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Dialoghi in corso. Piattaforme digitali. Il capitalismo cambia i mezzi e non i fini

Fonte internet

Fonte internet

di Dario Guarascio

Il dibattito pubblico che si è sviluppato attorno al tema delle piattaforme digitali ha visto l’attenzione concentrarsi su elementi di natura contingente lasciando nell’ombra la trasformazione in corso più rilevante in termini di rapporti di potere e, dunque, di produzione del reale: l’assurgere dell’informazione (digitalizzata) a bene chiave per l’acquisizione ed il consolidamento del potere economico. Fenomeni “inediti” quali il materializzarsi nelle strade di lavoratori iper-precari governati in maniera millimetrica da App ed algoritmi o la “scoperta” delle enormi somme eluse al fisco dalle grandi imprese digitali rappresentano, quindi, non la quaestio quanto delle punte d’iceberg che hanno però il merito di scuotere l’intelletto collettivo dal torpore in cui versa. Vi è, tuttavia, un’importante precisazione preliminare da fare. La pretesa mutazione del capitalismo in capitalismo delle piattaforme non va in nessun modo intesa come una rivoluzione nei termini ontologici del sistema stesso. Piuttosto, tale mutazione va letta come un salto di qualità, una ristrutturazione sul piano delle tecniche (dispositivi traccianti, algoritmi, intelligenza artificiale, etc.) e delle materie prime (parole, azioni, emozioni e fenomeni trasformati in bit e stringhe di codice) coinvolte nel processo di produzione e riproduzione capitalistica. Invero, il salto di qualità orwelliano a cui stiamo assistendo – salto di qualità in virtù del quale quanto più è intima e scabrosa la frazione della nostra esistenza condivisa sulla piattaforma tanto più questa (la piattaforma) aumenta il proprio valore e potere economico – è perfettamente collocabile lungo la nota traiettoria ricerca di nuovi domini da sussumere al processo di valorizzazione del capitale-innovazione tecnologica/organizzativa-crescita dell’entropia che contraddistingue il sistema capitalistico sin dalla sua nascita.

Agli albori della traiettoria tecnologica su cui le odierne piattaforme digitali si fondano, quella che ha come innesco l’invenzione del microprocessore e che è genericamente denominata “Information and Communication Technology”, Harry Braverman (Labor and Monopoly Capital, “Monthly Review”, 1974) rendeva chiaro come ciò a cui si sarebbe assistito con la diffusione dei computer e dei dispositivi digitali sarebbe stato un rinvigorimento del capitale nel dare linfa ai propositi di Frederick Taylor e del suo Management Scientifico (The Principles of Scientific Management, Harper 1914). Si tratta della perenne tensione del capitale verso il controllo e la centralizzazione della conoscenza rilevante a fini economici, una centralizzazione indispensabile per accrescere l’efficienza produttiva ed il potere di mercato. Affinché la centralizzazione della conoscenza abbia luogo dando i frutti economici sperati, tuttavia, è necessario si dispieghi una parallela dinamica di frammentazione (e codificazione) delle singole attività produttive, frammentazione che ha in sé la separazione della singola operazione dalla finalità ultima a cui la stessa concorre e che è all’origine del fenomeno di straniamento del lavoratore che Marx ha definito alienazione. In questo quadro, le piattaforme digitali possono essere intese come la reificazione (organizzativa) degli obiettivi più estremi del Management Scientifico. Una reificazione resa possibile da una combinazione di tecnologie digitali tra cui Internet, il protocollo di identificazione e tracciamento web noto con lo pseudonimo di “cookie”, il sistema di geolocalizzazione Gps oltre agli incessanti avanzamenti nelle tecniche di miniaturizzazione dei dispositivi di archiviazione e trasmissione delle informazioni.

Le imprese che sono, a vario titolo, protagoniste del salto di qualità appena descritto (prime tra tutte, Amazon, Apple, Google, Facebook e Microsoft) hanno acquisito un potere economico (e dunque politico) che non ha analoghi precedenti. A fronte di una bassissima intensità occupazionale – confrontando le dimensioni occupazionali di Google e Facebook con quelle del gigante dei servizi americano WalMart la differenza è impressionante: le prime occupano, rispettivamente, 50mila e 25mila persone mentre la seconda circa 1.300.000 (D. Guarascio, Mai fidarsi di Google. Estrarre, mercificare e sorvegliare: come funziona il capitalismo delle piattaforme, “L’indice dei libri del mese”, Giugno 2017) – Google e Facebook oggi incamerano più del 20% dei ricavi globali complessivamente generati nel settore della pubblicità, il 65% di quelli generati nel settore della pubblicità digitale e l’85% di ogni nuovo dollaro speso nel mercato pubblicitario (questi dati sono tratti da: J. E. Cohen, Law for the Platform Economy, “UCDL Rev.”, 51 2017). Se, da un lato, generano poca o pochissima occupazione, dall’altro lato, queste imprese fungono ormai da “infrastrutture” fornitrici di servizi la cui essenzialità alla vita sarebbe senza problemi sottoscritta da uno qualunque dei miliardi di utilizzatori quotidiani della mail di Google o del sistema di acquisti “Prime” di Amazon. In ragione della loro peculiare natura, quindi, le grandi piattaforme riescono ad accrescere in maniera incessante la loro presa economica ed il loro “consenso implicito” (si pensi alle rivolte che ci sarebbero se domattina uno Stato decidesse di impedire a Google o ad Amazon di erogare i loro servizi quale conseguenza di una condanna per frode fiscale o per condotta anticoncorrenziale) ottenendo in questo modo lo status di impresa-istituzione senza però il bisogno di contrarre patti sociali con grandi masse di dipendenti come accadeva alle imprese manifatturiere che hanno guidato l’evoluzione delle fasi tecnologiche precedenti (si pensi, nel caso italiano, alla Fiat ed alla continua contrattazione politica e sindacale che l’azienda si trovava a dover condurre per portare avanti le sue strategie). Piattaforme digitali come imprese-istituzione o “imprese che si fanno mercato”, come abbiamo avuto modo di scrivere altrove (questa definizione è stata proposta in: M. Franzini e D. Guarascio, Questa volta è diverso? Mercati, lavoro e istituzioni nell’economia digitalizzata, “SINAPPSI-Rivista dell’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche”, di prossima pubblicazione nel 2019). Ma che cosa, di preciso, rende questi soggetti economici privati, percepiti dai più come delle neutrali infrastrutture (perlomeno nell’inconscio delle azioni compulsivamente compiute nella quotidiana relazione che si ha con la rete), dei monopolisti capaci di condizionare governi, modificare le preferenze dei consumatori e trasformare competitori in mansueti sub-fornitori? Le imprese che si fondano sull’uso di grandi masse di dati diventano “market gatekeepers” (il concetto delle piattaforme come “market gatekeepers” è ulteriormente sviluppato in: M. Franzini e D. Guarascio, 2019, supra). Monopolizzando il controllo e la gestione delle informazioni economicamente rilevanti, i market gatekeepers detengono, di fatto, il potere di regolare l’accesso ai mercati-reti che gestiscono estraendo rendite crescenti in virtù di tale potere. Il “caso Amazon” è, in questo senso, emblematico. Il patrimonio informativo in perenne crescita di cui Amazon dispone le consente di beneficiare di quelle che in letteratura vengono definite “two-sided scale economies” (G. G. Parker, M. W. Van Alstyne & S. P. Choudary, Platform Revolution. How Networked Markets are Transforming the Economy and How to Make Them Work for You, W. W. Norton & Company 2016). Dal lato dell’acquirente, Amazon adotta strategie di marketing persuasivo (la piattaforma segue tuoi occhi quando cerchi, quando ti soffermi su di un prodotto e quando lo acquisti o passi oltre…arrivando a essere capace di offrirti proprio quel che volevi nel momento in cui non saresti stato nemmeno in grado di razionalizzare quel desiderio…) o scontistiche aggressive che la rendono il negozio irrinunciabile per masse sempre più ampie di persone. La crescita dei partecipanti al gioco aumenta la capacità predittiva e di profilazione della piattaforma, ne accresce il valore azionario (e con esso la dotazione monetaria utile a investire per raffinare ulteriormente le tecnologie di cui è dotata) e la rende Il Mercato a cui le altre aziende (siano esse tradizionali o digitalizzate) debbono rivolgersi se vogliono crescere o, in molti casi, sopravvivere. In questo modo, imprese inizialmente autonome si trasformano in soggetti dipendenti dalla piattaforma-mercato che detta le regole della loro sopravvivenza. Qual è la misura economica di questo potere economico che sembra crescere senza trovare ostacoli? Nel secondo trimestre del 2018, grazie al forte aumento del fatturato rispetto al precedente anno, le azioni di Amazon hanno superato la soglia dei 1500 dollari. Solo due anni prima il loro valore era 790, 3 anni prima 305 e 10 anni prima 89 dollari. Si tratta di tassi medi annui di aumento dell’ordine del 30% nell’arco del decennio, difficile trovare esempi simili nella storia della borsa americana.

 

Questo articolo è stato pubblicato sul numero 61 de “Gli asini”: acquistalo, abbonati o fai una donazione per sostenere la rivista.

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