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Salento, maledetto Salento. Apologia di un perdente di Marco Vetrugno.

Copertina Libro MARCO VETRUGNO

di Stefano Bardi

Fra tutte le città del Salento brindisino c’è né una che ancora oggi conserva, la sua arcana e maledetta bellezza storico-culturale; e la città prende il nome di San Pietro Vernotico. Città popolata da 13.448 abitanti che camminano su terreni costituiti in superficie da vasche di raccolta per l’acqua piovana e internamente, da falde acquifere superficiali e freatiche. Il tutto abbracciato, da inverni freschi e da estati calde.

Città questa la cui economia si basa sull’agricoltura (olio, vino, carciofi), sull’industria (stoccaggio prodotti agricoli), sulla centrale elettrica di Cerano e sul turismo religioso (Chiesa di San Pietro Apostolo e Chiesa Matrice). In particolar modo quello che colpisce di più a San Pietro Vernotico, è la Riserva naturale di Cerano con i suoi 1.300 ettari. Bosco questo popolato da specie arboree mediterranee, piante igrofile, roditori, mammiferi carnivori, uccelli, rapaci diurni e notturni.

Una città quindi eternamente mistica, ma anche purtroppo eternamente maledetta a causa dell’alta disoccupazione che spinge tanti giovani a stare in mezzo alla strada, a causa del mal governo che ha trasformato questo paese in un dormitorio vivente, a causa dell’illegalità che infetta ogni cosa che tocca e a causa infine, dell’iconografia mezzadra che ancora oggi la mostra come una città arretrata dove la modernità sembra non essere mai arrivata.

 

Una città maledetta che è stata, ed è la patria di grandi intellettuali otto-novecenteschi come per esempio il patriota e presbitero Nicola Valzani, il cantautore Domenico Modugno e il giovane poeta Marco Vetrugno (San Pietro Vernotico, 1983).

Poeta questo che può essere definito maledetto al pari di Salvatore Toma, Claudia Ruggeri e Dario Bellezza grazie alla sua ultima opera poetica Apologia di un perdente (Elliot, 2018). Opera quella del Vetrugno composta sotto forma di un monologo in versi diviso in sette atti e accompagnato, da altrettante sette opere artistiche maledette. Monologo questo compiuto dal protagonista Ezra all’interno di un museo creato dalla sua mente abbracciando un panno bianco dal misterioso contenuto davanti a un animo teschio femminile, le cui vuote cavità simboleggiano i passi esistenziali di Ezra da lui ormai irrecuperabili e immodificabili, poiché la sua Vita è un treno che corre solo in avanti. Detto questo iniziamo il nostro viaggio nel mondo mistico e brumoso di Ezra.

Nel primo atto vediamo il tema della Croce, da Ezra letta in tre modi. La prima chiave di lettura, la mostra come un oscuro demone che divora le nostre membra, ci prosciuga ogni nostra energia e infine ci libera attraverso la Morte, da ogni dolore. La seconda chiave di lettura, la mostra come l’immagine dei nostri amori oscuri, brumosi, passionali e mortiferi. La terza e ultima chiave di lettura, la mostra come una grande Madre Natura in grado di creare mute, folli, emarginate, blasfeme e malate carni. Nel secondo atto la Morte degli uomini e delle donne è vista come la loro rinascita sempre però con un animo meschino, avido, mendace, blasfemo e scheggiato. Nel terzo atto Ezra si percepisce come una fredda lapide, dalla quale escono glaciali lacrime di sangue.

Nel quarto atto Ezra concepisce le sue carni come uno specchio della sua gioiosa puerizia, ma anche e soprattutto, come un presente animato da putride decomposizioni, timori, solitudini, brumose oscurità, sataniche verginità, vigliaccherie, ansie e infinite ambiguità. Nel quinto atto assistiamo al monologo interiore del protagonista, in cui si vede come un demoniaco essere che non vorrebbe essere mai nato, ma una volta nato (purtroppo) è costretto a consumare la sua vita all’interno di una società animata da amicizie meschine, irreali, avide e bugiarde.

Nel sesto atto, il protagonista concepisce il suo sguardo come una vacua visione che ha osservato lumi inutili, Vite sfigate, melodie streganti, pazzie abbaglianti, decomposizioni mostruose e dipartire immodificabili. Nel settimo e ultimo atto è svelato l’arcano del panno bianco che contiene al suo interno, il Nulla. Un nulla che per Ezra come del resto per tutti i perdenti simboleggia la sua Famiglia e la sua Vita fatta di ozi, ambigue falsità, eccessi, cicatrici psico-esistenziali e sociali, codardie, solitudini e irrealizzabili sogni genitoriali. Insomma, un universo quello di Ezra qui descritto dove l’anormalità è la realtà e la normalità invece è una creatura blasfema, deforma, dannatamente mistica, perennemente brumosa e cimiterialmente viva.

Il tutto grazie all’utilizzo di versi brevi, frammentati, scheggiati e d’immagini in bianco e nero, che risaltano ancor di più il maledettismo psico-fisico e socio-esistenziale di Ezra, in cui possiamo riscontrare la figura del giovane poeta salentino.

 

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