“… Il mondo ribolle durante il settennato di Saragat. Dalla sua amata Parigi arriva il maggio francese, la ventata di proteste studentesche e operaie. I fatti di Praga, con i sovietici che annientano l’esperimento di Dubĉek, creano scompiglio nella sinistra prima ancora che nel Paese. Ma sono anche i tempi in cui arrivano le minigonne e i bikini, i Beatles e i Rolling Stones, Joan Baez canta We Shall Overcome. Arrivano i primi spinelli e forse sono l’effetto collaterale della guerra in Vietnam, altro tema sconvolgente per l’assetto del mondo. Poi la droga diventerà ben altro. In Cina Mao Tse- Tung realizza la rivoluzione culturale e il libretto rosso diventa uno status symbol anche da noi. In Italia si comincia a parlare di aborto e il divorzio arriverà con una legge che spacca il Paese. Arriverà anche lo Statuto dei lavoratori nel ’70. La Nasa va sulla luna. De Gaulle esce di scena in Francia e sbatte la porta” (Alberto Orioli, dodici presidenti, vite da Quirinale da De Nicola a Mattarella, pag. 129, Il Sole 24 Ore, 2021).
Per ogni presidente della Repubblica Alberto Orioli fa riferimento al contesto storico in cui si dipana il settennato della persona, chiamata a reggere la presidenza della Repubblica da Enrico De Nicola a Sergio Mattarella. L’autore delinea di ogni presidente eletto le caratteristiche umane, i ruoli pregressi ricoperti nel Parlamento italiano o in altre istituzioni del Paese, i rapporti con i partiti di maggioranza o di opposizione, il ruolo avuto nelle crisi di governo, gli scrutini occorsi per la propria elezione.
“Quella dei presidenti è la storia di un potere che non vorrebbe esserlo, ma che assume contorni estensibili a seconda delle circostanze istituzionali indotte dal peso del Parlamento e del Governo. Il presidente della repubblica è arbitro, garante, predicatore, suggeritore. Può oscillare tra un “re travicello”, definizione citata da Vittorio Emanuele Orlando nella discussione alla Costituente, e un “capo spirituale della Repubblica”, espressione di frontiera usata nel ’47 in un celebre discorso da Meuccio Ruini, presidente della Commissione dei 75. Il Presidente è regista delle crisi o custode della Carta costituzionale, esercita un potere neutro, ma può spingersi fino alla Colonne d’Ercole dell’applicazione presidenzialista della Costituzione”.
“Ma il Capo dello Stato è, innanzitutto, una persona e porta nel ruolo: carattere, inclinazioni, esperienze, credo e cultura. I 12 capitoli del libro altro non sono se non il racconto di 12 uomini e del loro sforzo di farsi istituzione. Dal pudore che orientò i primi passi istituzionali di Enrico De Nicola, monarchico fervente, all’ansia interventista di Giovanni Gronchi, tanto presente con una sua politica estera da creare imbarazzo al Governo, fino alla forza tranquilla ma inesorabile con cui Sergio Mattarella ha esercitato il suo mandato in tempi di difficilissima gestione delle crisi parlamentari. Dall’impronta frugale e rigorosa di Luigi Einaudi alle gaffe di Giovanni Leone al picconatore Francesco Cossiga che aveva capito la caduta del muro di Berlino. Dal pessimismo profondo di Antonio Segni al vitalismo di Sandro Pertini. Dal patriottismo dell’ex condannato a morte Giuseppe Saragat all’idea di patria moderna di Carlo Azeglio Ciampi; dalla laicità dello Stato difesa dal cattolicissimo Oscar Luigi Scalfaro all’idea di Stato liberale ed europeo propugnata dall’ex comunista Giorgio Napolitano.
Ogni presidente, alla fine, deve mettere in gioco la propria personalità, che emerge chiara ben oltre ogni cerimoniale e al di là di ogni struttura protettiva di consiglieri e consulenti. E ripercorrere la cronaca del settennato in settennato significa, alla fine, avventurarsi nelle scelte che la coscienza e l’indole dei diversi Capi dello Stato hanno reso possibili. Con un obiettivo comune, pur tra mille diversità: l’interesse del Paese e l’unità della nazione. Retorica? Forse, ma con le cose del Quirinale la retorica c’entra. Perché è il giusto abito di parole con cui si veste in genere l’istituzione” (Alberto Orioli, fonte Internet). Il saggio Dodici Presidenti, vite da Quirinale da De Nicola a Mattarella consta di 340 pagine, compresa una ricca bibliografia. Si legge tutto d’un fiato, linguaggio da giornalista affermato come lo è l’autore Alberto Orioli, vicedirettore e editorialista del Sole 24 Ore. Il libro è ricco di aneddoti, alcuni conosciuti, altri meno noti, che hanno il potere di spezzare il racconto quando si fa troppo impegnativo. A titolo di esempio ho scelto di recensire il capitolo dedicato a Sandro Pertini, forse il presidente più amato dagli italiani.
Sandro Pertini, il presidente della TV
Sandro Pertini (Stella – Savona 25 settembre 1896 – Roma 24 febbraio 1990) viene eletto presidente della Repubblica l’otto luglio 1978 al sedicesimo scrutinio, con 832 voti su 995, corrispondenti all’82,3% la più larga maggioranza della storia repubblicana. Pertini eredita un’Italia disorientata e smarrita. Il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro, ritrovato cadavere il 9 maggio 1978, dopo 55 giorni di prigionia, nel portabagagli di una Renault 4 rossa, in via Caetani, a Roma, a metà strada tra le sedi della DC e del PCI, poneva fine al compromesso storico e all’ultima fase del settennato, ricoperto dal Presidente Giovanni Leone, costretto a dimettersi, per un presunto scandalo, pochi mesi prima della scadenza del proprio mandato (1971 – 1978).
Sandro Pertini diventa il presidente della Televisione, sia nei giorni fausti e in quelli infausti. Tra questi ultimi è da ricordare il dramma di Alfredino Rampi, il ragazzino di Fiumicino, che cade in un pozzo nel frusinate. L’Italia tutta partecipa al dolore attraverso una diretta televisiva. Sandro Pertini si precipita nel posto. Parla con il ragazzo che è nel fondo del pozzo, lo rincuora. Rimane 15 ore in quel campo, notte compresa. Il lieto fine non ci sarà. Il ragazzo muore nonostante tutti i tentativi fatti per aggiungerlo. Era il 13 giugno 1981. Da questo episodio nasce e si afferma la necessità di creare il dipartimento della Protezione Civile, perché “Mai più il Paese debba affidarsi all’improvvisazione o alla generosità dei suoi cittadini, tanto encomiabile quanto dilettantesca” (Alberto Orioli, dodici presidenti, vite da Quirinale da De Nicola a Mattarella, pag. 168, Il Sole 24 Ore, 2021).
“Sandro Pertini è il presidente della TV della gioia quando esulta per la vittoria dell’Italia ai mondiali di Calcio in Spagna dell’82. Si alza in piedi nella tribuna d’onore e diventa incontenibile al terzo gol di Altobelli (dopo aver esultato prima per quelli di Rossi e Tardelli). “Pertini è il presidente della TV personaggio, per la prima volta consapevole di esserlo. Il messaggio di fine anno diventa un colloquio dal caminetto nel vero senso della parola. È il presidente partigiano cantato da Toto Cotugno con una canzone che fa il giro del mondo” (Ibidem, pag. 168).
“Era di famiglia benestante. Nel complesso 13 figli, ma solo cinque arrivati all’età adulta. Lui, Sandro, tre fratelli e una sorella. Un fratello fascista, un altro comunista morto fucilato nel lager di Flossenbürg. Anche questa è la commedia umana. E conta. Conta moltissimo per un uomo come Sandro Pertini, legatissimo alla madre, impulsivo, irascibile perfino. Lascia il liceo classico di Savona a 18 anni nel 1914. Legge tutto Marx e i padri del pensiero socialista. Si sente vicino alla corrente riformista. Chiamato al fronte nella prima guerra mondiale, compie atti di eroismo sull’Isonzo e sulla Bainsizza, ma rifiuta il corso ufficiale. Viene indicato per una medaglia d’argento al valore militare che gli viene negata per appartenenza al partito socialista. Gli viene concessa nel 1985, ma Partini la rifiuta. Terminata la guerra, riprende gli studi, prima la maturità classica, poi la laurea in Giurisprudenza a Genova e a Modena e in Scienze Politiche a Firenze” (pag.169).
In Toscana entra in contatto con Gaetano Salvemini, i fratelli Rosselli e Ernesto Rossi, i principali esponenti dell’interventismo democratico e socialista. Il delitto Matteotti cambia la sua vita. Si iscrive al partito e chiede con insistenza di avere la tessera che abbia la data dell’omicidio. Nel ’24, quando esercita la professione di avvocato nella sua Savona, diventa il bersaglio fisso degli squadristi fascisti. Lo studio viene devastato e lui stesso pestato più volte. Viene arrestato una prima volta mentre sta distribuendo un manifesto dal titolo Sotto il barbaro dominio fascista. Viene condannato a otto mesi. Per la polizia diventa un sorvegliato speciale. Dopo poco tempo viene condannato al confino per cinque anni. Evade dal confino, si dà alla clandestinità e accompagna il vecchio socialista riformista Filippo Turati, in Francia dopo una rocambolesca fuga via mare. Viene condannato a 10 anni in contumacia. In Francia si piega a fare tutti i lavori per sopravvivere: pulitore notturno di automobili, manovale, imbianchino, muratore.
Stanco dell’esilio francese, rientra in Italia per darsi alla lotta antifascista ma è subito riconosciuto e condannato dal Tribunale Speciale a 10 anni e otto mesi. Alla lettura della sentenza urla con quanto fiato aveva in gola: “Viva il socialismo, abbasso il fascismo”. Viene rinchiuso nel carcere di Santo Stefano, situato nell’arcipelago delle isole Ponziane; nel ’31 viene trasferito nel carcere di Turi perché malato ai polmoni, proprio qui conosce Antonio Gramsci con il quale ha modo anche di litigare per alcune parole che Gramsci aveva detto su Claudio Treves e Filippo Turati. Pertini ha la polmonite e finisce a Pianosa, dove rimane per quattro anni fino al 1935. Dal carcere ha parole di fuoco all’indirizzo della propria mamma che aveva inoltrato domanda di grazia per liberarlo. Pertini si dissocia dalla lettera: “La comunicazione, che mia madre ha presentato domanda di grazia in mio favore, mi umilia profondamente”.
Da Pianosa viene trasferito nell’isola di Ponza dove conosce Giorgio Amendola e altri esponenti del Partito Comunista. In tutta la propria vita Sandro Pertini era animato da un forte orgoglio di partito, come faceva anche Giorgio Amendola che così ricorda il compagno di prigionia: “Ad ogni nuovo arrivo di confinati egli correva alla banchina per vedere se c’erano dei socialisti. Quando si accorgeva invece che si trattava di comunisti, chiedeva furente: “Ma che cosa fa il mio partito? Cercavo invano di consolarlo dicendogli che se non arrivavano confinati socialisti, era perché questi lavoravano bene e non si facevano prendere dalla polizia” (Giorgio Amendola, Un’isola, pag. 177, Rizzoli Editore, Milano 1980).
Dall’isola di Ponza viene trasferito alle isole Tremiti dove minaccia lo sciopero della fame, gesto che gli vale lo spostamento nell’isola di Ventotene. Torna libero nel ’43, un mese dopo la caduta del fascismo. Morde il freno ma è impaziente di agire. Crea a Roma la prima struttura militare socialista e nella battaglia di Porta San Paolo, combattuta con i granatieri contro le truppe tedesche, si segnala per il suo coraggio, disselciando, come scriverà, perfino le strade per farne dei sassi da lanciare contro gli occupanti, mancando le armi, quelle vere. Arrestato, viene rinchiuso con Giuseppe Saragat a Regina Coeli, nel braccio della morte. Dopo una rocambolesca liberazione, messa in atto da un gruppo di antifascisti, va al nord dove inizia a combattere in montagna con le formazioni partigiane. Il giorno dopo la liberazione sarà a Milano dove terrà il primo comizio in piazza del Duomo con tanto di annuncio dato alla radio sulla liberazione della città.
Sandro Pertini vestiva sempre in modo inappuntabile. Negli anni di carcere, del confino e del lavoro precario, da muratore, in Francia non aveva mai perso la dignità. La resistenza morale verso il fascismo era fatta di disciplina, studio, ginnastica, ma estrema cura di sé, del proprio aspetto e della propria igiene. Era chiamato arbiter elegantiarum, anche quando era costretto ad indossare l’uniforme carceraria, sempre perfettamente stirata; dopo averla piegata, la metteva sotto il cuscino perché mantenesse la piega. “Ha il piglio di chi sa di aver sacrificato la giovinezza per quella stessa idea di democrazia e libertà che ha il privilegio di poter vivere dopo la liberazione con tutti gli italiani, ma sa anche che quello stesso paese nel quale vive, libero e democratico, gli deve qualcosa” (pag. 175). Il Paese è disposto anche a soprassedere ad alcuni suoi scatti di nervi.
Pertini era impulsivo e irruento. È passata alla storia la sfuriata in diretta televisiva contro i ritardi nei soccorsi dopo il terremoto dell’Irpinia (23 novembre 1980). Una devastazione che costa tremila morti e 280 mila sfollati. Le dure parole del Presidente della Repubblica causarono l’immediata rimozione del prefetto di Avellino Attilio Lobefalo e le dimissioni (in seguito respinte del ministro dell’interno Virginio Rognoni” (Fonte Internet, Wikipedia). Anche se i politici l’avevano eletto con l’idea di portare al Quirinale un nonno, influenzabile e ingenuo, Pertini persegue un proprio disegno politico: portare a Palazzo Chigi un laico. È Giovanni Spadolini infatti che forma un governo che dura un biennio 1981-82 compreso un governo bis. Si accorge immediatamente che la Loggia Massonica P2, scandalo scoppiato nel 1981 sotto il governo presieduto a Arnaldo Forlani, inquina le Istituzioni. Non usa mezze misure: “Nessuno può negare che la P2 sia un’associazione a delinquere”, tuona, anche se ci tiene a distinguere la devianza della Loggia di Licio Gelli dalla Massoneria propriamente intesa (pp. 182 – 183 – 184).
Caduto il governo Spadolini, Pertini ricorre al vecchio cavallo di razza in casa della Democrazia Cristiana, Amintore Fanfani, che passa alla storia per l’accordo con Vincenzo Scotti, ministro del lavoro che nel 1983 taglia del 15% la scala mobile. Le elezioni del 1983 portano la DC al 32,9% e il PCI al 29,9%, i socialisti restano all’11%, il Pri sconta l’effetto Spadolini e sale al 5,1 per cento. Bettino Craxi, diventato l’arbitro della contesa tra DC e PCI, viene incaricato da Pertini a formare l nuovo governo. L’intesa del segretario del PSI, Bettino Craxi con Ciriaco De Mita era di ipotizzare la cosiddetta staffetta: prima un Governo a guida socialista, poi un altro a guida democristiana. Il leader socialista non sarà di parola sulla staffetta. Ricevuto l’incarico, Craxi si presenta al Quirinale in blue jeans. Pertini lo gela: “Torna più tardi, con un vestito più adatto”. Craxi torna con un vestito blue e cravatta rossa. Alla morte del segretario del PC Enrico Berlinguer (11 giugno 1984) a Bettino Craxi e a Claudio Martelli che rimproverarono Sandro Pertini di aver accolto sul proprio aereo presidenziale la salma del leader comunista, gesto che a detta dei due avrebbe portato voti al PCI, Sandro Pertini, rispose: “Voi due fate una cosa. Tornate a Verona, suicidatevi sulla tomba di Giulietta e io vi porto in aereo a Roma. Vediamo se il Psi prende voti”.
Pertini, durante il suo settennato diventa il presidente dei funerali. Le Brigate Rosse uccidono Carlo Casalegno vicedirettore del quotidiano La Stampa a Torino, il colonnello Antonio Varisco, i magistrati Fedele Calvosa e Girolamo Tartaglione, il professore Alfredo Paolella, il sindacalista della CGL Guido Rossa, il giornalista Walter Tobagi, il giudice Emilio Alessandrini, il dirigente della FIAT, Carlo Ghiglieno, solo per citarne alcuni, rispetto alla tragedia di quegli anni. “Pertini non userà mezzi termini nell’accusare infiltrazioni e appoggi da parte dei servizi segreti dei Paesi dell’EST. Gli costerà una polemica dura con le ambasciate di quei paesi” (pp. 180- 181). In occasione dei funerali del sindacalista Guido Rossa, Sandro Pertini tuonò: “Non sono qui come presidente, sono qui come Sandro Pertini, vecchio partigiano e cittadino di questa Repubblica democratica e antifascista. Io le Brigate Rosse le ho conosciute tanti anni fa, ma ho conosciuto quelle vere che combattevano i nazisti, non questi miserabili che sparano contro gli operai” (pag. 180). Non si contano poi le stragi di mafia, sempre durante il suo settennato, con la morte di Pier Santi Mattarella, Pio La Torre, Carlo Alberto Della Chiesa, Giangiacomo Ciccio Montalto, Rocci Chinnici.
Il culmine di quegli anni di fuoco viene raggiunto con la strage alla stazione di Bologna (02 agosto 1980) che causò 85 morti e 200 feriti, il momento più tragico della strategia della tensione. Pertini accorre sul luogo dell’attentato nel primo pomeriggio. Si aggira tra le macerie e stizzito chiede al codazzo che lo segue di fare largo per consentire al camion pieni di macerie di defluire. Davanti alle telecamere dichiara: “Cosa volete che vi dica! Non ci sono parole per esprimere il mio stato d’animo. Ho visto due bambini nella camera di rianimazione, uno era ferito, ma l’altra, una bimba, sta morendo. È una cosa straziante” e scoppia in un pianto incontenibile (pag. 181).
Per terminare questa scheda su Sandro Pertini mi piace terminare con quanto disse nel discorso di investitura quale presidente della Repubblica: “L’Italia, a mio avviso, deve essere nel mondo portatrice di pace: si svuotino gli arsenali di guerra, sorgente di morte, si colmino i granai, sorgente di vita per milioni di creature umane che lottano contro la fame. Il nostro popolo generoso si è sempre sentito fratello a tutti i popoli della terra. Questa la strada della pace che noi dobbiamo seguire”. Le parole di Sandro Pertini vanno ripensate nel pieno di una guerra devastante che dura da più di due anni, scatenata dalla Federazione Russa contro l’Ucraina. Da un lato c’è un invasore, la Russia, dall’altro una nazione invasa, l’Ucraina, trattata dal proprio vicino di casa come una “pura espressione geografica”. La sovranità dell’una deve far tacere la sovranità dell’altra, quando non le ruba anche il grano per venderlo come proprio. La cessazione delle ostilità deve assicurare la pace e la giustizia soprattutto verso il popolo ucraino.
Certi raggruppamenti politici europei, che si fanno chiamare “Patrioti”, tra i quali ci sono anche partiti politici italiani, francesi e ungheresi, dovrebbero rileggere quanto diceva Sandro Pertini nel prosieguo del discorso pronunciato nel giorno dell’insediamento: “Libertà e giustizia sociale costituiscono un binomio inscindibile. Non posso, in ultimo, non ricordare i patrioti coi quali ho condiviso le galere del tribunale speciale, i rischi della lotta antifascista e della Resistenza. Movimento posso non ricordare che la mia coscienza di uomo libero si è formata alla scuola del movimento operaio di Savona e che si è rinvigorita guardando sempre ai luminosi esempi di Giacomo Matteotti, e Piero Gobetti, di Carlo Rosselli, di don Minzoni e di Antonio Gramsci, mio indimenticabile compagno di carcere. Ricordo questo con orgoglio, non per ridestare antichi risentimenti, perché sui risentimenti nulla di positivo si costruisce, né in morale, né in politica” (pag. 177).
I Patrioti dei nostri giorni scelgano un altro nome per una loro identità nel Parlamento Europeo. Non mi sembra che i loro politici siano mai stati privati della propria libertà perché condannati da Tribunali Speciali in Italia o in altre parti d’Europa. Amare la propria patria non vuol dire disprezzare o invadere la patria altrui e non riconoscerne la sovranità. La Federazione Russa non lo ha fatto, prima in Georgia con la guerra in Cecenia, poi con l’annessione unilaterale della Crimea, infine con l’invasione su vasta scala dell’Ucraina (N.D.R.).
Bibliografia
Alberto Orioli è nato a Ferrara nel 1962 ed è giornalista professionista dal 1983. Ha frequentato l’Istituto per la formazione al giornalismo (Ifg), è vicedirettore e editorialista del Sole 24 Ore. A lungo capo della redazione romana, è vicedirettore dal 2008 e dal 2010 svolge le sue funzioni da Milano. Si occupa di temi legati alla politica e alla politica economica nonché di lavoro e temi sociali. Ha scritto per Feltrinelli Proposte per l’Italia. Sette protagonisti dell’economia per il paese di domani e per il Sole 24 Ore, Draghi, falchi e colombe con Donato Masciadaro sugli otto anni alla presidenza della Bce di Mario Draghi. Nel 2018 ha scritto Gli oracoli della moneta per il Mulino; per il Saggiatore Non è il paese che sognavo con il presidente emerito Carlo Azeglio Ciampi sui 150 anni dell’Unità d’Italia (2011) (ultima pagina di copertina, risvolto).
Raimondo Giustozzi
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