di Valerio Calzolaio
Il grande regista francese Jean-Luc Godard è morto il 13 settembre scorso. Aveva 91 anni, era nato il 3 dicembre 1930 a Parigi in una famiglia molto benestante, Paul padre medico e Odile madre discendente di banchieri protestanti svizzeri. E appunto studiò in un collegio svizzero, fece il liceo nella capitale francese e ottenne quindi nel 1949 (a meno di 19 anni) un diploma alla Sorbona in etnologia. Tuttavia, litigò coi genitori, andò ad abitare solo nel Quartiere Latino, divenne un precoce cinefilo, cercò di mantenersi con recensioni raffinate e corrosive, visore e commentatore di innumerevoli film presentati all’interno delle cinematografie sonore (da una ventina d’anni) e non solo in bianco e nero (dal dopoguerra), uscite negli anni Quaranta e Cinquanta, soprattutto quelle americana e francese. Fecero scalpore e scandalo le sue cronache e i suoi articoli fra il 1950 e il 1953 su Gazette du cinéma, Arts e soprattutto sul neonato Cahiers du cinéma.
Dopo alcune esperienze di viaggi in cui girava una specie di documentari passò definitivamente dalle recensioni alla macchina da presa, iniziò a cimentarsi coi cortometraggi a soggetto, contribuì in modo decisivo a una svolta nella storia del linguaggio cinematografico, divenne Godard. La filmografia è lunghissima, la bibliografia sulle opere di Godard sterminata; la vita fu esuberante, la biografia studiata nei dettagli e rintracciabile sia in commenti e gossip degli organi suoi contemporanei d’informazione quotidiana sia nelle periodiche ricostruzioni saggistiche di svariati cultori. Redarre un elenco di opere celebri, snodi culturali ed episodi vitali è impossibile. Si possono tralasciare in questo momento gli amori e i matrimoni (spesso in prima pagina), le provocazioni che fece e gli insulti che rivolse, i pronunciamenti politici e culturali sull’attualità (si ricordano risposte sia da maoista che da lepenista), una star sempre bizzarra e un’icona sempre iconoclasta. Tanto più che abbondano giudizi opposti e punti di vista multidisciplinari sulla sua esistenza.
Il primo vero e proprio film di Godard per le sale risale al 1959-1960 (nemmeno trentenne) e viene considerato una svolta nella storia del cinema (insieme alle opere prime degli altri suoi amici), il trionfale e sostanziale inizio della cosiddetta (in tutte le lingue) Nouvelle Vague, un movimento francese di operatori dello spettacolo cinematografico, dalle regie autorali a interpretazioni e produzioni non “convenzionali”, forse sopravvalutato ma certo capace di influenzare tutti gli altri paesi e diventare materia di enciclopedie. Il film era À bout de souffle, “Fino all’ultimo respiro”, soggetto di Truffaut (ispirato a un fatto di cronaca, noir o policier, non a caso), ambientato a costi bassissimi fra Marsiglia e Parigi, sceneggiato esilmente dallo stesso regista (Godard è stato sempre convinto che la sceneggiatura sia l’ultima delle preoccupazioni) con evidenti omaggi al noir americano dei due decenni precedenti, interpretato da Belmondo (l’imprevedibile delinquente Michel) e Jean Seberg (l’innamorata americana Patricia), intessuto di allusioni e citazioni (pratica continua di “metatesti” divenuti poi sempre più imperanti), subito Orso d’argento al Festival di Berlino.
I primi registi a riconoscersi nel movimento furono appunto Truffaut, Rivette, Chabrol, Godard e Rohmer (qui se ne è già un poco parlato), ovvero un gruppo di amici culturali ribelli e “arrabbiati”, con alle spalle migliaia di ore patrascorse al cinema, la conoscenza profonda di centinaia di opere cinematografiche, la stesura di decine di articoli e l’articolazione comune di centinaia di dibattiti intorno a decine di ciné-club della Rive Gauche e alla Cinématheque Française (fondata nel 1936), divenuta dopo la guerra una sorta di videoteca parigina d’art et d’essai per opere allora estranee ai canali ufficiali, che per esempio già comprendevano i film di Rossellini e Hitchcock.
Va sempre tenuto presente il contesto politico e istituzionale, la recente occupazione tedesca e la memoria di Vichy, la transizione costituzionale 1958-1962, la guerra fredda bipolare e la guerra calda d’Algeria, spunti creativi proveniente da vari paesi del mondo occidentale oltre che dalla Parigi molto meticcia dell’epoca. E occorre considerare i caratteri precipui delle varie personalità accomunate dal contrasto polemico al tradizionale “cinema di papà” e dall’esigenza di maggiore realismo: Godard certamente geniale iperattivo sperimentatore, autore d’avanguardia pieno di manie, personali e professionali, ottimo e frenetico realizzatore di quasi un centinaio di film in una produzione lunga circa sessant’anni, tantissime volte premiato in ogni festival (anche con Oscar e Leone d’oro alla carriera).
Come per ogni onda ci vorrebbero velisti e surfisti per segnalare le sfaccettature della Nouvelle Vague, non c’è mai un cominciamento e un termine assoluti, il movimento ne genera altri, i riflessi furono comunque di lungo periodo e internazionali. Quei giovani volevano insieme scompaginare l’aria e l’ordine del vecchio modo di fare film in Francia, guardarono al Neorealismo italiano e all’hard-boiled americano, innovarono le tecniche e gli stili, promossero il cinema per il tramite di letteratura di ogni dove (riscritture più che adattamenti), non furono un collettivo politicamente schierato, tentarono con sincerità e autenticità di confondere e stravolgere ogni storia (sempre contraddittoria e talora irrilevante), costrinsero gli stessi attori a crude ardue esperienze. In presa diretta, rivolgendosi agli spettatori, vecchi e nuovi.
Meglio vederli e rivederli quei film, con curiosità e ironia! Nel caso di Godard può essere forse utile partire pure da una contingenza occasionale (datata inizio 2022). A ciò vale il suggerimento no fiction di visionare un romanzo dedicato a Godard da un bravo scrittore italiano (piemontese), che non poteva certo prevederne con certezza la morte a pochi mesi dalla pubblicazione, un buon modo di fiction per ricordare il grandissimo francese réalisateur de cinéma: Franco Ricciardiello, Torino Nouvelle Vague, Todaro Lugano, 2022, pag. 244 euro 16. Nel romanzo giallo ci troviamo a Torino nell’ottobre 2008.
All’Hotel a cinque stelle Duc d’Aoste et de Chambéry soggiornano molte delle personalità ospiti del festival cinematografico intitolato proprio alla Nouvelle Vague, soprattutto registi, attori e relativi accompagnatori. Il sabato sera nell’affascinante noto Museo del Cinema si svolge la splendente sfarzosa Nuit Blanche, premi e discorsi importanti. Quando tutti insieme tornano in albergo viene assassinata Alma Sofi Jensen Falk, famosa attrice francese 68enne, nata in Svezia e con cittadinanza italiana, da tutti conosciuta come Sophie Alma, il suo primo marito era stato l’immenso anziano Jean-Simon Leclercq, occhiali dalla montatura di celluloide nera e pochi capelli grigi pettinati in tutte le direzioni, anche lui presente con la nuova compagna.
Sulla scena del delitto arrivano presto i poliziotti, il cadavere si trova nell’ampia stanza all’ultimo piano, medico legale e scientifica compiono le iniziali verifiche, prima dell’alba prende in mano la situazione il commissario Mauro Ferrando, i giornalisti non sono ancora arrivati ma non tarderanno. Cercando nel giardino sotto le finestre del ristorante, Mauro trova la probabile arma del delitto, la statuetta consegnata dal festival all’attrice poche ore prima, e domenica mattina presto va a Palazzo di Giustizia per parlare con il Procuratore, che assegna il caso al più caro amico e coetaneo di Mauro, Erasmo Mancini, da luglio tornato a vivere e lavorare a Torino (dopo otto anni a Roma con la moglie), ormai consensualmente separato e capace il mese prima (in ferie) di risolvere comunque due rapimenti di minori e un omicidio (oltre che di cominciare a stendere un libro sulle canzoni di Battisti), appassionato di cinema e indefesso lavoratore.
Anche il 36enne pubblico ministero ‘Rasmo Mancini era andato alla Notte Bianca, per accompagnare la giovane traduttrice (dal e verso cinese e giapponese) Marina Cattani, aveva pure fuggevolmente incontrato l’attrice uccisa sul belvedere che sorregge la guglia della Mole Antonelliana. È tutto un programma… tanto più che molti sono convinti che il colpevole sia Leclerq, ossia Godard! L’ottimo poliedrico scrittore Franco Ricciardiello (Vercelli, 1961) voleva esplicitamente realizzare un omaggio a Jean-Luc Godard e ci riesce. Il suo romanzo è narrato in terza persona su Erasmo (alcune scene su Mauro, in parallelo, la soluzione spetterà a entrambi) e centra l’obiettivo di farci conoscere e innamorare meglio dell’arte cinematografica del regista appena (realmente) scomparso.
I titoli dei quindici capitoli del romanzo riprendono i titoli di opere cinematografiche da lui dirette, da À bout de souffle a Un film comme les autres; poi l’indagine impone di vedere o far tornare alla memoria innumerevoli sue scene, raccontate con cura e precisione. I dialoghi spesso surreali fra i protagonisti e il regista sono in linea con i personaggi creati nella relativa cinematografia (Mancini era vissuto a Parigi e parla bene francese, meno l’inglese). Leclerq è appunto Godard, praticamente ogni straordinaria risposta agli interrogatori più o meno formali è tratta da sue interviste e dichiarazioni.
Vengono ripercorsi gli elementi salienti nel rapporto d’amore del grande regista con le tre ufficiali mogli attrici e le sue invenzioni per adattare il linguaggio cinematografico alle loro personalità, il bianco e nero, le pellicole fotografiche, gli effetti sorprendenti; emergono gli aneddoti personali e professionali nelle varie fasi della regia, il suo racconto interpretativo di alcuni film realizzati. “Qualche anno fa ho coronato un mio sogno: quello di un film in cui ogni battuta di ogni attore fosse una citazione presa da un libro. Adesso ne nutro un’altra: quella di esprimermi unicamente con parole di altri, non solo nei miei film ma ogni giorno e in ogni occasione. Che bisogno abbiano di inventare nuovi modi di dire cose che altri hanno già scritto in maniera infinitamente migliore?” Ecco, giusto per capire il tipo!
Leclercq risponde così a chi lo interroga o intervista: “Da quando il Cinema è nato, ha sempre raccontato due sole storie, il sesso e la morte”. E “molti miei colleghi vivono la vita come se fosse uno dei loro film; io al contrario da quando ho cominciato a lavorare ho sempre girato un solo, lunghissimo film. Diviso in diversi episodi”. Anche l’ultimo è un episodio. Jean-Luc Godard è morto nella sua casa di Rolle in Svizzera, da tempo si era isolato sul lago Lemano. Aveva certo patologie invalidanti ma nessuna particolarmente grave, si sentiva sempre esausto e soffriva acutamente di vecchiaia. Ha scelto il suicidio assistito. In uno dei suoi ultimi film (Notre musique, 2004) aveva inserito una significativa citazione di Albert Camus. “C’è un solo problema filosofico veramente serio: il suicidio”. Non a caso, quasi a metà del romanzo di Ricciardiello, quel tipo di regista (no fiction) sceglie di confessare l’omicidio e Mancini capisce che non è né plausibile né vero, lui il giudice investigatore pubblico ministero che risulta il curioso protagonista del volume di fiction.
Erasmo Mancini va elegante e comodo in bicicletta (se può), evita i giornalisti e le telecamere, non beve alcolici, scrive di musica, non ha un televisore. Il suo bell’aspetto spicca oltremodo: ogni donna gli sorride e lo brama, molte e belle lo insidiano. Il meditato metodo investigativo scelto è accumulare quante più informazioni possibili, tentare collegamenti incrociati e aumentare le probabilità di incappare nell’indizio casuale che può aiutare. Così studia eventuali casi analoghi di femminicidi o violenze da parte di gente famosa (e li rileggiamo con lui) e non gli sfugge che c’è stato anche l’annegamento nel Po di un uomo con fisionomia scandinava o svedese.
Mancini era già apparso in un precedente romanzo pubblicato da Ricciardiello alcuni fa (Cosa succederà alla ragazza, Marco Cordero Editore, 2014) ambientato poco più di un mese prima rispetto a quello su Godard-Leclercq (il caso affrontato nel primo risale poi indietro di altri dieci anni). Qui, Erasmo continua a essere attratto da Marina, vivono da settimane una storia segreta (vegetariana), hanno fatto il patto di non nascondersi mai nulla, ma anche lei piace e deve pure testimoniare in un processo nel quale lui sostiene l’accusa (appunto il caso precedente, brillantemente risolto), non si potrebbe. Inoltre, Mancini è davvero assorbito dal lavoro, come Ferrando soffrono di terrore del vuoto e di alta febbre del fare. Insomma, una lettura gradevole, tanto più che la giornalista intraprendente si ubriaca col Beaujolais, mentre Erasmo ricomincia a gustare il bicerin col cioccolato fondente. Non una colonna sonora, piuttosto tante musiche diverse ben scelte, infine la soluzione sta negli Abba.
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