di Lino Palanca
(Pubblicato nella Rivista Potentia – Archivi di Porto Recanati e dintorni, Anno II, n. 4, Inverno 2001)
Fedele all’idea che uno dei modi migliori di definire la poesia sia quello di identificarla come un incontro, un amalgama tra ispirazione e possesso dello strumento linguistico nel quale si sceglie di esprimersi, è così armato che affronto un testo di Emilio Gardini, poeta nostrano scomparso sei anni fa.
Si tratta di “ ‘Sta sera”, trentadue agili versi in dialetto portorecanatese inseriti nel libro Pe’ nun ‘mmalamme de nustalgia, ricco di 27 composizioni liriche prefate dal sottoscritto. Il testo:
‘Sta sera
el maru
se èste
de turchinu
drentu
de me
c’è el neru
de la notte
so’
da per me
tra i sassi
giò le bbòtte
senza
gnisciuna
che me sta
‘icinu …
La luna
fa ‘na strada
a ‘na
paranza …
de mille
perle,
che nun fenisce
mai,
tutti
da longu,
gnisciuna,
cume mai?
ma quela
luce
me dà
tanta speranza.
Struttura agile, ho premesso; le strofe sono di quattro versi di lunghezza variabile, da un minimo di una sillaba a un massimo di cinque, senza un ordine rigoroso perché così ha voluto l’autore.
La strofa introduttiva ci fa trovare di fronte al mare che va vestendosi di azzurro cupo, quindi non è ancora notte, fuori; lo è invece nell’animo del poeta, che solitario passeggia a ridosso della battigia. In cielo s’irradia il raggio tenue della luna a disegnare una strada di perle percorsa da una barca.
Quattro delle altre sette strofe (seconda, terza, quarta e settima) sono dominate dal sentimento della solitudine vissuto nel momento della giornata, la sera, che più degli altri si presta agli esami di coscienza; la quinta, sesta e ottava raccontano l’affascinante spettacolo offerto dai riflessi della luna sul mare che danno vita a un suggestivo gioco di prestigio della natura. Da qui nasce un’altra luce, questa interiore, che parla di speranza.
La solitudine, dunque, marcata con forza dal neru de la notte dei versi 7 e 8, dalla locuzione da per me (v. 10), dall’insistenza sull’indefinito gnisciuna (vv. 14 e 27) venato da una pena che incombe (senza / gnisciuna / che me sta / ‘icinu … – tutti / da longu, / gnisciuna, / cume mai?).
Dietro il sorriso bonario di tanti quadretti di vita paesana, accanto all’osservazione arguta, ironica e sovente mordace che, pure, costituisce parte non secondaria della poetica di Emilio, sporge uno sguardo che cerca di penetrare il vuoto alla ricerca, spesso vana, del punto di riferimento, della faccia amica, della mano tesa. Come il gabbiano di Montale (quante volte il cucale è passato nei cieli della fantasia di Gardini!), il poeta si sente destinato a volare sempre più in là.
E con la dolorosa coscienza di essere davvero solo e nudo di fronte al mistero della vita, sorte che ci accomuna tutti, Emilio sussurra quel cume mai? (v. 28) che da solo riassume e illumina il senso vero della lirica: il tormento del dubbio che corrode le facili certezze di cui ci facciamo corazza contro un destino appostato in paziente e ghignante attesa del nostro passaggio e che nessuno può affrontare al posto nostro.
Una domanda semplice, cume mai?, che evoca il ricordo dell’anziano di Fellini in Amarcord, solo in mezzo alla nebbia, senza amici né donne né vino, che si chiede sgomento se quella è la morte e risponde col deciso gesto di rifiuto mutuato da Cabiria, altro famoso personaggio del regista riminese.
Ma non è tutto qui il pensiero di Gardini, ché non va mai dimenticato come le sue radici affondino nel credo dei cristiani. Ce lo ricorda lui stesso: dopo il viaggio au bout de la nuit, alla fine del tunnel ci viene incontro la la striscia di liquide perle, immagine di straordinaria pregnanza, struggente desiderio d’infinito, Speranza che scende di Lassù.
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