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gliannisessanta. L’elezione di John Fitzgerald Kennedy.

FONTE iNTERNET

FONTE INTERNET

Il 1 giugno 1960, accettando la nomination del Partito Democratico per le elezioni a presidente, John Fitzgerald Kennedy pronunciava a Washington uno dei discorsi che avrebbe acceso di entusiasmo migliaia di giovani. Era il discorso della Nuova Frontiera: “Io vi dico che siamo davanti alla Nuova Frontiera, lo vogliamo o no. Al di là di questa nuova frontiera si estendono i campi inesplorati della scienza e dello spazio, i problemi irrisolti della pace e della guerra, le sacche di ignoranza e di pregiudizio, le questioni ancora senza risposta della povertà e della sovrapproduzione. Vi chiedo di essere i pionieri di questa nuova Frontiera”. L’America fu attraversata da una ventata di giovinezza senza precedenti. C’era di che infiammarsi sentendo il giovane presidente, nel giorno del suo insediamento alla Casa Bianca: “A coloro che nelle capanne e nei villaggi di metà del mondo lottano le catene di una diffusa miseria, promettiamo i nostri sforzi migliori per aiutarli a provvedere a se stessi, per tutto il tempo che sarà necessario, non perché i comunisti facciano altrettanto, non perché desideriamo il loro voto, ma perché questo è giusto. Se una società libera non riesce ad aiutare i molti che sono poveri, non riuscirà mai a salvare i pochi che sono ricchi. A quell’assemblea di stati sovrani che sono le Nazioni Unite, nostra ultima grande speranza in un’era in cui gli strumenti di guerra hanno di gran lunga e rapidamente oltrepassato gli strumenti di pace, rinnoviamo il nostro impegno di appoggiarle ad impedire che esse divengano unicamente una tribuna per aspre polemiche a rafforzarle come scudo dei paesi nuovi e dei paesi deboli ad ampliare l’area in cui la loro parola può avere valore di legge”. E rivolgendosi direttamente ai suoi ascoltatori: “Nelle vostre mani, miei concittadini più che nelle mie stanno il successo e il fallimento definitivo della nostra nazione. Da quando questo paese venne fondato, ogni generazione è stata chiamata a dare testimonianza della sua fedeltà alla nazione. Ed ora l’appello della tromba suona ancora una volta per noi. Non ci chiama alla battaglia, per quanto noi già combattiamo, ma ci chiama a sostenere il paese in una lotta lunga ed oscura, per anni ed anni, lieti nella speranza, pazienti nella tribolazione, una lotta contro i comuni nemici dell’uomo: la tirannide, la miseria, la malattia e la guerra stessa”. E finiva con l’invito: “Miei concittadini, non chiedetevi che cosa il vostro paese potrà fare per voi, ma che cosa potrete fare per il vostro paese”. E ancora: “Cittadini di tutto il mondo, non chiedetevi che cosa l’America farà per voi, ma che cosa potremo fare per la libertà dell’uomo”.

Con la presidenza Kennedy, con la cautela che ogni giudizio sulla storia recentissima richiede, sembra di poter dire che ebbe inizio un nuovo corso nella politica interna degli USA, dove nuovi fermenti e nuove forze erano maturati dopo la crisi maccartista e l’incerta politica di Eisenhower. Kennedy interpretò con giovanile entusiasmo e vigore il diffuso stato d’animo non solo dell’opinione pubblica americana, ma di larga parte dell’umanità verso un’era di pace e di fattiva cooperazione nei rapporti internazionali, dove si era stabilito un nuovo equilibrio tra le grandi potenze atomiche (USA) e (URSS), con l’accesso dell’Unione Sovietica alle più potenti armi termonucleari e con la raggiunta possibilità di colpire gli Stati Uniti con missili intercontinentali. Agli amici e agli avversari, Kennedy espose il suo programma politico ispirato a una larga strategia di pace. La sua attenzione venne rivolta in politica interna verso quei gruppi sociali più poveri. Spinse il Congresso degli Stati Uniti a votare un progetto di legge sui diritti civili dei negri ancora segregati dalla società dei bianchi. Destò grande entusiasmo il discorso che tenne davanti al muro di Berlino, nell’estate del 1963, durante uno dei suoi viaggi in Europa: “La libertà presenta molti problemi e la democrazia non è perfetta, ma noi non dobbiamo costruire un muro per tenere dentro il nostro popolo. Tutti gli uomini liberi, ovunque vivano sono cittadini di Berlino, quindi come uomo libero, sono fiero di dire, sono berlinese”.

I mille giorni della presidenza Kennedy furono funestati, in politica estera, da decisioni prese in modo affrettato e irresponsabile, come l’appoggio dato alla tentata invasione nella baia di Playa Giron a Cuba, organizzata da elementi anticastristi (aprile 1961), dall’intervento nel Vietnam con l’invio di consiglieri militari americani direttamente impegnati nella battaglia. Ma il giovane Kennedy seppe anche farsi apprezzare per delle decisioni prese con una certa dose di coraggio e nella ferma volontà di opporsi con ogni mezzo alla minaccia militare sovietica. L’installazione di rampe missilistiche a Cuba da parte dell’URSS (Ottobre 1962) portò al blocco navale americano intorno all’isola. Le navi americane avevano avuto l’ordine di attaccare qualsiasi convoglio di navi straniere dirette a Cuba. Il mondo rimase per alcune settimane con il fiato sospeso sotto l’incubo di una nuova guerra mondiale che, per i terribili ordigni atomici, non avrebbe risparmiato nessuno. La prova di forza tra USA e URSS fu risolta con lo smantellamento delle basi missilistiche sovietiche esistenti in territorio cubano. Il prestigio di J. Kennedy ne uscì rafforzato presso l’opinione pubblica americana ma anche mondiale. Nell’indimenticabile viaggio compiuto in Europa nell’estate del 1963, con l’intento di allacciare più stretti legami di cooperazione con tutte le democrazie occidentali, mai altro presidente americano ha goduto di così grande popolarità come J. F. Kennedy. Il soggiorno italiano a Napoli fu l’apoteosi per il giovane presidente americano che, in piedi sulla macchina scoperta, rispondeva con ampi sorrisi agli applausi della folla che più volte ruppe i cordoni di sicurezza per avvicinare, guardare, toccare, ammirare da vicino la bellezza, la forza, il fascino che la persona di J. Kennedy comunicava. C’era poi il mito della giovane famiglia di Kennedy: la moglie Jacqueline Bouvier, i figli, Carolina e John John, il più piccolo. Jacqueline portava alla Casa Bianca tutte le migliori personalità del mondo dello spettacolo, John le migliori teste d’uovo dell’America di quegli anni.

Il 3 Giugno del 1961 incontrava a Vienna il presidente del Soviet supremo dell’Unione Sovietica N. Kruscev. Era l’inizio della distensione tra i due più grandi e potenti stati del mondo dalla cui iniziativa dipendevano la pace e la cooperazione tra i popoli. Ma era in politica interna che  Kennedy trovava le opposizioni più forti, soprattutto in quegli Stati del profondo Sud, sempre stati razzisti e dove in qualche modo, molti si sentivano minacciati dalla politica Kennediana della Nuova Frontiera che tendeva sostanzialmente all’uguaglianza. E proprio in uno di questi stati, il Texas, Kennedy cadde colpito a morte il 22 Novembre del 1963, dal presunto assassino Lee Oswald, assassinato a sua volta da J. Rubinstein. L’attentato sconvolse il mondo. In Russia, la signora Kruscev pianse. Suo marito, il premier sovietico, fu il primo a visitare l’ambasciatore americano a Mosca e a firmare il libro delle condoglianze. Piansero i cronisti, avvezzi alle tragedie. Il maresciallo Tito in Jugoslavia era così sopraffatto dalla commozione da poter a stento a parlare. Migliaia di giovani americani, sentendo la notizia, andarono agli aeroporti. Volarono a Washington, passarono tutta la notte al gelo, per sfilare davanti alla bara del presidente. Ci fu un momento in cui la coda, a file di cinque persone, raggiunse i cinque chilometri di lunghezza. I Berlinesi misero le candele alle finestre, su proposta di Willy Brandt. I taxisti di Roma lasciarono davanti all’ambasciata americana un taxi vuoto con una corona di fiori appoggiata. Laurence Olivier, dopo uno spettacolo all’Old Vie di Londra, ordinò al pubblico di alzarsi mentre l’orchestra suonava l’inno americano. I membri del parlamento inglese piansero quando Harold Mac Millan, con volto pallido e voce incerta, rese il suo omaggio. Un giornalaio di New York appese un cartello che diceva: “Chiuso per lutto nella famiglia americana”. I contadini del Sud America ritagliarono la foto di Kennedy dai giornali e l’appesero sui muri delle loro case. I funerali commossero il mondo ma che importava: “La gioia e l’entusiasmo di J. F. Kennedy appartenevano ormai ad ogni uomo e così il dolore e la pena per la sua morte”.

Raimondo Giustozzi

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