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Il territorio del fermano nelle pagine del libro “Al di là della collina” di Raymond Ellis

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Raymond Ellis era, nel settembre del 1943, un soldato inglese, che, evaso dal campo di prigionia N° 53 di Sforzacosta, trascorrerà assieme al compagno di prigionia Billy, evaso anche lui, quasi un anno, fino all’estate del 1944, con l’arrivo degli alleati, presso la famiglia Minicucci, a Massa Fermana, fino a diventare quasi un componente della stessa, protetto, nascosto e rifocillato. I Minicucci: “babbo” Alessandro e “mamma” Paolina, come li chiama affettuosamente nel libro, vivono assieme a tutti gli altri componenti della famiglia: Giacinta, “la nonna”, Igino e sua moglie Nicolina, Maria e Costantina, Caterina, i bambini: Pierino, Delia, Benito, Egidio, Aurelio. Accanto alla famiglia Minicucci, R. Ellis imparerà a conoscere anche quella dei Lavoresi, con i quattro fratelli: Daniele, Umberto, Armando e Davide, tutti con moglie e figli, Nerina, la figlia di Umberto, Elena, la figlia di Daniele, dallo “sguardo tenero ed accogliente”. Poi ci sono i paesi “arroccati sulla cima dei colli a poca distanza da noi: Massa Fermana, Montappone, Monte Vidon Corrado, Monte Giorgio e Mogliano”. Il titolo del libro “Al di là della collina” è spiegato dall’autore stesso: ”Uno dei miei passatempi preferiti era stare seduto ad osservare una collina piuttosto vicina al campo…era diventata per me quasi un’ossessione scoprire che cosa si trovasse al di là di quella collina”. L’autore lo scoprirà dopo l’evasione dal campo.

Nei giorni a seguire imparammo a conoscere bene l’ambiente naturale di quella regione dell’Italia centrale situata ad est degli Appennini. Sono tuttora dell’idea che essa offra alcuni dei più incantevoli paesaggi del mondo, con quella miriade di città e paesi arroccati sulla cima delle innumerevoli colline che si susseguono senza soluzione di continuità dalle montagne al mare. Ci accorgemmo che non esiste un millimetro di terreno pianeggiante ai piedi di quei colli, dove vedevamo tanti gruppi famigliari. Lavoravano faticosamente in mezzo a campi inclinati alle angolature più bizzarre. Il terreno che lavoravano era sovente così ripido, da rendere loro difficile mantenere la posizione eretta”(Raymond Ellis – Al di là della collina – Memorie di un soldato inglese prigioniero nelle Marche, pag. 75, Affinità elettive, Ancona, 2001).

Nella disordinata fuga, Ellis ed il suo compagno vagano senza meta, spingendosi verso la distesa azzurra del mare Adriatico: “Ritengo che ci trovassimo dalle parti di Civitanova … o forse nei dintorni di Cascinare, ma non ho potuto mai appurarlo. Non ricordo neppure che giorno fosse, so solo che il viaggio durò molti giorni dopo la fuga dal campo” (pag. 79). La sosta rivela loro che stanno andando nella bocca del lupo. Poco lontano infatti scorgono la statale adriatica e la linea ferroviaria percorse in ambo le direzioni da convogli militari tedeschi. Decidono allora di ritornare indietro, dirigendosi verso ovest: “I versanti delle colline non offrivano nessuna copertura e più in basso si intravedeva una vallata ampia e fertile che ritengo essere quella del fiume Chienti. Era intensamente coltivata e praticamente priva di alberi. Il fianco della collina era talmente scosceso, che l’unico modo per discenderlo era seguire una carrareccia assai tortuosa, che alla fine ci permise di arrivare in fondo incolumi” (pag. 80).  Arrivano a Massa Fermana dove vengono accolti dalla famiglia Minicucci, tanto da diventarne quasi dei nuovi componenti. Condividono con loro il lavoro nei campi a spaccar zolle: “Il nostro compito era quello di dissodare la terra, frantumando le grosse zolle…La fila dei contadini avanzava compatta, passo dopo passo, zappando senza sosta quella terra ingrata. Le donne chiacchieravano senza posa e col passare delle ore il sole si faceva sempre più caldo. Passò un’eternità, o almeno così mi sembrò, quando una delle donne che era rimasta indietro si fece strada verso di noi, portando sulla testa una grande cesta rotonda. Era la colazione. Ci sedemmo nella polvere per ricevere la nostra porzione: frittata e pane secco, che mandammo giù con un sorso di vino” (pag. 89). Raymond Ellis aiuta nella stalla, porta le mucche ed i cavalli nell’abbeveratoio lontano dalla casa colonica, mentre il suo amico Bill “si offre di cucire e rammendare i vestiti di tutti”. Raymond Ellis, con il passare del tempo scopre che i contadini lavoravano la terra per conto del padrone, “un signore feudale che viveva in una casa molto grande, visibile a distanza, dall’altra parte della valle. Quell’uomo facoltoso possedeva quasi tutta la terra dei dintorni. C’erano numerosi poderi come il nostro ed egli reclamava per sé  la metà di tutto quello che producevano. Inoltre pretendeva che almeno due membri di ciascuna famiglia andassero a lavorare nella sua tenuta un giorno alla settimana. Per questa prestazione essi non ricevevano nessun compenso” (pag. 93, 94). Era il medievale patto di mezzadria. E viene anche il momento della vendemmia: “Ci recammo nella vigna tutti insieme, portando cesti e cesoie, e la vendemmia ebbe inizio. Sul viottolo che fiancheggiava la vigna stavano due buoi aggiogati a un veicolo privo di ruote, chiamata “treggia”. E’ un termine dialettale che non ho mai visto scritto. Assomigliava ad una grossa slitta. La terra era secca e compatta e con la treggia ci si spostava agevolmente all’interno del podere. Inoltre era un veicolo più economico da realizzare, rispetto a un carro. Sulla treggia c’era una grande cesta, in cui gettavamo i grappoli recisi… I buoi pazienti andavano avanti e indietro tra la casa e la vigna, senza sosta, trainando la treggia col suo carico d’uva… Venne la sera e ci trascinammo a fatica verso casa. Non potevo credere ai miei occhi. Là davanti alla casa, c’era un’alta montagna d’uva, che arrivava fino alle finestre delle stanze da letto. Era una cista sorprendente per un inglese, abituato a pensare all’uva come al cibo che si offre abitualmente a un malato, quando lo si va a trovare e che resta poi lì sul comodino, senza che nessuno la mangi. Era uno spettacolo straordinario. Uomini gettavano grappoli in cima al mucchio d’uva con un forcone; era una scena che aveva dell’incredibile” (pag. 96, 97). Ellis riporta fedelmente tutti gli altri lavori, successivi alla vendemmia: la pigiatura dell’uva a piedi scalzi, fase nella quale si cimenta anche lui e la produzione del vino. Trova poi che i contadini sono capaci di fare qualsiasi altro lavoro, come costruirsi da soli una grande scala che serviva loro per salire sui pagliai. Con l’arrivo dell’inverno, le giornate si accorciano e la descrizione del paesaggio e delle attività agricole scompaiono per far posto alla descrizione dell’alimentazione della famiglia contadina, un’alimentazione povera basata tutti i giorni sugli stessi cibi. La protezione di “babbo” Alessandro e di tutta la famiglia continua. Ellis si sente a casa sua, adottato da una nuova famiglia. Ma viene il giorno in cui il soldato di sua maestà britannica deva lasciare Massa Fermana e la famiglia Minicucci, perché arrivano gli eserciti alleati e Raymond si unisce all’esercito inglese. Struggente è il commiato riservato a Elena, una ragazza della famiglia che lo ha ospitato. In tempi normali l’avrebbe sposata, ma cosa poteva offrire a lei che non era mai andata al di là di Montegiorgio, nella città inglese di Arnold? “Nel bene e nel male, decisi che se avessi sposato Elena, le avrei procurato solamente infelicità, così la domanda che dovevo fare rimase inespressa. Pochi giorni prima della partenza, Elena mi venne incontro sul sentiero, come aveva fatto tante altre volte e risalimmo insieme la collina verso Massa Fermana… quando ci separammo, entrambi avevamo gli occhi colmi di lacrime” (pag. 163).  “Al di là della collina” è un libro nato quasi per caso. Francesca Ceppi, laureanda, si stava interessando alla situazione degli ex prigionieri alleati fuggiti dai campi di prigionia allestiti in Italia dopo l’8 settembre 1943. Si reca a Londra presso l’Imperial War Museum e qui si imbatte nelle memorie di Raymond Ellis, prigioniero nel campo n° 53 di Sforzacosta. Utilizza lo scritto per la sua tesi di laurea. L’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nelle Marche, che aveva indirizzato la giovane studiosa a Londra, pubblica, presso la casa editrice di Ancona, “Affinità Elettive”, il libro tradotto da Elisabetta Da Lio e lo dà alle stampe nel 2001.

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