di Loretta Marcon
Esiste un aneddoto, poco conosciuto, che ho sempre considerato assai interessante e utile al tentativo di tratteggiare il ritratto umano di Giacomo Leopardi:
A Recanati, sulla via di Montemorello, di fronte al paesaggio che poté inspirare il lirismo solenne e possente dell’Infinito, v’è un masso che fu caro a Giacomo Leopardi, il quale vi si sedeva per attendere alla lettura o alla meditazione. Un vecchio negoziante che si prestava come guida al forestiero racconta, a tal proposito: «Mia nonna veniva qui sotto a far erba. Allora, al tempo del Poeta, non c’era la strada. Mia nonna si doleva che quel giovinetto se ne stesse lassù sulla balza, zitto e malinconico. E gli diceva talvolta: – Lei, signor conte, pensa troppo, a me pare. Non le fa male alla salute studiar tanto?
Giacomo Leopardi rispondeva: ‘Avete ragione, Maria Domenica. Non si dovrebbe studiare mai, non si dovrebbe pensare mai. Voi beata che cogliete erba e cantate!’ La mia nonna lo invitava a scendere allora nel campo; e lui scendeva, tutto buono e gentile. Aveva sempre una buona parola per i poveri e la mia nonna diceva che non poche volte egli la interrogava su questo e quel tal malato o moribondo del paese: ‘Che male ha?’, chiedeva. S’informava di tutto: e se qualcuno aveva malattia grave, voleva conoscere i sintomi, le fasi, le sofferenze. Qualche volta sparava il ferraiolo e diceva alla mia nonna: ‘Io non ho soldi, Maria Domenica, ma ne troverò e ve ne porterò’». Così riferisce Mario Puccini, che in una sua Passeggiata Leopardiana, pubblicata nel fascicolo di luglio della «Lettura», è guida commossa ed eloquente attraverso la città e i luoghi in cui si maturò la vita e la musa di Giacomo Leopardi. (Corriere della Sera del 19 luglio 1914).
«Non si dovrebbe studiare mai, non si dovrebbe pensare mai». Quanta filosofia leopardiana racchiusa nella semplicità di queste poche parole! Non si dovrebbe pensare perché il lavorìo mentale diviene simile a un «martirio del pensiero» gocciolante nella testa.
Noi viviamo oggi secondo i dettami della più lucida e fredda ragione; poco tempo ci resta, e dunque riserviamo, al sogno, al poetico, alla natura. Ma non sono forse solo questi che, insieme all’amore, ci possono aiutare a vivere? La nostra azione diventa spesso routine necessaria che, diventando quasi meccanica, spegne poco a poco ogni entusiasmo e ogni slancio. Secondo la visione leopardiana non somiglia certamente alle eroiche imprese del mondo antico che sapeva vivere e non solo esistere.
Spesso le parola vita ed esistenza vengono oggi usate indifferentemente e dunque pensate come interscambiabili. In realtà i termini non sono affatto sinonimi, come sottolinea Leopardi in alcune riflessioni tratte dallo Zibaldone:
la somma vera della vita, dov’è maggiore? in quello stato dove ancorchè gli uomini vivessero cent’anni l’uno, quella vita monotona e inattiva, sarebbe (com’è realmente) esistenza, ma non vita, anzi nel fatto, un sinonimo di morte? ovvero in quello stato, dove l’esistenza ancorchè più breve, tutta però sarebbe vera vita? Anche ponendo dall’una parte 100 anni di esistenza, e dall’altra non più che 40, o 30 di vita, la somma della vita, non sarebbe maggiore in quest’ultima? 30 anni di vita non contengono maggior vita che 100 di morta esistenza? (Zib. 626-627 del 8.2.1821)
Il quesito di Giacomoè allora quello che richiede una scelta: meglio vivere a lungo o vivere meno ed essere felice? Tradotto in linguaggio leopardiano: meglio «esistere» o meglio «vivere»?
Ma che vuol dire vivere? Vivere significa slancio, passione, progetto. Esistere designa invece quell’appiattimento “biologico”, quel lasciarsi andare alla quotidianità senza far nulla, senza alcun “risveglio vitale”.
Ecco allora un Leopardi che porta la sua esperienza personale e diviene “esempio”:
A voler vivere tranquillo, bisogna esser occupato esteriormente. Error mio nel voler fare una vita, tutta e solamente interna, a fine e con isperanza di esser quieto […]. Le persone massimamente di una certa immaginazione […] hanno più che gli altri, per viver quiete, necessità di fuggir se stesse, e quindi bisogno sommo di distrazione e di occupazione esterna. ( Zib. 4259 del 24.3.1827)
Ma se una vita di solo studio non offre tranquillità, neppure l’inazione dona all’uomo la quiete. Giacomo riprende l’argomento e specifica:
L’uomo che a tutto si abitua, non si abitua mai all’inazione. Il tempo che tutto alleggerisce, indebolisce, distrugge, non distrugge mai né indebolisce il disgusto e la fatica che l’uomo prova nel non far nulla (Zib. 1988 del 25.10.1821)
È certo infatti che l’uomo occupato o assorto in una qualche attività piacevole, è meno infelice del disoccupato, e di quello che vive vita uniforme senza distrazione alcuna” (Zib. 4043 del 8.3.1824).
Gli umili personaggi descritti negli Idilli diventanoanch’essi esempio.Quando Leopardi osserva lo «zappatore» che, fischiando, «riede alla sua parca mensa» pensando al riposo del giorno festivo, e il «legnaiuol, che veglia/ Nella chiusa bottega alla lucerna/», pensa malinconicamente alla propria «tristezza e noia» che non conoscono la pausa del giorno che precede la festa. Il suo pensiero continua anche al sabato: non c’è un sabato del villaggio per chi pensa troppo! Affacciato alla finestra del «paterno ostello», lasciati i libri sui quali, chinato e assorto, lasciava passare le ore, osservava con una quieta invidia quei personaggi che non conoscevano i tormenti che infligge il pensiero e cheappaiono fortunati ai suoi occhi. Prigioniero del proprio rango e del proprio pensiero, eglifa dire al suo personaggio Filippo Ottonieri : il modo di occupazione col quale la vita si fa manco infelice si è quello che consiste nel provvedere ai propri bisogni.
Ed invita a perseguire quelli che chiama i «piccoli fini della giornata» perché solo rimanendo occupato l’uomo non si affligge per la «vanità e il vuoto delle cose» e si sente riempito dai suoi piccoli progetti (Zib. 172 del 12-23.7.1820).
Leopardi maestro di vita? Sì, senz’altro! Maestro ed esempio se si pensa che nonostante il suo toccare la lucida verità della sofferenza, mai ha cessato di combattere, di «vivere» insomma, per quanto gli fu possibile:
In una lettera a Pietro Brighenti, nel giugno 1821, scriveva:
io sto qui, deriso, sputacchiato, preso a calci da tutti, menando l’intera vita in una stanza, in maniera che, se vi penso, mi fa raccapricciare. E tuttavia mi avvezzo a ridere e ci riesco. E nessuno trionferà di me, finché non potrà spargermi per la campagna e divertirsi a far volare la mia cenere in aria.
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