensava allo stesso modo. Viene arrestato il 26 giugno 1924 nel corso di una manifestazione di popolo, diretta verso il lungotevere Arnaldo da Brescia, il luogo dove il 10 giugno dello stesso anno era stato rapito Giacomo Matteotti, che aveva tuonato, in parlamento, contro il fascismo, chiedendo l’annullamento delle elezioni per i brogli elettorali e le violenze esercitate dal fascismo ai danni di cittadini che non avevano potuto votare liberamente. Giorgio Amendola, appena diciassettenne, promuove un tentativo di forzare il cordone formato dai carabinieri che intervengono immediatamente: “Avendo io promosso un tentativo di forzare il cordone, fui fermato e inviato al commissariato di pubblica sicurezza di via Flaminia. Mi schedarono, mi tolsero la cravatta, la cinghia, le stringhe e mi buttarono in una cameretta oscura, gremita di altre persone fermate. In camera di sicurezza ci restai poco. Dopo meno di un’ora fui chiamato fuori e trovai Enrico Molé che aveva ottenuto la mia liberazione e la distruzione del verbale di arresto. Rimasi mortificato, subivo un trattamento di favore perché ero figlio di Amendola. La sera mio padre mi chiese, secco, che cosa avevo combinato. Stai attento, finirai col far perdere tempo a della gente che deve lavorare. Io al posto di Molé ti avrei lasciato dentro per tutta la notte. Un’altra volta non contare su di un intervento provvidenziale. Rimasi in silenzio, confuso e imbarazzato” (pag. 96).

Ma Giorgio Amendola non demorde, nonostante i consigli del padre. Affronta un gruppo di fascisti che gli intimano di togliersi la cravatta perché di colore rosso: “Porto la cravatta che voglio; basta con le prepotenze, disposi. Alzarono i manganelli, ma intervennero altri a consigliare prudenza” (pag. 106). Ciò che fa infuriare Giorgio Amendola nell’estate del 1924 è l’inazione di quanti si dichiaravano antifascisti, ma non facevano niente: “Io non condividevo le critiche dei miei coetanei, perché ero troppo convinto  della mancanza, anche nell’estate del 1924, dele condizioni che avrebbero potuto permettere un moto vittorioso dal basso; dall’altra parte la critica di chi si pretendeva saggio mi disgustava perché trasudava troppa paura e il rammarico dei vecchi trasformisti di essersi fatti sorprendere, per errore di calcolo, in quella posizione ormai praticamente perdente” (pag. 114).

Dopo un secondo tentativo di pestaggio ad opera dei fascisti, fortunosamente sventato per l’intervento di un commissario di pubblica sicurezza e di numerosi agenti, Giovanni Amendola non poté nulla contro il barbaro e vile agguato della canea fascista a Montecatini, dove si era recato per le cure termali nell’estate del 1925. Morirà in Francia, a Cannes, nell’aprile dell’anno dopo per le manganellate ricevute, Giorgio Amendola sostiene per un tumore, causato dalle botte subite. Giovanni Amendola verrà seppellito momentaneamente in Francia. La sua salma verrà portata in Italia negli anni successivi. Nel febbraio 1926, viene ricoverato ma su un piano diverso, nella stessa clinica Piero Gobetti. “Gobetti era gravemente malato ed era giunto dall’Italia in un disastroso stato di salute, conseguenza delle condizioni creategli a Torino in applicazione delle direttive inviate da Mussolini al prefetto di quella città di rendergli la vita impossibile. Così nella stessa clinica, seppure separati, si trovavano morenti Giovanni Amendola e Piero Gobetti, due uomini che, con diverse motivazioni, rappresentavano una intransigente volontà di riscatto sociale “(pp. 137- 138).

Il riscatto avverrà ma molto tempo dopo, con la resistenza in Italia, per quello che era possibile fare con la repressione antifascista all’opera, ma soprattutto all’estero, in Francia, in Svizzera, in Unione Sovietica e con la guerra civile spagnola. La sconfitta dell’Italia nella seconda guerra mondiale, la guerra civile, la resistenza armata contro il fascismo e il nazismo saranno le premesse per scrivere altre pagine di storia italiana. Giorgio Amendola, Piero Terracini, Amedeo Bordiga, Pietro Nenni, Palmiro Togliatti, Giuseppe Saragat, Sandro Pertini, Alcide De Gasperi e altri saranno i protagonisti di questa nuova Italia.

L’insegnamento di Giovanni Amendola – che la volontà è il bene – s’illumina della luce del suo martirio – e lo raccolgano i giovani – sicuri che solo dal sacrificio – nascerà la giustizia dell’avvenire” È la targa che gli amici di Giovanni Amendola mettono nella stanza della redazione del Mondo, dove Giovanni Amendola aveva lavorato. Giorgio Amendola raccoglie il testimone, si butta nella lotta clandestina contro il Fascismo prima, il Nazismo dopo per la nascita di una nuova Italia e di una nuova Europa. Gli amici del padre volevano che continuasse la militanza politica nel partito liberale. Giorgio cerca nuove strade. Ritorna a Napoli, come disponeva il padre nel suo testamento, nominando lo zio Mario, tutore della famiglia Amendola, assieme a Luigi Albertini. Allaccia rapporti con Arturo Labriola, Benedetto Croce, Roberto Bracco. I fascisti distruggono e devastano ripetutamente le loro abitazioni e i loro studi professionali. Conosce Emilio Sereni di cui diventa amico e compagno di lotta negli anni successivi. Pratica lo sport per sviare anche la sua irrefrenabile volontà cospirativa e di lotta al fascismo. Col tempo si convince sempre più che il Partito Comunista è il più attrezzato per combattere il fascismo, anche perché gode dell’appoggio di Mosca e dell’Unione Sovietica. Ma anche su questo versante deve vedersela con le lotte interne al Partito Comunista russo. Visto che gli è impossibile combattere il fascismo in Italia, si rifugia in Francia per allacciare i rapporti con la grande concentrazione antifascista. Conosce il movimento di Giustizia e Libertà dei fratelli Rosselli, ma sceglie di iscriversi al partito Comunista Italiano.

Raimondo Giustozzi

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