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Cultura. Cristo si è fermato ad Eboli.

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Cristo si è fermato a Eboli è un romanzo autobiografico di Carlo Levi, scritto tra il dicembre 1943 e il luglio 1944 a Firenze e pubblicato da Einaudi nel 1945. Lo scrittore fu condannato al confino in Lucania, negli anni 1935 – 1936, a causa della sua attività antifascista e dovette quindi trascorrere un lungo periodo ad Aliano, che nel libro viene chiamato Gagliano, imitando la pronuncia locale, dove ebbe modo di conoscere la realtà di quelle terre e della loro popolazione. Al ritorno dal confino, Levi, dopo aver trascorso un lungo periodo in Francia, scrisse il romanzo nel quale rievoca il periodo trascorso a Gagliano e quello precedente a Grassano.

Lo stesso Levi nella prefazione al romanzo: “Come in un viaggio al principio del tempo, Cristo si è fermato a Eboli racconta la scoperta di una diversa civiltà. È quella dei contadini del Mezzogiorno: fuori della Storia e della Ragione progressiva, antichissima sapienza e paziente dolore. Il libro tuttavia non è un diario; fu scritto molti anni dopo l’esperienza diretta da cui trasse origine, quando le impressioni reali non avevano più la prosastica urgenza del documento”.

 

TRAMA

Levi, lasciato Grassano, prima tappa del suo confino, racconta di essere giunto a Gagliano in un pomeriggio di agosto accompagnato da “due rappresentanti dello Stato, dalle bande rosse ai pantaloni e dalle facce inespressive”, provando un grande dispiacere per aver dovuto dire addio al paese dove stava precedentemente, in cui si trovava piuttosto bene.

Arrivato a Gagliano, viene “scaricato e consegnato al segretario comunale, un uomo magro e secco, duro d’orecchio, con dei baffi neri a punta sul viso giallo, e la giacca da cacciatore” e, dopo essere stato presentato al podestà e al brigadiere, rimane solo in mezzo alla strada. Per Levi, il primo impatto è molto brusco: una prima occhiata lo convince che i tre anni di confino che avrebbe dovuto trascorrere in quel luogo sarebbero stati molto lunghi e oziosi e l’immagine del paese, così chiuso e sperduto, suggeriscono subito alla sua mente l’idea della morte: “Mi accorsi allora che il paese non si vedeva arrivando, perché scendeva e si snodava come un verme attorno ad un’unica strada in forte discesa, sullo stretto ciglione di due burroni, e poi risaliva e ridiscendeva tra due altri burroni, e terminava nel vuoto. La campagna che mi pareva di aver visto arrivando, non si vedeva più; e da ogni parte non c’erano che precipizi di argilla bianca, su cui le case stavano come librate nell’aria; e d’ognintorno altra argilla bianca, senz’alberi e senz’erba, scavata dalle acque in buche, coni, piagge di aspetto maligno, come un paesaggio lunare. Le porte di quasi tutte le case, che parevano in bilico sull’abisso, pronte a crollare e piene di fenditure, erano curiosamente incorniciate di stendardi neri, alcuni nuovi, altri stinti dal sole e dalla pioggia, sì che tutto il paese sembrava a lutto, o imbandierato per una festa della Morte. Seppi poi che è usanza porre questi stendardi sulle porte delle case dove qualcuno muore, e che non si usa toglierli fino a che il tempo non li abbia sbiancati” (Carlo Levi, Cristo si è fermato ad Eboli, pag. 7, Torino Einaudi 2014).  Dopo aver osservato il paese, si avvia verso quello che sarà il primo alloggio suggeritogli dal segretario, la cui cognata, rimasta vedova, ha in casa sua una camera che affitta ai rari viandanti di passaggio e vive a pochi passi dal municipio. Dalla vedova verrà in seguito a conoscenza di molte cose riguardo al luogo e alla gente che abita il paese.

Durante la sua prima passeggiata in paese conosce il podestà don Luigi Magalone detto Luigino: “E’ un giovanotto alto, grosso e grasso, con un ciuffo di capelli neri e unti che gli piovono in disordine sulla fronte, un viso giallo e imberbe da luna piena, e degli occhietti neri e maligni, pieni di falsità e di soddisfazione. Porta gli stivaloni, un paio di brache a quadretti da cavallerizzo, una giacchetta corta, e giocherella con un frustino. E’ il professor Magalone Luigi, ma non è un professore. E’ il maestro delle scuole elementari di Gagliano; ma il suo compito principale è quello di sorvegliare i confinati del paese… una decina in tutto. Non devo vederli perché è proibito. Del resto sono gentaglia, operai, robetta. Io invece sono un signore, un pittore, un dottore, un uomo di cultura. Anch’egli è un uomo colto, ci tiene a farmelo sapere. Con me egli vuole essere gentile, siamo dello stesso rango” (pag. 11, 12). Il podestà suggerisce a Levi di stare alla larga da tutti, perché c’è molta gente cattiva. Lo informa che a Gagliano si troverà bene perché “Il paese è salubre e ricco. Un po’ di malaria, cosa da nulla. I contadini sono quasi tutti piccoli proprietari, nell’elenco dei poveri non c’è quasi nessuno. E’ uno dei paesi più ricchi della provincia” (pag. 12). Don Luigino mente spudoratamente su tutto. La malaria e la povertà sono due mali endemici. Suggerisce tuttavia a Levi di esercitare la professione di medico, come d’altronde aveva cercato di fare appena arrivato a Gagliano, prima di incontrarsi con lui, ma senza riuscire a fare nulla di buono. Il malato era morto di lì a poco, ma era bastata questa vicinanza alla popolazione per farlo sentire come diverso dagli altri medici del paese, definiti sbrigativamente dai contadini del posto come “medicaciucci”: l’uno il dottor Milillo, zio del podestà, l’altro il dott. Gibilisco. Il podestà convincerà lo zio ad accettare la sua concorrenza, ma mette in guardia Carlo Levi di stare molto attento al dottor Gibilisco che nella sua cattiveria è capace di tutto. Levi, per tutto il suo lungo soggiorno a Gagliano, si sentirà piuttosto angosciato ogni qualvolta, gli sarà richiesta una consulenza medica, perché sente che l’ingenua fiducia di quei contadini che si affidano a lui “chiedeva un ricambio“, ed egli poteva contare su una sufficiente preparazione di studi ma non aveva la pratica, e la sua mentalità era molto lontana da quella scientifica “fatta di freddezza e di distacco”. Ciononostante i contadini gli saranno sempre grati perché lo sentono vicino a loro. Il dottor Milillo ha circa una settantina d’anni, “le guance cascanti e gli occhi lagrimosi e bonari di un vecchio cane da caccia. E’ imbarazzato e lento nei movimenti, più per natura che per età. Le mani gli tremano, le parole gli escono balbettanti, tra un labbro superiore enormemente lungo, e uno inferiore cadente. La prima impressione è di un buon uomo, completamente rimbecillito” (pag. 12, 13). Il dottore non è molto felice dell’arrivo di Levi, ma questi lo rassicura dicendo che non ha nessuna intenzione di fare il medico, cosa che rende il primo felice. Come il nipote, anche lui “Si sente obbligato a mostrarmi la sua cultura, cercando negli angoli bui della memoria qualcosa di antiquato termine medico rimasto là dagli anni dell’Università, come un trofeo d’armi dimenticato in soffitta. Ma attraverso il suo balbettio capisco una cosa sola: che egli di medicina non sa più nulla, se pure ne ha mai saputo qualcosa”. Ha studiato all’università di Napoli, ma i ricordi delle cose studiate sono spariti: “I rottami delle perdute conoscenze galleggiano senza più senso, in un naufragio di noia, su un mare di chinino, medicina unica per tutti i mali”. I contadini ormai non si rivolgono più a lui per le visite, preferendo le cure con la magia. Il dottor Milillo mette in guardia Carlo Levi dall’avvicinare le donne: “Si guardi soprattutto dalle donne. Lei è un giovanotto, un bel giovanotto. Non accetti nulla da una donna. Né vino, né caffè, nulla da bere o da mangiare. Certamente ci metterebbero un filtro. Lei piacerà di sicuro alle donne di qui. Tutte le faranno dei filtri. Non accetti nulla dalle contadine –  Anche il podestà è dello stesso parere. Questi filtri sono pericolosi. Berli non è piacevole. Disgustoso anzi” (pag. 13). Mentre scende su Gagliano l’ombra della sera, Levi vede che “Il nemico del podestà, il medico che passeggia solitario, ha certo una grande curiosità di conoscermi”. E’ il dottore Gibilisco. “È’ un uomo anziano, grosso, panciuto, impettito, con una barba grigia a punta e dei baffi che piovono su una bocca larghissima, piena zeppa di denti gialli e irregolari. Porta gli occhiali, una specie di cilindro nero in capo, una redingote nera spelacchiata, e dei vecchi pantaloni neri lisi e consumati. Brandisce un grosso ombrello nero di cotone, quell’ombrello che gli vedrò poi portare sempre aperto, con sussiego, in modo perfettamente verticale, estate e inverno, con la pioggia o col sole, come il sacro baldacchino sul tabernacolo della propria autorità.” E’ indispettito, come il dottor Milillo, dal fatto che i contadini non si rivolgano più a lui per le visite, oppure che non vogliano pagare. Anche lui ci tiene a mostrare la sua conoscenza ma “la sua ignoranza è molto peggiore di quella del vecchio. Egli non sa assolutamente nulla e parla a caso. Una sola cosa sa, che i contadini esistono unicamente perché Gibilisco li visiti, e si faccia dare denaro e cibo per le visite; e quelli che gli capitano sotto devono pagarla per gli altri che gli sfuggono.  L’arte medica per lui non è che un diritto feudale di vita e di morte sui cafoni; e perché i poveri pazienti si sottraggono volentieri a questo ius necationis, un continuo furore, un odio di bestia feroce contro il povero gregge contadino. Se le conseguenze non sono spesso mortali, non è certo mancanza di buone intenzioni, ma soltanto il fatto che, per uccidere con arte un cristiano, ci vuole pure una qualche briciola di scienza” (pag. 15). Egli ritiene che i contadini esistano solamente perché lui li visiti, ma curarli con una o un’altra medicina è per lui indifferente. “Il diritto di Gibilisco è ereditario: suo padre era medico, suo nonno anche”. Una volta aveva una farmacia, ereditata da un suo fratello farmacista. Morto il fratello, “La farmacia non ha trovato successori e avrebbe dovuto essere chiusa; ma è stato ottenuto attraverso qualche amico alla Prefettura di Matera che essa possa continuare a funzionare, per il bene della popolazione, fino a esaurimento delle scorte, ad opera delle due figlie del farmacista, che non hanno fatto studi e non potrebbero perciò essere autorizzate alla vendita dei veleni. Le scorte, naturalmente, non finiranno mai; un po’ di qualche polvere indifferente viene messa nei barattoli mezzi vuoti; così si diminuisce il pericolo degli errori nelle pesate. Ma i contadini sono ostinati e diffidenti. Non vanno dal medico, non vanno alla farmacia, non riconoscono il diritto. E la malaria, giustamente, li ammazza” (pag.15, 16). Prima che il sole tramonti definitivamente dietro il monte Pollino, Carlo Levi fa la conoscenza con il brigadiere dei carabinieri “Un bel giovane bruno, pugliese, dai capelli impomatati, con un viso cattivo, stretto in un’elegante uniforme attillata, dalla vita sottile; con stivali lucenti, profumato, frettoloso e sprezzante. E’ l’amante della levatrice, una donna alta e secca e un po’ storta, dagli occhioni romantici, lucidi e pieni di languore, con un lungo viso da cavallo; mal vestita, indaffarata, con dei gesti e degli accenti sentimentali ed eccessivi, come una diva da caffè- concerto di provincia” (pag. 16). Il brigadiere è il braccio secolare del podestà. Confabulano sempre assieme nel corso della giornata. Con la scusa di controllarla, in paese si dice che il brigadiere sia anche l’amante della bella mafiosa siciliana confinata. Nella passeggiata serale, Levi conosce anche “tre signori vestiti di nero, con panciotti a doppia fila di bottoni, a foggia antica, che fumano in silenzio, sono tre proprietari pieni di sussiego e di tristezza… l’avvocato S.  è un uomo buono e triste, pieno di sfiducia e di disprezzo per il mondo dove gli tocca vivere. L’anno scorso gli è morto l’unico figlio maschio, e le sue due belle figlie, Concetta e Maria, da allora non sono mai più uscite di casa, neppure per andare a messa… Quel vecchio dalla lunga barba bianca che gli scende sul petto, che fuma vicino all’avvocato, è l’ex ricevitore postale a riposo, compare del dottor Gibilisco. Si chiama Poerio, l’unico resto di un ramo gaglianese della famosa famiglia di patrioti. E’ sordo e malato” (pag. 16, 17). Tutte queste notizie, Carlo Levi le ha dall’avvocato P, un giovanotto allegro, laureatosi qualche anno prima a Bologna, ma senza nessuna tendenza agli studi né ambizione professionale. Venuto in possesso di una cospicua eredità lasciatagli da uno zio, si era dato ai bagordi, dilapidando nel gioco quasi tutto. Gli fa compagnia un suo compagno di bevute e di passatella, maestro supplente alla scuola elementare. Carlo Levi, in questa sua prima giornata trascorsa a Gagliano, fa in tempo a conoscere don Cosimino, “un gobbetto dal viso arguto”, addetto all’ufficio postale, luogo frequentato assiduamente dal podestà e dal brigadiere, intenti a “controllare curiosamente le lettere di tutti”. Don Cosimino informa Carlo levi che in paese ci sono due confinati politici: un muratore comunista di Ancona, l’altro è uno studente di scienze politiche di Pisa. Levi vede poi arrivare “zoppicante l’arciprete don Trajella, piccolo e magro, col grande pendaglio rosso sul cappello”, non salutato da nessuno dei presenti.  

Il giorno successivo, all’uscita di casa, Carlo Levi è circondato da una decina di donne del paese, con in bimbi in collo o per mano: “Erano tutti pallidi, magri, con dei grandi occhi neri e tristi nei visi cerei, con le pance gonfie e tese come tamburi sulle gambette storte e sottili. La malaria, che qui non risparmia nessuno, si era già insediata nei loro corpi denutriti e rachitici” (pag. 34). Le donne supplicano Carlo Levi che guardi e curi i loro figli. Levi dà loro qualche consiglio, rimanendo “stupito e vergognoso di tanta fiducia immeritata”, perché non ha i mezzi per intervenire come vorrebbe. Continuando nella sua passeggiata, Levi, trovando che la chiesa non è poi così lontana dalla casa della vedova dove è alloggiato, si spinge verso la canonica, dove incontra don Trajella, conosciuto il giorno prima, fatto oggetto di sberleffi e boccacce da parte di un gruppo di ragazzi che lui tiene lontani minacciandoli con un lungo bastone, mentre quelli si chinano in terra a raccattare delle pietre nell’atto di scagliargliele addosso. Il sacerdote porta  “degli occhiali di ferro a stanghetta su un naso affilato, all’ombra del pendaglio rosso che scendeva dal cappello, e dietro agli occhiali degli occhietti pungenti, che passavano rapidamente da una fissità ossessionata a un brillare brusco di arguzia. La bocca sottile gli cascava in una piega di abituale amarezza. Sotto l’abito sporco e sdrucito, pieno di frittelle e sbottonato, spuntavano gli stivali scalcagnati e pieni di polvere. Non era amato da nessuno in paese, e dai signori del luogo, l’avevo sentito la sera prima nella loro conversazione, era addirittura esecrato. L’arciprete, se ne guardi, – mi aveva detto il suo podestà. – E’ una disgrazia per il nostro paese: una profanazione della casa di Dio. E’ sempre ubriaco. Non ci è ancora stato possibile liberarcene, ma speriamo di poterlo presto cacciar via. Almeno a Gaglianello, la frazione che è la sua vera sede” (pag. 36). L’essere odiato dai suoi parrocchiani, li fa odiare: “Trajella odiava il mondo, perché il mondo lo perseguitava. Si era ridotto a vivere da solo, senza parlare con nessuno, nella sola compagnia di sua madre, una vecchia di novant’anni, inebetita e impotente. Il suo solo conforto (oltre alla bottiglia, forse) era di passare il giorno a scrivere epigrammi latini contro il podestà, i carabinieri, le autorità e i contadini. – E’ un paese di asini, questo, non di cristiani, – mi disse, invitandomi a entrare in chiesa.  Lei sa il latino, vero? Gallianus, Gallianellus/ asinus et asellus/ nihil aliud in sella/ nisi Joseph Trajella”( pag. 37). La chiesa è ridotta in uno stato a dir poco pietoso. Durante le messe domenicali è pressoché vuota, ad eccezione del giorno di Natale, ma don Trajella, presentatosi ubriaco per la predica, verrà cacciato da Gagliano.

Nei giorni successivi al suo arrivo, Carlo Levi conosce donna Caterina Magalone Cuscianna, sorella del podestà. “Di viso assomigliava al fratello, ma con un aspetto più volontario e appassionato. Gli occhi aveva nerissimi, come i capelli; la pelle lucida e giallastra e i denti guasti le davano un aspetto malsano (pag. 47). Suo marito era partito volontario per la guerra d’Africa. Aveva un aspetto autoritario e in paese circolava voce che lei fosse la vera detentrice del potere, non il fratello e questa autorità si percepisce già della voce . “Parlava con una voce alta, stridula, sempre tesa ed esagerata”. Si occupa lei di cercare una casa a Don Carlo e di procurargli un’aiutante: Giulia. Provava inoltre un odio esagerato verso la famiglia del dottor Gibilisco e le donne che tengono la sua farmacia: “Caterina odiava quelle donnacce della farmacia, odiava il loro zio, il dottor Concetto Gibilisco, odiava tutto il partito dei parenti. Io dovevo ridurre Gibilisco sul lastrico, e far chiudere la farmacia, o farla togliere alle sue nipoti. Donna Caterina era una donna attiva e immaginativa. Era la vera padrona del paese. Molto più intelligente del fratello, e più volontaria, sapeva di poter fare di lui quello che voleva, pur di lasciargli l’apparenza dell’autorità. Che cosa fossero il fascio e il fascismo, non le interessava e non lo sapeva” (pag. 49). E’ anche un’ottima cuoca di dolci e marmellate, come ha modo di provare Levi quando va a visitarla a casa sua.

A spezzare la monotonia di quei lunghi giorni sarà l’arrivo di sua sorella Luisa, che lo incoraggia e lo consiglia, portandogli dei medicinali e alcuni strumenti per curare i contadini del luogo.

Nella ricerca della solitudine, l’unico luogo che Carlo Levi trova è il cimitero, il quale è situato poco fuori dal paese. Qui egli è solito sdraiarsi sul fondo di una fossa per contemplare il cielo e lì finisce spesso per addormentarsi, con il suo cane Barone ai suoi piedi: “Di media grandezza, tutto bianco, con una macchia nera sulla punta delle orecchie, che aveva lunghissime e pendenti ai lati del viso” (pag. 101). Gli era stato donato dagli abitanti di Grassano. Il cimitero di Gagliano invece è anche l’unico posto dove il paesaggio rompe la sua monotonia. È qui perciò che Levi prende l’abitudine di dipingere, spesso sorvegliato da un carabiniere mandato dal troppo prudente podestà. Su interessamento di donna Caterina, di almeno venti donne che potevano curare la casa di Carlo Levi, “alcune troppo sporche e disordinate, altre incapaci di tenere civilmente la casa”, donna Caterina decide che “una sola fa veramente per lei: è pulita, onesta, sa far da mangiare, e poi la casa dove lei va ad abitare è un po’ come fosse la sua. Ci ha vissuto molti anni col prete buon’anima, fino alla sua morte. La donna è Giulia Venere, detta la Santarcangelese, perché nata in quel paese bianco , di là dall’Agri” (pag. 91).

Dopo aver soggiornato per venti giorni a casa della vedova, egli si trasferisce ad abitare in una casa che era del precedente parroco di Gagliano, don Rocco Macioppi; in questo luogo Levi si trova a proprio agio, soprattutto grazie al fatto che la casa è situata nella parte esterna del paese, lontano dagli sguardi inquisitori del podestà. Si presenta il problema di trovare una donna per fare le pulizie, prendere l’acqua alla fontana e preparare da mangiare, e a questo proposito Levi dice: “ Il problema era più difficile di quanto credessi: e non perché mancassero donne a Gagliano, che anzi, a decine si sarebbero contese quel lavoro e quel guadagno. Ma io vivevo solo e nessuna donna poteva entrare, da sola, in casa mia. Lo impediva il costume, antichissimo e assoluto, che è fondamento del rapporto fra i sessi”. Donna Caterina risolve il problema trovandogli come domestica Giulia, una delle tante “streghe” di Gagliano, ovvero una di quelle donne che avevano avuto molti figli da padri diversi e che praticavano delle specie di “riti magici“.

Nata a Santarcangelo, Giulia Venere, la Santarcangelese, di anni quarantuno, aveva avuto diciassette gravidanze da quindici padri diversi. Il marito era partito per l’America con il suo primo figlio senza dar più notizie alla moglie, aveva poi avuto due gemelli dal prete, cosa che nel paese non veniva interpretata come offesa al sacerdozio. Molti figli erano morti da piccoli, con lei viveva solo uno, Nino, di sei anni, che portava sempre con sé sotto lo scialle. Viene descritta “alta e formosa, con un vitino sottile come quello di un anfora, tra il petto e i fianchi robusti. Doveva aver avuto, nella sua gioventù, una specie di barbara e solenne bellezza. Il viso era ormai rugoso per gli anni e giallo per la malaria. Sul grande corpo imponente, diritto, spirante una forza animalesca, si ergeva, coperta dal velo, una testa piccola, dall’ovale allungato. La fronte era alta e diritta, mezza coperta da una ciocca di capelli nerissimi e unti; gli occhi a mandorla, neri e opachi, avevano il bianco venato di azzurro e di bruno, come quello dei cani. Il naso era lungo e sottile, un po’ arcuato; la bocca larga, dalle labbra sottili e pallide, con una piega amara, si apriva per un riso cattivo a mostrare due file di denti bianchissimi, potenti come quelli di un lupo”( pag. 91,92). Accetta di venire a lavorare nella casa di Don Carlo, nella quale aveva già lavorato per il vecchio prete, perché lei è esente dalla regola comune che vieta a una donna di entrare in casa di un uomo se non accompagnata. Infatti lei è una strega e di streghe nel paese ce ne sono una ventina e Levi le definisce donne “che avessero avuto molti figli di padre incerto, che senza poter essere chiamate prostitute, facessero tuttavia mostra di una certa libertà di costumi, e si dedicassero insieme alle cose dell’amore e alle pratiche magiche per procacciarlo”. Alla fine il suo amante, il barbiere, la costringe, perché geloso, a non venire più a lavorare da Don Carlo.

Le persone alle quali Carlo Levi si affeziona per tutto il suo soggiorno a Gagliano sono i contadini. Vengono descritti con caratteri simili: “piccoli, neri,, con le teste rotonde, i grandi occhi e le labbra sottili, nel loro aspetto arcaico essi non avevano nulla dei romani, né dei greci, né degli etruschi, né dei normanni, né degli altri popoli conquistatori passati sulla loro terra, ma mi ricordavano le figure italiche antichissime. Pensavo che la loro vita, nelle identiche forme di oggi, si svolgeva uguale nei tempi più remoti, e che tutta la storia era passata su di loro senza toccarli. Delle due Italie che vivono insieme sulla stessa terra, questa dei contadini è certamente più antica, che non si sa donde sia venuta, che forse c’è sempre stata” (pag. 123). Le loro credenze, come i monachicchi e gli spiriti, colpiscono Levi, che le riporta però con una sottile ironia. “I monachicchi sono esseri piccolissimi, allegri, aerei: corrono veloci qua e là, e il loro maggiore piacere è di fare ai cristiani ogni sorta di dispetti. Fanno il solletico sotto i piedi agli uomini addormentati, tirano via le lenzuola dai letti, buttano sabbia negli occhi, rovesciano bicchieri pieni di vino, si nascondono nelle correnti d’aria e fanno volare le carte, e cadere i panni stesi in modo che si insudiciano, tolgono la sedia di sotto alle donne sedute, nascondono gli oggetti nei luoghi più impensati, fanno cagliare il latte, danno pizzicotti, tirano i capelli, pungono e fischiano come zanzare” (pag. 130).

I contadini ritengono che ogni cosa che viva derivi da Dio: “tutto è realmente e non simbolicamente, divino, il cielo come gli animali, Cristo come la capra”. Il loro è un mondo di sofferenza e, colpiti da ogni parte e da ogni cosa, ripongono le loro speranze nella magia, unico strumento utilizzabile per alleviare i dolori. Vivono in case “fatte di una sola stanza che serve da cucina, da camera da letto e quasi sempre anche da stalla per le bestie piccole, quando non c’è per quest’uso, vicino alla casa, un casotto che si chiama in dialetto, con parola greca, il catoico. I bimbi più piccini, finché prendono il latte, cioè fino ai tre o quattro anni, sono tenuti in piccole culle o cestelli di vimini, appesi al soffitto con delle corde, e penzolanti poco più in alto del letto. La madre per allattarli non deve scendere, ma sporge il braccio e se li porta al seno; poi li rimette nella culla, che con un solo colpo della mano fa dondolare a lungo come un pendolo, finché essi abbiano cessato di piangere. Sotto il letto stanno gli animali: lo spazio è così diviso in tre strati: per terra le bestie, sul letto gli uomini, e nell’aria i lattanti” (pag. 107). Carlo Levi entra più volte nelle loro case ed annota minuziosamente quello che vede: non un quadro né del re, né del duce, né tanto meno di Garibaldi, ma il quadro della Madonna di Viggiano e la fotografia di Roosevelt li ritrova il tutte le case, soprattutto in quelle che gli abitanti del posto chiamano degli americani, Gaglianesi emigrati in America e ritornati poi in paese. Tra tutti i contadini, gli “americani” sono quelli che stanno peggio. Hanno investito i loro risparmi nell’acquisto di piccoli appezzamenti di terra che non produce nulla. Vivono di rimpianto e di un bene perduto. Per tutti, “Roma non è nulla: è la capitale dei signori, il centro di uno stato straniero e malefico. Napoli potrebbe essere la loro capitale, e lo è davvero, la capitale della miseria, nei visi pallidi, negli occhi febbrili dei suoi abitatori, nei “bassi” dalla porta aperta pel caldo, l’estate, con le donne discinte che dormono a un tavolo, nei gradoni di Toledo; ma a Napoli non ci sta più da gran tempo nessun re. L’altro mondo è l’America.  Non a Roma o Napoli, Ma New York sarebbe la vera capitale dei contadini di Lucania, se mai questi uomini senza stato potessero averne una” (pag. 107, 108). “I contadini di Gagliano non si appassionano alla conquista dell’Abissinia, non si ricordavano più della guerra mondiale e non parlavano dei suoi morti; ma una guerra era in cima ai cuori di tutti, e su tutte le bocche, trasformata in leggenda, in fiaba, in racconto epico, in mito: il brigantaggio” (pag.121). A Gagliano, Carlo Levi si fermerà più volte a guardare la fossa del bersagliere dove i briganti avevano scaraventato un bersagliere sabaudo, negli anni della guerra al brigantaggio. Belle le pagine in cui Carlo Levi fa un excursus indietro nel tempo e parla dei conquistatori Fenici, dei Troiani, dei Romani poi e della “quarta guerra nazionale dei contadini, quella del brigantaggio. Anche qui, l’umile Italia storicamente aveva torto, e doveva perdere. Il brigantaggio non è che un accesso di eroica follia, di ferocia disperata: un desiderio di morte e di distruzione, senza speranza di vittoria” (pag. 125).

Dopo tre mesi di permanenza a Gagliano, gli giunge da Matera un permesso di tornare per alcuni giorni a Grassano, la sua precedente residenza, per sistemare alcuni effetti personali. Qui Levi torna indietro con la mente e con i ricordi, rincontra i vecchi amici e assiste a uno spettacolo di attori viaggianti dopo aver ottenuto il permesso di uscire alla sera dal dottor Zagarella, podestà di Grassano. Ma i pochi giorni di Grassano passano in fretta ed egli deve ripartire per ritornare nella solitudine gaglianese: “Una mattina presto, con un tempo grigio e incerto, l’automobile mi aspettava davanti alla porta. Salutato rumorosamente da Prisco e dai suoi figli e da Antonino e Riccardo, dissi addio a quel paese, dove non sono più tornato”.

Ormai l’inverno è alle porte, le giornate si accorciano e il clima peggiora. Con l’inverno giunge anche il Natale e con questo un fatto increscioso: il parroco, don Trajella, pronuncia la messa natalizia ubriaco, o fingendo di essere tale, simulando inoltre la perdita della predica e il ritrovamento “miracoloso” di una lettera spedita da parte di un contadino partito volontario per la guerra in Abissinia, contenente i saluti per tutto il paese. L’evento non suscita affatto l’approvazione del podestà Magalone, che fa successivamente in modo di cacciare il parroco. Un altro evento che suscita molto interesse nel paese è l’arrivo del sanaporcelle, erede dell’antica tradizione di famiglia di castrare le scrofe, togliendo le ovaie per farle ingrassare ancor di più.

Arriva la fine dell’anno: “Così finì, in un momento indeterminabile, l’anno 1935, quest’anno fastidioso, pieno di noia legittima, e cominciò il 1936, identico al precedente, e a tutti quelli che sono venuti prima, e che verranno poi nel loro indifferente corso disumano. Cominciò con un segno funesto, una eclissi di

Sole”. Verso aprile riceve un telegramma che gli annuncia la morte di un parente e la questura lo autorizza a recarsi, ben scortato, per pochi giorni, fino a Torino. Egli vede, in questa occasione, la città con occhi nuovi: guarda con distacco amici e parenti, rendendosi conto che la sua esperienza meridionale lo aveva cambiato profondamente sia nei modi di fare sia interiormente.

Al suo ritorno in Lucania lo aspettano alcune novità, tra le quali la scomparsa di Giulia, la sua domestica, a causa della gelosia dell’attuale compagno di lei e l’arrivo del nuovo parroco, sostituto di don Trajella, allontanato a causa degli avvenimenti natalizi. Don Pietro Liguari è il sostituto di Don Trajella. Prende alloggio nella vecchia casa del prete e subito il giorno dopo il suo arrivo invita Don Carlo a casa sua. “Era un uomo di una cinquantina d’anni, di media statura, grosso e piuttosto grasso, di un grasso pallido e giallastro. Gli occhi erano neri, spagnoli, pieni di astuzia. Aveva un viso grande e complesso, con un naso un po’ arcuato, labbra sottili, capelli neri. L’Arciprete aveva un viso tipico, il più italiano possibile in quegli anni.

Qualche tempo dopo, in mezzo all’euforia fascista per la conquista dell’Etiopia e al dispiacere dei contadini, Levi riceve la liberazione dal confino con due anni di anticipo e, con la descrizione del suo triste viaggio in treno, termina il romanzo: “Ma già il treno mi portava lontano, attraverso le campagne matematiche di Romagna, verso i vigneti del Piemonte, e quel futuro misterioso di esili, di guerre e di morti, che allora mi appariva appena, come una nuvola incerta nel cielo sterminato” (Firenze, dicembre 1943- luglio 1944).

 

Incipit del romanzo

“Sono passati molti anni, pieni di guerra, e di quello che si usa chiamare la Storia. Spinto qua e là alla ventura, non ho potuto finora mantenere la promessa fatta, lasciandoli, ai miei contadini, di tornare fra loro, e non so davvero se e quando potrò mai mantenerla. Ma, chiuso in una stanza, e in un mondo chiuso, mi è grato riandare con la memoria a quell’altro mondo, serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato, eternamente paziente; a quella mia terra senza conforto e dolcezza, dove il contadino vive, nella miseria e nella lontananza, la sua immobile civiltà, su un suolo arido, nella presenza della morte.

– Noi non siamo cristiani, – essi dicono, – Cristo si è fermato a Eboli –. Cristiano vuol dire, nel loro linguaggio, uomo: e la frase proverbiale che ho sentito tante volte ripetere, nelle loro bocche non è forse nulla piú che l’espressione di uno sconsolato complesso di inferiorità. Noi non siamo cristiani, non siamo uomini, non siamo considerati come uomini, ma bestie, bestie da soma, e ancora meno che le bestie, i fruschi, i frusculicchi, che vivono la loro libera vita diabolica o angelica, perché noi dobbiamo invece subire il mondo dei cristiani, che sono di là dall’orizzonte, e sopportarne il peso e il confronto. Ma la frase ha un senso molto piú profondo, che, come sempre, nei modi simbolici, è quello letterale. Cristo si è davvero fermato a Eboli, dove la strada e il treno abbandonano la costa di Salerno e il mare, e si addentrano nelle desolate terre di Lucania. Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né l’anima individuale, né la speranza, né il legame tra le cause e gli effetti, la ragione e la Storia. Cristo non è arrivato, come non erano arrivati i romani, che presidiavano le grandi strade e non entravano fra i monti e nelle foreste, né i greci, che fiorivano sul mare di Metaponto e di Sibari: nessuno degli arditi uomini di occidente ha portato quaggiù il suo senso del tempo che si muove, né la sua teocrazia statale, né la sua perenne attività che cresce su se stessa. Nessuno ha toccato questa terra se non come un conquistatore o un nemico o un visitatore incomprensivo. Le stagioni scorrono sulla fatica contadina, oggi come tremila anni prima di Cristo: nessun messaggio umano o divino si è rivolto a questa povertà refrattaria. Parliamo un diverso linguaggio: la nostra lingua è qui incomprensibile. I grandi viaggiatori non sono andati di là dai confini del proprio mondo; e hanno percorso i sentieri della propria anima e quelli del bene e del male, della moralità e della redenzione. Cristo è sceso nell’inferno sotterraneo del moralismo ebraico per romperne le porte nel tempo e sigillarle nell’eternità. Ma in questa terra oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale, ma è un dolore terrestre, che sta per sempre nelle cose, Cristo non è disceso. Cristo si è fermato a Eboli” (Carlo Levi, Cristo si è fermato ad Eboli, pag. 4, Torino Einaudi 2014).

 

Il film “Cristo si è fermato a Eboli”.

Nel 1979 uscì il film diretto da Francesco Rosi (Napoli, 15 novembre 1922 – Roma, 10 gennaio 2015), con lo stesso titolo del romanzo. Fu presentato fuori concorso al 32° Festival di Cannes. Ricevette il premio Donatello per il miglior film e regista. Il soggetto è opera di Carlo Levi, Tonino Guerra, Francesco Rosi. La sceneggiatura fu curata dallo stesso gruppo con l’aggiunta di Raffaele La Capria. Il cast degli attori era di tutto rispetto. Gian Maria Volonté vestiva i panni di Carlo Levi, Lea Massari quelli di Luisa Levi, la sorella dello scrittore piemontese. Alain Cuny era il Barone Rotundo. Una splendida Irene Papas si calava perfettamente nel personaggio di Giulia. Paolo Bonacelli era il Podestà, François Simon – don Traiella, Francesco Càllari era il dottor Gibilisco, Antonio Allocca – don Cosimino, Giuseppe Persia – l’esattore delle imposte, Tommaso Polgar – il sanaporcelle, Vincenzo Vitale – il dottor Milillo, Luigi Infantino – l’autista, Niccolò Accursio – il falegname, Frank Raviele – il brigadiere, Maria Antonia Capotorto era donna Caterina. Il film ricevette il Gran Premio nel 1979 al festival di Mosca e il premio BAFTA (British Academy of Fil and Television Arts), organizzazione britannica che premia annualmente opere cinematografiche televisive e interattive.

Raimondo Giustozzi

 

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