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Cultura. Saperi e sapori della Porto Recanati d’antan

FOTO

Foto internet

 

di Lino Palanca

Chi abitava, negli anni ’50 del secolo scorso, al terminale nord di via san Giovanni Bosco, dove Nicola Bianchi teneva il ristorante del Mago del Brodetto, all’incrocio con via Manin, sentirà ancora nell’aria la danza dei profumi seducenti di quella cucina. Si diffondevano soavi già a partire dalla prima mattinata per accompagnarti fino alla chiusura serale del ristorante. E un po’ anche dopo. D’estate Nicola Bianchi sistemava un recinto di legno dell’altezza di una metrata, a losanghe, tutto intorno al largo marciapiede antistante il locale; poi stendeva un tendone per riparare i clienti dal sole, che veniva arrotolato al tramonto quando prendevano il via i ludi gastronomici, spesso con gente importante.

Una sera (metà anni ’50) vennero a cena l’allenatore federale della nazionale dilettanti di pugilato, Steve Klaus, e la sua magnifica banda di giovani campioni, che sovente si allenavano da noi, palestra Diaz, in vista di importanti appuntamenti internazionali, olimpiadi comprese. Nella via non ci si entrava più, tra tifosi ammassati contro il recinto, le rare automobili che rallentavano fino al passo d’uomo, le braccia dei conducenti fuori dai finestrini tese in improbabili saluti mentre i carabinieri e i vigili urbani (Giggio Fabbracci e Renato Giorgini, detto “baffì”) cercavano di mettere un minimo d’ordine in quella babele. A un certo punto, quando fece il suo ingresso Sua Maestà il Brodetto, calò il silenzio sull’allegra tavolata sportiva, quasi come quando Dante vede avanzare Beatrice e … ogne lingua devèn tremando muta; tutti guardavano Giannino Nardi, il grande Giannino, poi titolare del celebre Giannino, appunto, che incedeva sorridente tra i tavoli … come cosa venuta / da cielo in terra a miracol mostrare, gli avventori pregustando la leccornia e noi, spettatori, con il fegato rovinato per l’invidia. Lo scrivente non era solo uno spettatore, ma pure un bambino che si sentiva un po’ orgoglioso e in diritto di vantare almeno la qualifica di comparsa in quel meraviglioso film.

Confesso di non essere un gran consumatore di brodetto, ma non metto davvero in discussione che il profumo della nostra zuppa sia provocatorio e coinvolgente. Del resto, sono in ottima compagnia. Posso ricordare che Pierpont Morgan, di passaggio al Porto (fine XIX secolo), ne mangiò una porzione da lui giudicata così gustosa che si sentì in dovere di una regalìa di tale consistenza da permettere al ristoratore di comprare un locale migliore per la sua attività. O che Mario Puccini, sotto le spoglie de “Il Vagabondo”, firmò un lungo articolo (Corriere Adriatico, anni ‘20/’30, dicono alcuni mentre altri mi assicurano che il pezzo apparve in un giornale palermitano) in estasiata laude del brodetto del Porto.

Su come si debba preparare il piatto qui da noi ognuno ha in tasca una verità diversa da tutte le altre. C’è sempre un particolare, un dettaglio che fa la differenza. Se in meglio o in peggio non  lo so. Quel che invece so per certo è che oggi la gente trova tragicamente normale stravolgere la tradizione, quasi affetta da una patologia di modernizzazione ad ogni costo. Questa deprecabile corsa alla creatività anche sul brodetto, produce disastri inenarrabili. E quel che provoca il ghigno del portolotto esperto, che ha sempre mangiato il brodetto fatto dalla madre o dalla nonna marinare, è vedere le facce soddisfatte di turisti e forestieri quando escono da qualche locale dove credono di aver gustato la vera specialità del posto. Invece hanno solo assistito alla moltiplicazione dei pesci, la maggior parte dei quali col brodetto ha poco a che fare.

In proposito circola da sempre un episodio sulla bocca di tutti i portolotti della mia generazione. Un giorno un simpatico romano autocelebrantesi come brodettaro provetto, ebbe la cattiva idea di andare all’attacco di zi’ Pietro Giri, detto Pitelli, che stava cucinando un brodetto  nella sua casa di Castelnuovo (va detto: da noi tutti i giovani chiamavano “zì” gli anziani, in segno di rispetto: questi, gli anziani, li gratificavano del titolo di “nepoti”).

Gli girò un po’ intorno e poi cominciò a chiedere che cosa stesse mettendo nella pentola; ogni volta che zì’ Pietro rispondeva, lui, pronto: Ah, ma io ci metto pure la tale spezia, il tale odore, e poi questo e poi quello …. Dopo un po’, zì’ Pietro gli battè una mano sulla spalla: Bravo nepote, bravo. A la fine, però, sai cosa ce sarìa ‘ncora da fa’?  – Cosa? – Pija un bel coperchio, mettelo su la cazzarola e po’ butta tutto da la fenestra!

A ognuno il suo. Se no si fa solo confusione.

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Il mito del brodetto regna sovrano soprattutto nei concittadini condotti dalle circostanze della vita a vivere lontano dal Porto. Nessuno ha espresso nostalgia più struggente di Luigi Sorgentini (1911-1988) nel suo esilio romano:

Quant’è bbonu el brudettu purtannaru!

Che gustu sapuritu, marinaru!

È ‘n’arte antiga e sempre più deffusa;

nun ve so di’ pe’ fallu cusa s’usa.

Dell’arte sua, ve giuru, so’ un sumaru;

però quannu lu magnu è celu e maru!

Chi lu ‘ssaggia lu ‘rvô’, nu’ lu recusa.

Lu sai? El brudettu è già ‘riâtu in USA.

Vôl di’ che gira’ttornu al mappamonnu.

Ve pare gnè’? Ma ‘rmanne chì el segretu

Che certamente l’à scuâtu nonnu.

E s’el brudettu duenta vagabonnu

È segnu bonu, scì; però sta’ quetu:

quellu che magni chì te ‘rmette al monnu [1].

[1] Luigi Sorgentini, ‘Uria ‘rturnà’ ggió ‘l Portu a ‘ede’ i foghi, Roma, Ed. Del Colle 1969, p. 22.

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