L’Autunno è la stagione che più di ogni altra invita alla riflessione. Il giorno dei morti cade proprio in questo periodo dell’anno. Le giornate si accorciano e le ombre della notte arrivano presto. Anche il momento che stiamo vivendo, attraversato dal Coronavirus, ci spinge a fare silenzio dentro e attorno a noi. Pasquale Tocchetto, così schivo e riservato qual era, attraverso la sua poesia ci aiuta a vedere in questa stagione colori, suoni e profumi che sono dentro il vissuto di ognuno. La parola poesia deriva dal verbo greco poieo (traslitterato) che ha molti significati: fare produrre, creare. Il poeta è colui che sa mettere in versi la realtà, oggetto della propria osservazione. Pasquale Tocchetto personifica l’Autunno in un fantastico pittore che sceglie dalla sua tavolozza i colori più diversi. La scelta delle parole, quasi spezzate come il pane, i versi endecasillabi affastellati in terzine dantesche, la rima incatenata fanno della sua poesia una riproduzione fedele della realtà.
“Nella brumale, pallida stagione / viali, boschi, parchi e le foreste / prendon l’aspetto d’una visione. // Mutano, infatti, loro estiva veste / per il Pittore Autunno intraprendente, / dotato di magia e mani leste. // Dipinge notte e dì continuamente, / mentre la gente dorme o vaga fuori, / tutto trasforma molto celermente. // Ha tavolozza ricca di colori, / rubati al mare, al celo ed alla terra, / grandi pennelli fatti con gli allori. // Arcani venti in aria poi disserra / per render chiome verdi variegate; / l’arcobaleno pinto forte afferra. // Le latifoglie d’acero palmate / e canadese vite tinge in rosso / brillante e acceso come le fiammate. // Mirando il sole d’oro assai rinvigorito / all’alto pioppo l’ha spruzzato addosso. // Lobate del querceto ha colorito / col grigio bronzo simile a campane / ed il marrone intenso oppur sbiadito. // Di roseo incerto sfuma foglie strane: / le lanceolate e ovate del frutteto / che dalle piante volano lontane. // Fantastico pittore nel segreto / compie un prodigio unico in natura: / rende così policromo e pur lieto / fogliame di collina e di pianura” ( Pasquale Tocchetto, Pittore Autunno, pag. 39, 25 novembre 2010, in Spiragli di luce, luglio 2016, Fermo).
Novembre mese dei morti.
Il due Novembre era il giorno dei Morti. Lo è ancora. Halloween può attendere. E’ una festa quest’ultima del tutto estranea alle nostre tradizioni. Nelle chiesette di campagna, durante l’ottavario, la messa era al mattino presto. I contadini convenivano dai casolari più lontani. Erano già in piedi da diverse ore. Le mucche nelle stalle richiedevano di essere governate; via il letame dalle lettiere, portato nella vicina concimaia, lu “grascià“. Le mangiatoie venivano rimpinzate adeguatamente di fieno. Il rito dell’abbeverata era rimandato al ritorno dalla messa. Sacerdoti e confessori provenivano da Morrovalle, parrocchia San Bartolomeo, ma anche dal vicino convento dei Padri Passionisti. Officiava don Primo Antonelli. Era originario di Civitanova Alta. Arrivava in motorino che partiva a spinta. Gran sacerdote don Primo, lo ricordano in tanti. Era di fatto il parroco di Santa Lucia, anche se la piccola frazione di campagna non era parrocchia. Veniva tutte le domeniche, celebrava due messe, l’una alle otto, l’altra alle dieci. L’ottavario era una funzione molto sentita. “Pietà dell’alme misere./ I falli, lor perdona, /eterna pace dona,/ luce perpetua dà“. Era un canto che accompagnava tutta la funzione religiosa. Non si aveva tempo di fermarsi alla cantina di “Scialò”, terminata la messa, come accadeva invece alla domenica. C’era da abbeverare le mucche o terminare la semina. Già la nebbia avvolgeva la campagna. Aggiogate le mucche, preparata la seminatrice, ci si inoltrava per i campi, accompagnando il lavoro con canti che avevano il potere di alleviare la fatica fisica.
“Nel cimitero riposano i morti, / il due novembre da molti onorati; / parenti e amici oranti ed assorti / portano lumi e fiori iridati. // All’ombra mesta d’annosi cipressi, / rivolti al cielo con supplice aspetto, / sorgon sepolcri dall’animo espressi, / nel misterioso silenzio e rispetto. // Del Redentore il segno immortale / stende le braccia sull’urne ed avelli, / speranza infonde in ogni mortale / nella venuta di giorni più belli. // Sono scolpite su pietre due date: / l’alba e il tramonto di breve esistenza; / ma liete foto, sul marmo fissate, / seno dei cari velata presenza. // Per i Caduti sui campi di guerra, / il Municipio corona d’alloro, / grato depone sul pian che rinserra / resti mortali d’alcuni di loro. // Sono d’Italia i figli migliori: / l’han liberata da lungo servaggio, / difficoltà superando e timori; / è il tricolore un patrio messaggio. // Il Camposanto fa ben meditare / su vanità dei beni mondani; / l’opere buone potranno contare / l’amore per Dio e gli esseri umani. // Resurecturis campeggia all’ingresso: / risorgeranno alla fine del mondo / tutti i defunti, siccome promesso, / saranno felici nel regno giocondo!” (P. Tocchetto, Due novembre, 2 novembre 2015, Ibidem, pag. 75).
Incanto d’Autunno
Mala tempora currunt. Viviamo tempi difficili. L’epidemia da Coronavirus sta facendo scomparire manifestazioni cittadine in voga nei nostri paesi. Il tempo dentro il quale siamo soliti riporre i ricordi del passato si è enormemente dilatato. Sembrano trascorsi tanti anni, ma a Morrovalle, fino allo scorso anno, in una domenica che cadeva verso la metà del mese di ottobre, si era soliti vivere un momento di convivialità attorno ad una grande e bella festa da titolo romantico, Incanto d’Autunno, con castagnate, stand gastronomici, musica, balli, degustazione vini, passeggiate e lancio di palloncini per i più piccoli. Oggi, le norme anti Covid 19 consigliano giustamente di evitare assembramenti e rimandare ad altri tempi, quando tutto sarà finito, così si spera.
Il maestro Tocchetto, partecipe di ogni momento nella vita cittadina, riportava in una sua poesia uno spaccato di una castagnata preparata per gli anziani del paese: “E’ deliziosa annual castagnata / disposta in piazza d’antichi paesi! / A Morrovalle è ben preparata / da volontari, altruisti e cortesi. // Sono invitati i signori anziani / a degustare d’autunno il buon frutto; / è la stagione dei nonni nostrani, / carichi d’anni, ma arzilli del tutto. // La castagnata anziana è allegria / pei pensionati ognor solitari; / posson trovarci gentil compagnia / di cordiali signore e compari. // Hanno donato prodotti e lavoro / a beneficio d’umana famiglia. / restano ancora prezioso tesoro. // L’avo assennato prudenza consiglia; / ha meritato corona d’alloro; / desta nei giovani gran meraviglia. // Brindiamo lieti cantando sonoro / inno augurale che il cuore bisbiglia; / sono del mondo sostegno e decoro!” (Pasquale Tocchetto, Castagnata anziana, 26 novembre 2014, Ibidem, pag. 145).
Autunno tempo di vendemmia.
L’autunno segnava la partenza delle rondini. Appollaiate sui fili della corrente elettrica, aspettavano di ritrovarsi tutte insieme per spiccare il volo verso terre lontane. Sarebbero ritornate nella primavera successiva, passati i rigidi mesi invernali. Al primo di Ottobre riaprivano le scuole, come ogni tradizione che si rispettava.
La vendemmia si annunciava con lo sgombero delle botti dalla cantina. Venivano portate sull’aia o sul prato antistante la casa colonica per essere preparate a ricevere il vino dell’annata. La prima operazione consisteva in una energica pulitura interna, per eliminare muffa o quant’altro si fosse formato tra gli interstizi delle doghe. Alcuni per rendere più efficace il trattamento, chiudevano le botti e bruciavano all’interno manciate di zolfo che aveva il potere di disinfestarle in modo più che robusto, o veniva fatto colare bruciandolo all’esterno. I ragazzi erano impiegati a rovesciare ettolitri d’acqua con secchi e mastelli, quando l’acquedotto pubblico portò l’acqua nelle case, con la “garza”, il tubo in gomma attaccato col filo di ferro alla “cannella”. Si doveva insomma “intortare” le botti, permettere cioè che le doghe, sotto l’effetto dell’acqua, combaciassero perfettamente e questo era possibile perché il legno, bagnato ripetutamente, lasciato ad asciugare e di nuovo bagnato, cresceva fino a che tutti gli interstizi, anche i più impercettibili combaciavano. L’operazione durava diverse settimane, dipendeva anche dallo stato di conservazione delle botti stesse. Contemporaneamente venivano tirate fuori dalla capanna le cassette per la raccolta dell’uva, pesantissime, costruite con legno resistente perché potessero durare nel tempo.
Nei filari e nelle vigne rosseggiavano i pampini e biondeggiavano i grappoli d’uva, segno che era tempo di vendemmia. Si partiva allora dalla casa colonica con l’immancabile “biroccio” e “biroccetta”, più piccola quest’ultima e facilmente trainabile dai buoi o dalle mucche, con il carico delle cassette vuote, con i canestri di vimini e giunti a destinazione, si distribuivano le cassette lungo i filari; canestro su un braccio, forbici da potare nell’altra mano ed i grappoli d’uva cadevano nel recipiente; quando questo era ben colmo, lo si vuotava nelle cassette e si ritornava a “velegnà”.
L’uva, portata a casa, veniva vuotata dentro la “canà”, un grosso recipiente rettangolare, in legno e prima dell’avvento della macchina pigiatrice, veniva schiacciata con i piedi. Il mosto fuoriusciva da un condotto posto in basso e raccolto in tini veniva rovesciato nelle botti. Tutto attorno alle cassette d’uva, alla “canà”, era un ronzare di api fameliche, attirate dal nettare del mosto. A pigiatura ultimata, le vinacce rimaste venivano raccolte e passate nel torchio. Verso la metà di novembre, il vino veniva travasato in altre botti dove rimaneva per tutto l’anno per l’invecchiamento, pronto per essere spillato per i grandi lavori agricoli della Primavera e dell’Estate.
Pasquale Tocchetto così descrive la magica stagione: “Natura presenta la scena armoniosa / di questa stagione assai favolosa: colori cangianti per ogni sentier; / il cerulo cielo e l’aria frizzante, / fantastiche nubi, la pioggia abbondante, / il sole discreto, il vento destrier. // Si colgono frutti copiosi e squisiti / che rendon gustosi gli umani conviti, / insieme al verdi/ gettare sementi in zolle frammiste, / cacciare nei boschi con scoppi e fragor. // Quel simbolo chiaro d’età terziaria / ha stile vivace e forma bonaria; / nell’uomo anziano risveglia l’ardir. / Noi pure ottenemmo eccellenti prodotti / con estrema fatica al fine condotti: / la nostra famiglia poté progredir. // Abbiamo trasmesso ai figli la vita, / morali valori, speranza infinita: / saranno per essi preziosi gioiel. / Esperti del mondo, consigli e saggezza / ai giovani offriamo con molta fierezza, / un ponte formando tra antico e novel. // memoria, sapere, lo svago e la mente / decisi curiamo nell’ora presente, / godendo il riposo e gran libertà. / La pace portiamo a tutti i fratelli, / che vedano in noi i loro modelli; / così il nostro autunno sereno sarà. // In vetta ai settant’anni maturi / scrutiamo fidenti i giorni futuri, / perché ci protegge il Sommo Fattor. / Stringiamo le mani da amici sinceri, / restiamo vicini almen coi pensieri, / ricordi ed affetti serbiamo nel cor!” (Pasquale Tocchetto, Sereno Autunno, 16 ottobre 2003, ibidem, pag. 162).
Antico idioma.
Il maestro Tocchetto amava poco scrivere in dialetto, ma anche in quelle poche poesie scritte nell’antico idioma raggiunge una raffinatezza linguistica e una musicalità impareggiabili: “C’è tante cerque su la strada corta / che va da Morro fino là li frati: / è grosse, tonne, le foje forde porta; / pare che sta a guardà comme sordati. // Ciuchette janne da le rame penne, / pe’ fa ngrassà li porci jjà grastati; li contadì facia le proenne / per quanno i cambi po’ saria jacciati. // Grugnia la lecca rento la stalletta, / sgranava tante janne ne la trocca; / ciucciava li purchitti la trippetta / e da le pocce latte co’ la vocca. // Da Santantò venia venedetta/ la vestia che a la festa cia la sfiocca; / e lo patrò je dava la panetta, / la mollava co’ l’acqua/ e jò li fossi rmane trascurate; / li porchi magna ogni robba strana / che no’ rsomija a quella de natura. / Cuscì presutti, lonze e le costate / non sa de carne comme la nostrana” (Pasquale Tocchetto, Le cerque, 9 febbrà 2012, ibidem, pag. 181).
Note al testo.
- La cerqua nel dialetto nostrano, Macerata e provincia, è la quercia
- La strada corta è quella che va da Morrovalle verso il convento dei Padri Passionisti. Chi viene da Macerata, la trova all’altezza del bivio per Trodica, mentre la strada principale costeggia a sinistra le mura cittadine e va verso il centro del paese. Inizia subito dopo il bivio, sulla destra, entra nella campagna ed è fiancheggiata ai lati da querce secolari.
- Le foje forde sono le foglie folte, grandi e rotonde.
- Le janne sono le ghiande di cui vanno ghiotti i maiali. Erano l’alimento principale. A raccoglierle erano addetti i ragazzi.
- Li porci grastati sono i maiali castrati.
- Le proenne erano le provviste di ghiande che il contadino riponeva nella stalla per l’inverno.
- Grugnia la lecca sta per: la scrofa grugniva dentro il proprio ricovero abituale, una piccola stalla, lu stallittu. Le pocce sono le mammelle della scrofa.
- Da Santantò venia venedetta/ la vestia che a la festa cia la sfiocca; / e l// Da Santantò venia venedetta/ la vestia che a la festa cia la sfiocca; / e lo patrò je dava la panetta, /ateo patrò je dava la panetta”. Gli animali venivano portati sul sagrato della chiesa in occasione della festa di Sant’Antonio Abate. Si dava loro una pagnottella di pane, benedetta dal sacerdote. Gli animali venivano bardati con fiocchi e nastri colorati, in segno di festa. A Morrovalle, tale usanza, fino all’anno scorso, prima del Coronavirus, era rimasta solo nella frazione di Santa Lucia, riproposta dal locale circolo ACLI che si è adoperato molto per mantenere in piedi le tradizioni delle nostre campagne. A tutt’oggi la chiesa di Santa Lucia è chiusa per il terremoto del 2016. I danni si sono sommati a difetti strutturali pregressi.
- Presutti e lonze sono gli insaccati di carne di maiale: prosciutti e lonze. Le costate sono le costarelle di maiale. Il maiale veniva macellato prima di Natale, quando la stagione volgeva verso l’inverno. Era l’operazione della pista. Il termine può far pensare a un qualcosa di macabro e strano. La parola deriva dal latino pinsere (pinso, pinsis, pinsi, pinsitum, pinsĕre), che significa pestare, schiacciare, macinare. Certo il contadino non aveva tempo di studiare il latino. Ecco perché le parole nel corso dei secoli sono state storpiate e modificate.
Un po’ di storia a confronto.
L’allevamento del maiale ha rappresentato per secoli un elemento vitale per l’economia della casa contadina. La sua carne rappresentava una riserva indispensabile nel corso dei grandi lavori agricoli, durante i quali veniva richiesta molta manodopera.
In tempi a noi più vicini, quando ancora querce secolari disegnavano i confini delle diverse proprietà agricole, costeggiavano strade di campagna, fossati che raccoglievano l’acqua nei fondovalle, o erano semplicemente disseminate qua e là per i poderi, le loro ghiande erano alla base della sua alimentazione. Alla loro raccolta venivano impiegati i ragazzi: ” li frichi” o “le friche“, delle nostre case coloniche, “i bagaj” o “le tusàn” della cascina brianzola.
Sì, il territorio della Brianza era ricco di querce, le robinie dei giorni nostri, rappresentano una pianta importata nel 1700 dalla Virginia, dal francese Robin ed hanno segnato un impoverimento del patrimonio boschivo brianteo, ricco una volta anche di pini, castagni, roveri e di querce secolari. Lo storico latino Polibio dice che tutto il territorio situato a nord del fiume Po e principalmente quello brianteo era ammantato di querce, le cui ghiande servivano di alimento per i maiali che si allevavano in numero assai consistente. Rinomati erano gli insaccati prodotti dalla lavorazione della loro carne, famosi ancora oggi sono i salumi Vismara di Casatenovo nell’alta Brianza.
Accanto alle ghiande che costituivano una alimentazione naturale per il maiale, la preparazione del pastone, “lu verò“, miscuglio di granturco, orzo, patate e barbabietole, unito ad acqua calda fatta bollire precedentemente, era un’operazione che impegnava non poco il contadino. L’alimento veniva preparato dentro capaci mastelli, mescolato sapientemente e gettato poi nella “trocca“, termine derivante dal longobardo “Trog“, da qui l’Italiano trogolo, piccola vasca in cemento o in legno, che era per il maiale, il corrispettivo della mangiatoia per le mucche nelle stalle. “lu verò” era accompagnato da due pugni di ghiande per ogni maiale, gettate ne “lu stallittu“, piccola stalla, bassa ed angusta, dimora del suino.
In dialetto brianzolo, la dimora del maiale era chiamata stabièl. Era situato all’interno della cascina formata a corte quadrata, un corpo di fabbrica per le abitazioni, a due piani, al primo la cucina, al piano superiore, le camere, di fronte, i fienili, di lato, le stalle, un angolo lasciato vuoto per permettere l’accesso ai campi. “Stabulum” era la parola latina per indicare la dimora per animali, la stalla, ma anche il pollaio e/o ovile. Da “ stabulum” noi abbiamo fatto derivare la parola “stabbio”, il letame, passando il termine originario ad indicare, dal contenente, il contenuto. Il letame, parola derivante dal latino “laetamen, is”, era la ricchezza, perché procurava abbondanza di messi. Il termine rimanda all’aggettivo “laetus”- ricco; “ager laetus pabuli”, campo ricco di pascoli.
Le ghiande raccolte nel periodo autunnale, venivano riposte nei cestoni, costruiti con i vimini, nei lunghi mesi invernali, quando i lavori nella campagna ristagnavano ed i contadini nelle stalle provvedevano ad intrecciare canestri di vetica e ad approntare strumenti di lavoro. Le querce non davano le ghiande ogni anno, da qui la previdenza di riporre via queste ultime per farne una scorta ed attingervi ogni volta che servissero.
Raimondo Giustozzi
Invia un commento