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Libri. Storie Paesane, Giuseppe Tontodonati (Secondo volume)

Storie Paesane Vol IIdi Raimondo Giustozzi

Il secondo volume delle Storie Paesane è diviso in due parti. Nella prima, intitolata Cecore, sono distribuiti cinquanta sonetti numerati (84 – 133). La seconda parte, dal titolo Dommusè, contiene quarantotto sonetti (134 – 181). L’edizione, quella del 1979, oggetto della presente recensione, è una pubblicazione riveduta e ampliata rispetto alle “Storie Paesane” del 1968 (prima edizione). L’aedo, il cantore delle storie paesane, è sempre Nduntuccio, dietro il quale si cela il poeta stesso.

La ballata abruzzese, Dommusè, divisa in due racconti, quello dedicato al prete Dommusè (don Mosè), nella cui storia entra anche fra Pietro da Morrone, futuro Papa Celestino V e l’altro dedicato ai moti carbonari abruzzesi di Penne e Città Sant’Angelo, nasce nel 1974, come pubblicazione a parte. Ho voluto fare questa precisazione anche per non confondere il lettore, qualora volesse visitare il link riportato nel testo. L’articolo del link si riferisce al Dommusè del 1974

Cecore

Come nei poemi di ogni tempo, Nduntuccio introduce la materia del suo canto, delineando la figura di Cecore: la sua storia, il mestiere, l’aspetto, la vita di relazione con gli altri. Non disdegna, di tanto in tanto, di inquadrare quello che va raccontando nel contesto del piccolo paese, facendo riferimento anche a fatti lontani ma vicini alla gente del posto, come nel caso del disastro nella miniera di Marcinelle, distretto di Charleroi, in Belgio, dove perirono tanti abruzzesi. “Cecore, lu bbarabbe de sta storie / risscite da nu fonne de becchiere, / me torn’ angore vive a la memorie / gne nu fatte che ma successe jire” (Giuseppe Tontodonati, Storie Paesane, vol. II, pag. 7. Pescara i979). “Cecore, il barabba (poveraccio) di questa storie / riemerso dal fondo del bicchiere, / mi torna ancora vivo alla memoria / quasi come un fatto che mi è successo ieri”.

Cecore è un personaggio senza gloria, ma appunto perché tale non può non essere ricordato. Di mestiere fa il macellaio, viene deriso dalla gente, è turbato da complessi e da difetti ma ha un cuore grande. Leggendo il testo, lo si può avvicinare ad uno dei tanti personaggi verghiani, tra tutti, Rosso Malpelo. “Cecore appare come un sanguinario per il mestiere che esercita, sempre rozzo nel vestire e primitivo nel contegno, ma anche onesto e poi per nulla corrotto dal cosiddetto progresso” (Vittoriano Esposito, Poesie Inedite di Giuseppe Tontodonati, pag. 8, Pescara, 1993).

“…Cecore macellare scarciapelle / senza ssprezzà velene da lu dende. // Fischiat’ e dirise, gne ne spiuvende / passe ringhiose, nghe le garzamelle / terat’ e russce sott’ a le mascelle, / nghe nu prufile da tajà lu vende. // Nu tipe mucchelose, mbrihacone, / che tra lu sanghe sa ‘revutrijeve / de gnille de caprett’ e de mendone. // De lòng’ e dda vicine, quande ssceva, / se respereve, a ddette de Melone, / la puzze rangeticce de lu seve” (Sonetto 85, pag. 8).

Traduzione: “…Cecore macellaio strappa pelle / senza sprizzare veleno dal dente. // Fischiato e deriso, come uno spiovente / passo ringhioso, come le viscere / tirato e rosso sotto le mascelle, / con un profilo da tagliare il vento. // Un tipo presuntuoso, ubriacone, / che si rivoltolava tra il sangue / di agnelli, di capretti e di montoni. // Da lontano e da vicino, quando usciva, / si respirava, secondo Melone (personaggio del posto) la puzza rancida del sangue”.

Cecore veste di nero come un becchino del cimitero. Ha il naso aquilino e “l’ucchie frecagnule da rebbelle”. Ha l’occhio furbo da ribelle. “Turbate da combliss’ e da difitte / sa ‘refà sembre, stu core de mamme, / justizijenn’ ammode li capritte. // Ma ciò che reste lu cchiù péjje dramme / è che lu camenà fatt’ a zumbitte, / gne chi tene li piite tra le fiamme” (Sonetto 86, pag. 9).

Traduzione: “Turbato da complessi e da difetti / si rifà sempre, questo cuore di mamma, / giustiziando per bene i capretti. // ma quello che resta il dramma peggiore / è che cammina saltellando, / come chi ha i piedi tra le fiamme”.

Non finiscono qui le sofferenze di Cecore. La cattiveria di chi sa prendersela solo con le persone indifese fa il resto. Allora, Cecore non ci vede più. Mena fendenti a destra e a manca. A suo modo si fa giustizia da sé. “Cecore se muccechève le mane / mendr’ appresse je facévene folle / lu fijje de Maddì, Rocche Cepolle, / Reneste pazz’ e Cire Catalane. // Se mmo’ v’acchiappe, fijje de puttane, / ve spezze la nucelle de lu colle! – / ‘ccuscì dicenne nghe nu sguarde folle / s’avé nguastite péjje de nu cane. // Tra le jastem’ e ssone de bbandune / spundò, gne nnù stannarde sturìjate, / Giggiliosse  lunghe gne na fune. // Cecore, tra na salve de fischiate, / muliènne schiaffe càvec e spendune, / malidiceve l’ore c’avé nate” (Sonetto 93, pag. 16).

Traduzione: “Cecore si mordeva le mani / mentre attorno lo andavano canzonando / il figlio di Maddì, Rocco Cipolla, / Ernesto pazzo e Ciro Catalano. // Se ora vi acciuffo, figli di puttana, / vi spezzo l’osso del collo! – / Così dicendo con uno sguardo truce / si era inferocito peggio di un cane. // Tra bestemmie e fracasso di bandoni / spuntò fuori con una stendardo istoriato, / Giggiliosse lungo come una fune. / Cecore, tra una salva di fischi, / distribuendo schiaffi calci e spintoni, / malediceva il giorno in cui era nato”.

Quando è fatto oggetto per l’ennesima volta di scherzi villani esce fuori di sé: “Cecore vede rossce… le ciurhuelle / ji se scurisse, gne cchi jessce pazza… / mullisse lu mendon’ e la curdelle   / partenn’ a ccoccia bbasse, gne nu razze. // Allore ngumenzò nu caruselle / ‘mmond’ a le ruv’ ammezze pe la piazze: / tajò l’arie na lame de curtelle… / e ppo’ lu vatte sorde de la mazze. // Tra strille vuss’ e colpe de bbastone, / spunde li carbinire… e la cundese / finì tra le resate…da Ciambone! / Fu Cecore a remèttece le spese; / mezze pestat’ e ssenza lu mendone / scappisse maldicenne lu pahese” (Sonetto 111, pag. 34).

Traduzione: “Cecore vede rosso…il cervello / gli si scurì, come chi diventa pazzo… / lasciò il montone e la corda / partendo a testa bassa, come un razzo. // Allora incominciò un carosello / per le vie e in mezzo alla piazza: / tagliò l’aria una lama di coltello…/ poi il suono sordo della mazza. // Tra grida, vociare e colpi di bastone, / spuntano i carabinieri… e la contesa / finì tra le risate… da Ciambone! / Fu Cecore a farne le spese (a rimetterci); / mezzo pestato e senza il montone / scappò maledicendo il paese”.

Note al testo. Il teatro degli avvenimenti narrati nel sonetto è il centro del paese. Le ruv o rue, termine francesizzante, sono le stradine laterali al Corso Primo Maggio. La piazza non è quella grande, dove c’è ora il municipio, ma molto probabilmente la piazzetta che si incontra superato il sottopassaggio della ferrovia. Ciambone è una famiglia storica di Scafa. I proprietari hanno gestito e gestiscono tuttora un bar – gelateria. Un tempo possedevano anche un ristorante dove si mangiava davvero bene. Avevano delle camere che affittavano a quanti venivano per lavoro nel cementificio di Scafa, l’Ital Cementi del gruppo Pesenti.

Stregoni e fattucchieri

Un tempo, i crocicchi delle strade, si diceva che fossero i luoghi scelti da stregoni e fattucchieri. Qui convenuti, a cavalcioni di forconi, saltavano e danzavano. La diceria era diffusa anche nelle nostre campagne. Nduntuccio narratore onnisciente attacca, dicendo: “Tutte le vannardì, quande la lune /  gne na pagnotte pe lu cele vole, / la ggenda triste che tteme lu sole / sott’ a la cerca ranne sa ‘redune. // Ji’ diche de mahar’ e dde strehune! … / – disse Recucce de Mastrenecole – / chìù dd’une ce perdise la parole / vedennel’ a ‘bballà su li furcune. // Da tembe ma ‘rruvelle nu pinzire, / me sa feccate dendr’ a le ciurhelle, / sarà peccate… ma le voje dire // – la voce a Rocche fece tremarelle – / penze ca ‘’mmezz’ a tutte sta chiuvire / ce va Cecore a ff’ la saldarelle! – “( Sonetto 90, pag. 13).

Traduzione: “Tutti i venerdì, quando la luna / come una pagnotta per il cielo vola, / la gente triste che teme il sole / sotto la grande quercia si raduna. // Io parlo di maghi (facitori di incantesimi) e di stregoni!… / – disse Ricuccio di Mastro Nicola – / più di uno ci perse la parola / vedendoli ballare sui forconi. // Da tempo mi tormenta un pensiero, / mi si è ficcato dentro al cervello, / sarà peccato… ma lo voglio dire // – la voce a Rocco gli tremava – / penso che in mezzo a tutta questa congrega / ci va Cecore a ballare il saltarello! “.

Povero Cecore, tutti ce l’hanno con lui. Eppure chiede solo di essere lasciato in pace. Si ribella, querela chi lo deride e lo infastidisce in ogni modo. Davanti al consiglio del maresciallo che lo invita a strappare la querela per quieto vivere “ lu suttuscritte, specialist’ a pparte / cunzìjje sembre de nen fa’ rumore”, e per non far mangiare la corte di giustizia (tribunale) e il pretore “prime che mann’ avande chiste carte / e ffa’ magnà la corte e lu pretore”, Cecore minaccia di scatenare un’altra rivoluzione. Chi rappresenta la legge, secondo lui, ha un cuore nero come la pece. Quando sente avvicinarsi la morte, confessa alla moglie di voler lasciare questa terra traditrice.

La morte di Cecore

“Se po’ sapé’ la fine de Cecore, / de st’òme nate nghe la cuffia sstorte, / che suppurtò. ‘mbregnennese de ddore, / puzze de pelle de crapune morte? // Pe quéste fu magnaneme la sorte…! / Gna sindì vatte débbule lu core: / Ji’ me ne vaje – diss’ a la cunzorte- / lundane da sta terra tradetore – // Stu pòvere bbarabbe… stu cerote / fece nu ghigne gna sterò le cosse / sendénne l’alme da la carne ssciote, … // e sestemate pe la cassce l’osse, / nu rise ‘llumenò tarde le gote… / filice de calà dendr’ a na fosse!” (Sonetto 133, pag. 56).

Traduzione: “Si può sapere la fine di Cecore, / di questo uomo nato sotto la cattiva stella, / che sopportò impregnandosi di odore, / puzza di caproni morti? // Per lui la sorte fu magnanima… / Quando sentì il cuore battere debolmente: / Io me ne vado – disse alla moglie – / lontano da questa terra traditrice // Questo poveraccio, questo sfortunato / fece un ghigno quando stirò le gambe / sentendo l’anima libera dalla carne, …/ e sistemate nella cassa le ossa, / un sorriso illuminò subito dopo le gote… / felice di calarsi dentro una fossa”.

Marcinelle

Un piccolo paese è come un uovo, che chiude il contenuto con un guscio. Tutti vivono in un ambiente, col suo popolo tenace che ha patito da sempre fame e sete. Questo paese può essere Scafa, Alanno, Serramonacesca, Manoppello; non ha importanza il nome. Anche nel piccolo paese arriva la notizia del disastro minerario accaduto a Marcinelle, distretto di Charleroi, in Belgio:

“Quande se resapise la sschiahure / desott’ a la miniere, a Marcinelle, / jurnate de terror’ e dde pahure / ce fu pe Turre e Lettemanuppelle, // Dendr’ a la tajje, tra le venature / de la torbe, sa ‘llucede la pelle… / mendre rendrone cupe pe lu scure / le culpe de peccon’ e dde martelle. // Da nu vedelle strille desperate / pe ll’aria chiuse invucaranne Ddìjje, / nghe le pupille lùcede ssbarrate. // De sta traggedie saranne li fìjje / che purtaranne ‘n gore stì jurnate / gne na maledezzon’ e nu castìjje” (Sonetto 101, pag. 24).

Traduzione: “Quando si seppe la sciagura / sotto alla miniera, a Marcinelle, / giornate di terrore e di paura / ci furono per Turri  e Lettomanoppello. // Dentro al taglio, tra le venature / della torba, si sbianca la pelle… / mentre rintrona cupo per l’oscurità / il colpo del piccone e del martello. // Da una galleria le grida disperate / per l’aria chiusa, che invocavano Dio, / con le pupille lucide e sbarrate. // Di questa tragedia saranno i figli / che porteranno in cuore queste giornate / come una maledizione e un castigo”.

Note al testo.

Turri sta per Turrivalignani. Lettomanoppello e Manoppello, sono altri due paesi poco lontani da Scafa. Il disastro di Marcinelle avvenne la mattina dell’8 agosto 1956 nella miniera di carbone Bois du Cazier a Marcinelle, distretto minerario di Charleroi, in Belgio. Si trattò di un incendio, causato dalla combustione d’olio ad alta pressione innescata da una scintilla elettrica. L’incendio, sviluppandosi inizialmente nel condotto d’entrata d’aria principale, riempì di fumo tutto l’impianto sotterraneo, provocando la morte di 262 persone delle 275 presenti, di cui 136 immigrati italiani (Fonte Wikipedia). Tra questi, 23 minatori, morti nel disastro erano di Manoppello, 9 di Turrivalignani e 6 di Lettomanoppello.

A Manoppello, oggi, un monumento, opera dell’artista pescarese, Pietro Cascella, ricorda la memoria dei 23 minatori morti nel disastro. Anche a Lettomanoppello, un analogo monumento, antistante il Teatro Comunale, ricorda le 6 vittime della immane tragedia e a Turrivalignani, un altro monumento è stato eretto a perenne memoria per ricordare le 9 vittime del disastro. In agosto quando ero in vacanza a Scafa, leggevo sempre su “Il Centro”, quotidiano d’Abruzzo, articoli che rievocavano sempre ogni anno con commossa partecipazione la morte dei minatori abruzzesi scomparsi nel disastro di Marcinelle del 1956.

Dommusè

Dommusè, Don Mosè, è il terzo personaggio della trilogia: Nduntuccio (Primo volume di Storie Paesane), Cecore e Dommusè (Secondo volume di Storie Paesane). “E’ protagonista di una storia tragicomica, di quelle che la realtà sa presentare più e meglio d’ogni umana fantasia. Nominato parroco della Rocca, un paesino di montagna, Dommusè vi giunge, preceduto dalla trista fama di donnaiolo, come un Rodomonte a cavallo d’un mulo, ma viene accolto con una fitta salve di fischi e lanci di pietre. Al primo sermone dal pulpito, egli ne approfitta per sfogare la propria rabbia con improperi e maledizioni. Ma bastano pochi giorni perché, incuriosite e sollecitate dalle voci che corrono  su “stu verre liunine”, le donne vadano a frotte da lui a scaricarsi dai peccati, trasformando la chiesa in una piazza di mercato. Addirittura, col tempo, Dommusè riesce ad imporre la sua autorità anche sugli uomini, benché appaia sempre più rotto a vizi d’ogni genere. Ma, una brutta notte, chiamato per assolvere l’anima di uno sconosciuto, viene assalito da una banda di briganti, capeggiata da “Nnecole..” uno dei mariti “cornificati” “..lu curnute”, e viene fatto fuori a coltellate. Il suo corpo viene gettato in un burrone. Fine amara di un’esistenza votata al proprio dissolvimento. Una storia, non recente, questa, che si raccontava tra i roccolani, e che il poeta ha voluto raccogliere “nnude e crude”, anche per gli insegnamenti che se ne possono ricavare” (Giuseppe Tontodonati, Poesie inedite, a cura di Vittoriano Esposito, pag. 9, Pescara, 1993). Su Dommusè, Ballata Abruzzese (edizione 1974), si veda il link riportato di seguito. E’ una recensione pubblicata dallo Specchio Magazine l’11 gennaio 2021, appena un anno fa.

http://www.specchiomagazine.it/2021/01/il-racconto-di-storie-fantastiche-quasi-reali-o-in-tutto-vere/

In quest’altra breve recensione aggiungo altri sonetti del secondo volume di Storie Paesane (edizione del 1979), dedicati a Dommusè. L’incontro con il paese non è dei più felici per Dommusè: “La ggenda rucculane sscìse ‘n piazze / credènne de truvacce Garebbalde…: / le prète de la piazze ggià se ssfalde / e cò ppallìnde còjje stu preddazze. // Faccia sanguign’ e nnase pahunazze, / gne nna tembeste piombe maramalde / e mmendre se teneve ‘n zelle salde, / arruteve lu cele nghe la mazze. // Lu mule, ca ‘ddurìsse la vettorie, / ‘mmez’ a la mischie cumblecò stu mbrojje / mullenn’ a ffredde coppie de chianette… // e dope Sciarassciatt’ e Capurette / lu pòpele sustène ca è nu bbojje / che ssa recetà le ggiaculatorie” (Sonetto 144, pag. 69).

Traduzione: “La gente della rocca scese in piazza / credendo di trovarci Garibaldi…: / vengono disselciate le pietre della piazza / e lanciate come palle per raccogliere questo pretonzolo. // Faccia sanguigna e naso paonazzo, / come una tempesta piomba maramaldo / e mentre si teneva saldo in sella, / investiva l’aria girando vorticosamente il bastone. // Il mulo, che odorò la vittoria, / in mezzo alla mischia complicò l’imbroglio / mollando a freddo coppie di calci… // e dopo la zuffa e la ritirata / il popolo sostiene che è un boia / che sa recitare le giaculatorie”.

Note al testo: Sciara Sciat è un sobborgo arabo nell’oasi di Tripoli. Il 23 ottobre 1911 vi si svolse un accanito combattimento fra truppe turche e soldati italiani che da poco avevano occupato la città. Caporetto ricorda la disfatta, la fuga dell’esercito italiano sotto l’attacco dell’esercito austro ungarico nel corso della prima guerra mondiale. Sciara Sciat indica quindi la zuffa, Caporetto, la ritirata.

Incontro ravvicinato

Anche la gente comune entra di diritto nella storia raccontata. La montagna d’Abruzzo è stata da sempre il regno del lupo. Nicola di Ciarfelle, soldato in licenza, sale al proprio paese, di notte, percorrendo una stradina solitaria, quando incontra il lupo. Tra l’uomo e la bestia è una lotta furiosa.

“Lu suldate Necole de Ciarfelle / arjèva ‘n licenze e a ppasse spedite / arzajève pe la Ciammajjchelle…: / l’arie pùgneche gne spill’ appundite! // Tutt’abberrutàte a la mandelle, / arrangheven’ ammond’ a la salìte / a ccoccia bbasse, … e le ngannò l’udite: / nu lupe la ‘zzannò pe la nucelle! // Gna fu ‘ddentate dalla morza strette / tendò de lebberasse e desperate / mbelzò lu lupe nghe la bbajunette: // I’ òm’ e la bbèlve… sole n’ululate, / nu randele cummulze da lu pette / e ccaschìsene nurte… appicicate! “( Sonetto N° 158, pag. 83).

Traduzione: “Il soldato Nicola di Ciarfelle / andava in licenza e a passo spedito / saliva per la strada a tornanti…/ l’aria pungeva come uno spillo appuntito! // Tutto avvolto alla mantella, / arrancava lungo la salita / a testa bassa, … e l’udito lo ingannò: / un lupo lo azzanno alla testa! // Appena fu azzannato dalla morsa stretta / tentò di liberarsi e disperato / infilzò il lupo con la baionetta: “” L’uomo e la belva… un solo ululato, / un rantolo convulso dal petto / e caddero morti … appiccicati”.

Ciammarica, ciammajjchella, in dialetto di Scafa, Roccamorice, Serramonacesca è la lumaca; nel testo sta ad indicare la strada tortuosa che sale verso la montagna. Sul finire dell’estate, dopo un violento ed improvviso acquazzone, spuntato il sole, lungo le stradine che portano a Serramonacesca si potevano  incontrare tante lumache, ciammariche e anche grandi. Vi andavo spesso per visitare San Liberatore a Majella, situato nel comune di Serramonacesca.

Negli stessi luoghi, dove ora spadroneggia Dommusè, in un lontano passato, quei posti erano stati calpestati da umili fraticelli che vivevano negli eremi della Majella: “Ddu’ fraticìlle frische tunzurate, / nghe la vesàcce appes’ e lu curdone, / passìrene a la Rocche ‘’mbulverate / sotte la sferze de lu sullehone. // Fra Cele, lu cchiù giòvene de frate, / a bbassa voce e nghe devuzihone / prehève la Madonna ‘Mmmaculate / granènne vache la curone. // La sere ggià calève pe la gole / bbuscose, e tra na forr’ e nu strapiombe, / spundò la stella guide de lu pole. // Lundane se sendeve lu rembombe / dell’Urfende… scòrre gne n’ alma sole / tra nu selènzie ggèlede de tombe” (Sonetto N° 160, pag. 85).

Traduzione: “Due fraticelli giovani con la tonsura, / con le bisacce appese al cordone, / passarono alla Rocca impolverati / sotto i raggi del solleone, / Fra Celestino, il più giovane dei frati, / a bassa voce e con devozione / pregavano la Madonna Immacolata / sgranando grano per grano la corona (rosario). // La sera scendeva per la gola / boscosa, e tra una forra e uno strapiombo, / spuntò la stella guida del polo (la stella Polare), // Lontano si sentiva il rimbombo dell’Orfento… scorre come una sola anima / tra un silenzio gelido di tomba”.

Fra Pietro da Morrone, futuro Papa Celestino V, che nelle montagne d’Abruzzo costruì monasteri e romitori, diventa nell’invenzione poetica frate Celestino: “E costrujise ammezz’ a sti vallune, / ‘ddo la cecale cande senza sole, / nu remetagge che spìcchie de lune / orle d’argende mendre chiare vole. // L’acque, desotte pi li furajùne, / tra li gurghègge de nu riscignole, / fa lùcede li fianghe de sta crune / e ppe la valle sembetèrne scole. // Nghe l’ucchie grife l’aquele fa vele / gna da suvrane spàzie sta nature / scarn’ e selvagge da lu grìgge pele. // Tette lundane de stu cìjje scure / nu lemb’ azzùrre càreche di cele, / che ddà speranze e llève la pahure! “ (Sonetto N° 162, pag. 87).

Traduzione: “E costruì in mezzo a questi valloni, / dove la cicala canta senza sole, / un romitorio che lo spicchio della luna / orla d’argento mentre chiara vola. // L’acqua, sotto ai faraglioni, / tra i gorgheggi di un usignolo, / rende lucidi i fianchi di questo crinale / e per la valle sempiterno scorre. // Con l’occhio grifagno l’aquila vola / come un sovrano spazia su questa natura / scarna e selvaggia dal pelo grigio. // tetti lontani da questo burrone scuro / un lembo azzurro carico di cielo, / che dà speranza e toglie la paura”.

La morte di Dommusè

“E ffu ‘ccuscì che Dommusè chiamate / pe jì ssalvà na pella sscunussciute, / sa ‘retruvò de notte sspruvvedute / tra lupe che ji tèsere l’agguate. // Du’ passe appene dopo scandunate / ca se sindì revolge nu salute: / Ziprè… ji’ so’ Nicole… lu curnute! – / e ssa ‘bbuscò la prima curtellate. // L’atre bbrehande se fècere sotte / senza scagnasse na sola parole / e a ffredde ugnune ji mullò na botte. // Da sopr’a la prete lu sanghe sscole… / e ddope l’urle che jjelò la notte, / a lu trapasse se truvò da sole” (Sonetto N° 176, pag. 101).

Traduzione: “E fu così che don Mosè, chiamato / per andare a salvare uno sconosciuto, / si ritrovò di notte del tutto sprovveduto  / tra lupi che gli tesero l’agguato. // Fatti due passi appena partito / si sentì rivolgere un saluto: / caro prete… io sono Nicola… il cornuto! – / e si buscò la prima coltellata. // Gli altri briganti si fecero sotto / senza rivolgersi una sola parola / e a freddo ognuno sferrò un colpo. // Sopra la pietra il sangue scola… / e dopo l’urlo che gelò la notte, / al trapasso si trovò da solo”.

Nota editoriale: Una menzione a parte merita Vito Giovannelli, l’autore della copertina. Nato il 25 ottobre 1933, a Capurso, comune della città metropolitana di Bari, è diventato abruzzese d’adozione. Grande artista, ancora vivente, è autore di numerose copertine Ex Libris, di pubblicazioni abruzzesi e non solo. Vito Giovannelli, oltre alle incisioni dedicate al folclore e al mondo popolare in genere, mostra grande interesse verso altre forme di arte figurativa, da quelle di ampio respiro, pittura, mosaici, vetrate a quelle relative all’illustrazione (Fonte, Wikipedia).

 

Raimondo Giustozzi

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