di Raimondo Giustozzi
L’arrivo della “pecetta”.
Puntuale, come la notte succede al giorno e l’alba alla notte, così anche per Gianni arrivò la cartolina precetto della chiamata alle armi. La consegnò il postino Fefo nelle mani del padre Luigi. Gianni era all’Università, in compagnia di amici. Si era laureato da qualche mese. Quando non c’era da aiutare i suoi nella raccolta delle olive, se ne andava all’ateneo, anche per non perdere del tutto i contatti con l’ambiente. Quel giorno era stato organizzato dal movimento degli studenti, un dibattito sui problemi dell’Università.
Ignaro, il nostro giovane se ne torna a casa e trova ad aspettarlo i propri genitori, gli zii ed il fratello: facce pensierose, tirate in volto, che nascondevano una qualche preoccupazione. Gianni afferra al volo che era avvenuto qualcosa durante la sua assenza. Il padre attacca: “E’ arrivata la “pecetta“, ricordo per lui di eventi lontani, quando ragazzo aveva dovuto lasciare il lavoro nei campi perché richiamato alle armi. “Pecetta“, nel dialetto locale è un qualsiasi pezzo di carta, in quella occasione stava ad indicare la cartolina precetto per adempiere gli obblighi del servizio militare.
Gianni non si scompose. Sapeva che prima o poi sarebbe dovuto partire per il militare. Mentre trangugiava una minestrina calda che la mamma gli aveva preparato, ascoltava interessato i discorsi che il papà ed il fratello facevano sulla naia. Quest’ultimo aveva prestato il servizio militare lontano da casa, in una caserma del Friuli, in un paese pieno di soldati. Da quello che Gianni aveva potuto capire, il militare per lui era stato una delle prove più difficili. Si era venuto a trovare in mezzo a nuovi amici e a nuove esperienze che non aveva mai immaginato di fare.
Gianni aveva pensato seriamente alla obiezione di coscienza, ma ne era stato dissuaso dagli amici, dai genitori e dal parroco del suo paese. Con il sacerdote, aveva avuto anche qualche diverbio. Era bastato che gli avesse fatto vedere un piccolo opuscolo di don Milani: “L’obbedienza non è più una virtù” per meritarsi i più aspri rimproveri. Gianni sosteneva che un cristiano mai può trovare dei motivi che possano giustificare l’uccisione di un altro uomo, nemmeno per legittima difesa. Cristo lo ha insegnato: “Rimetti la spada nel fodero, perché chi di spada ferisce, di spada perisce”.
Salutati gli amici, il papà che lo aveva accompagnato alla stazione, Gianni parte per il servizio militare. Viene destinato ad un centro addestramento reclute della Toscana, nella città di Siena. Alla stazione lo aspettano le sue nuove persone significative che lo guideranno per un anno in questa sua nuova esperienza. Sale sul camion militare. Una corsa a folle velocità per le vie del centro cittadino, qualche sguardo furtivo su uomini e cose che può vedere dal telone sollevato dell’automezzo, poi l’arrivo in caserma. Qui trova gli altri soldati arrivati prima di lui o quelli più anziani che consumati da un anno di “naia” rivolgono ai nuovi arrivati frasi e parole che Gianni imparerà a conoscere con il tempo: spina, missile, devi scoppiare.
In caserma conosce nuovi amici, situazioni nuove ed un modo di vita cui non aveva mai pensato. Durante il giorno c’è l’addestramento formale con il fucile o senza: un’esercitazione che si è costretti a ripetere fino alla noia, per arrivare al giorno del giuramento in cui come per incanto la caserma si aprirà al mondo esterno ai civili venuti ad ammirare quella schiera di baldi giovanotti, espressione di indomito coraggio e di maschia virtù patriottica.
Vita da caserma
Agli occhi del civile, il militare in libera uscita deve dare l’impressione di un ragazzo modello, perfettamente in ordine nella divisa, contento e soddisfatto della vita e dell’esperienza militare. L’uscita dalla caserma prevede tutto un cerimoniale da rispettare. I “liberi uscenti” vengono inquadrati e al passo di marcia vengono condotti dai propri caporali di squadra, alla porta principale della caserma. Qui, dopo aver salutato il corpo di guardia, l’ufficiale di picchetto, la guardia alla garitta, si può uscire e sciamare per le vie di Siena e godere di quattro ore di libertà, del tutto apparente però, perché chi veste una divisa deve salutare militarmente tutti gli ufficiali che incontra per la strada. Insomma ci si sente estranei al mondo civile. Le ore vengono impiegate per andare a cena in qualche trattoria o per passeggiare senza meta per le vie del centro, dando fastidio alle ragazze che si incontrano per strada, oppure si va alla stazione per leggere gli orari dei treni e guardare con nostalgia la linea ferrata e pensare alla più vicina licenza, quando il nostro potrà abbracciare i propri cari.
Al termine della libera uscita si entra in caserma con tanto amaro in bocca e si fa sempre più struggente il desiderio di trovarsi a casa. Ma non c’è tempo da perdere per pensare. La giornata del militare non è terminata. C’è da aspettare il contro appello, poi il silenzio ma non molto perché ognuno ha da raccontare qualcosa, qualche barzelletta, qualche battuta, anche la più sciocca che ha il potere di sollevare il morale di tutti. Le camerate sono prive di riscaldamento. Le malattie che si contraggono più facilmente sono bronchiti e raffreddore.
I giorni del CAR (Centro Addestramento Reclute) trascorrono monotoni. La maggior parte della giornata viene passata nelle camerate con i propri compagni di squadra. Gianni ne conosce molti, con le loro storie ed i loro problemi. Giovanni è laureato in Ingegneria all’Università di Genova, disoccupato in cerca di prima occupazione. Con lui Gianni fa subito amicizia e lunghe chiacchierate. È un po’ balbuziente, un leggero difetto che mette in risalto ancor di più la sua bonomia ed il suo carattere estremamente cordiale. Conosce Michele, una faccia da ragazzino, pallido, sempre triste. Alla sera, quando si è stanchi ed ognuno si butta sulla propria branda, Michele spesso piange. È un ragazzo estremamente sensibile che la vita militare renderà ancora più triste.
In quegli attimi in cui si fa più struggente il desiderio di essere vicino ai propri cari, alla fidanzata, Gianni pensa alle cose che ha lasciato partendo per il militare, in verità ben poche cose. Non ha una ragazza. In questo si può ritenere fortunato perché in quella condizione soffrirebbe ancora di più. Nel corso della giornata, in quei pochi attimi di intervallo che vengono concessi tra una seduta d’addestramento e l’altra, i soldati si riversano tutti dentro lo spaccio militare. Lunghe file si accalcano alla cassa, chi per ordinare una bibita, chi per comprare sigarette e giornalini di evasione. Altri militari invece preferiscono accollarsi ad un jukebox e sentire a volume altissimo le canzoni che vanno di moda in quei giorni di febbraio.
Una delle canzoni che si sente più spesso suonare è “Tornerò“. Il contenuto del testo è triste, perfettamente intonato alla tristezza dell’ambiente. Una ragazza saluta alla stazione il proprio ragazzo che parte militare e lui dal finestrino del treno in partenza, sussurra con un nodo alla gola: “Tornerò, un anno non è un secolo“. Da quello che Gianni vede attorno a sé, si rende conto che tra tutti quei militari, nessuno di loro è legato a quell’ambiente, ma tutti pensano alla propria casa, alla famiglia, agli amici, alla fidanzata lontana.
Dopo l’addestramento, a mezzogiorno, è l’ora del pranzo. Tutti i militari, perfettamente inquadrati, attendono davanti alla mensa il proprio turno per poter entrare e consumare velocemente il pranzo preparato da altri commilitoni, chiamati al nuovo lavoro da cuochi. Nel pomeriggio ci sono altre due ore di addestramento formale o di marce secondo l’umore del proprio caporale istruttore che ha in consegna la squadra. Finalmente la libera uscita. È il momento atteso con più gioia e trepidazione da tutti i soldati, trepidazione perché chi porta i capelli lunghi o che comunque non soddisfano le manie persecutorie del tenentino, o chi non ha le scarpe lucide, non può uscire.
Arriva finalmente il giorno del giuramento che a Gianni sembra come quello della prima comunione. Mancano soltanto i fiori e i guanti bianche. Le altre cose ci sono tutte: il papà, il fratello, Claudio un suo amico, venuti ad assistere alla cerimonia. Non manca il discorso di circostanza, volto a sottolineare l’importanza del momento. Il colonnello comandante ricorda ai presenti l’eroica figura di un oscuro figlio del popolo: Giuseppe Pintus, un caporalmaggiore di origine sarda, distintosi in una delle tante battaglie del Carso, nella prima guerra mondiale. Nel destino del Pintus, Gianni accomuna quello di tanti giovani che in tutte le guerre sono stati strappati dalle loro occupazioni, dai loro affetti e mandati a morire in qualche trincea per difendere i sacri confini della Patria.
Dopo il giuramento, senza por tempo si esce dalla caserma ed i nuovi soldati sciamano per le vie di Siena in cerca di qualche trattoria dove poter consumare un pasto, con i propri genitori, con il fratello o con la propria fidanzata. Il giorno vola letteralmente. Si fa sera. Gianni saluta il papà, il fratello e ritorna in caserma. Il primo atto della “naia” è finito. Dopo il giuramento si aspetta il trasferimento nei vari reparti o reggimenti. Alla comunicazione per le nuove destinazioni, c’è molta tensione tra i soldati. Tutti vorrebbero avere la fortuna di essere destinati in un luogo non lontano da casa e dal lavoro che si svolgeva da civile. Gianni viene destinato all’Ospedale Militare di Firenze, assieme ad altri suo conterranei con i quali aveva fatto il CAR a Siena. L’impatto con il nuovo posto non è traumatizzante. All’Ospedale viene destinato in ufficio, alla Commissione Medica Ospedaliera. Vi rimane per pochi giorni, poi il passaggio al Reparto Ufficiali, in qualità di infermiere, ruolo conquistato sul campo senza infamia e senza lode. Gianni riceve anche le congratulazioni di un ufficiale. Sa fare le iniezioni meglio di un suo amico, laureato in medicina e specializzando in Ortopedia.
Dopo il congedo
È una ventosa giornata di febbraio. Gianni si è congedato dal militare, è solo in casa. I vetri della finestra che sbattono sotto la furia del vento, la canna fumaria della stufa a legna soggetta a continue vibrazioni, gli suggeriscono ricordi lontani, quando era militare al Reparto Ufficiali dell’Ospedale Militare di Firenze. Quante serate passate in compagnia di amici davanti ad un piatto di pastasciutta! Quante camminate per le vie del centro: via S. Gallo, via dei Ginori, Piazza San Lorenzo, Piazza Duomo, Piazza della Repubblica, Ponte Vecchio ed i magnifici lungarni fiorentini così ben illuminati di notte, l’acqua dell’Arno su cui si rispecchiano come per incanto gli eleganti edifici rinascimentali di cui la città è ricchissima!
I primi giorni che Gianni passa al Reparto Ufficiali sono quelli che ricorda con più nostalgia. Uno dei primi amici che incontra è un romano, laureato in Filosofia, come lui, di Zagarolo, Con lui Gianni fa subito amicizia. È un ragazzo estremamente cordiale, riflessivo, allegro, ricco di quella umanità che le deriva dalla sua estrazione sociale. Il padre è un modesto calzolaio. È impegnato politicamente e culturalmente in un gruppo di giovani che hanno come obiettivo quello di testimoniare Cristo nelle realtà politiche e sociali che si trovano a vivere. Alla sera, prima di addormentarsi, i due fanno delle lunghe chiacchierate. Anche Gianni si sente cristiano, ma non per questo si rifiuta di esporre al proprio amico i dubbi su come la realtà di Cristo sia stata manipolata dalla Chiesa e da chi fregiandosi dell’aggettivo di cristiano ha preteso di dettare una politica che di cristiano ha solo il nome. Antonio non è iscritto a nessun partito, nei primi anni dell’università aveva lavorato con le ACLI. Prima del congedo, i due si scambiano i rispettivi indirizzi.
L’amore vince ogni cosa
Era il mese di giugno. L’aria profumava di fieno. Il treno percorreva la linea Firenze- Roma. Gianni aspettava la stazione di Terontola per poter poi proseguire verso Foligno. Da Terontola fin quasi verso Perugia, il treno costeggiava il lago Trasimeno. Appoggiato ai finestrini, Gianni non si curava dei viaggiatori, ma osservava l’enorme massa d’acqua racchiusa in quel bacino. Gli ritornavano alla mente vecchie nozioni di storia apprese durante gli anni di scuola. In mezzo a quei canneti, tra l’acqua melmosa della riva, c’era stata una cruenta battaglia tra gli eserciti romani e cartaginesi. Questi ricordi venivano a mescolarsi nella sua mente, ad altre emozioni e ad altri pensieri. Pregustava nel suo animo il prossimo ritorno a casa, il ritrovarsi tra persone e volti amici.
Gianni era un bohemien. Tutta la sua esistenza l’aveva trascorsa ora in un posto, ora in un altro e chissà se il futuro non gli riservava altre sorprese. In una delle solite serate passate da militare, quando lo scopo principale era di trovare il modo per ingannare il tempo, cenando in compagnia di amici o cantando vecchie canzoni, Gianni in un momento di estrema tristezza e solitudine, si era ricordato di una carissima ragazza che negli anni passati aveva riempito i suoi sogni di eterno adolescente. Dopo tanti anni trascorsi da quella sera, Gianni non ricorda tutto di quei momenti. Ricorda solo che non riusciva a prendere sonno anche se era notte inoltrata. Messosi a tavolino, aveva una stanza tutta per sé, con una penna ed un foglio di carta in mano, fumava nervosamente e non riusciva a trovare le parole adatte da scrivere.ma fu solo questione di un attimo. Poi, vennero come un fiume in piena.
Aveva conosciuto la ragazza in casa di un amico: alta, magra, capelli biondi, occhi verdi, bellissimi. Gianni ne era rimasto colpito, tanto che canticchiava spesso una canzoncina allora molto di moda: “Sentivo la mia memoria, pronta a raccontarmi tutto, / ma conoscevo già la storia, / ho preferito sognare…Quel giorno là, come strano / ho creduto nelle favole, / ma mi toccò un angelo…” Gli era subito piaciuta, aveva sognato più volte di vivere con lei, ma non aveva avuto mai il coraggio di manifestarle i propri sentimenti. Nel corso dei due anni trascorsi, si erano visti si e no due o tre volte. L’ultimo incontro era terminato poi in una rottura aperta voluta da Gianni. Quella sera, in quella lettera, il nostro se pur a stento e con parole smozzicate cercava di spiegare il motivo del suo comportamento, come anche aggiungeva che desiderava restare suo amico. La ragazza rispondeva che un’altra sua lettera le avrebbe fatto piacere.
Gianni, alla lettera della ragazza rimase disorientato. Avvertiva che qualcosa di importante doveva avvenire di lì a poco nella sua vita, ma non si sentiva in grado di assumere le proprie responsabilità. Era cresciuto sempre all’ombra di altri che lo avevano protetto ed anche soffocato nella sua sete di libertà. Di fronte all’amore, era rimasto fondamentalmente un adolescente. Imbevuto di cultura umanistica, l’aveva solamente idealizzato. Di fronte all’amore della ragazza, non sapeva pronunciare che timidi balbettii. Era un egoista e non se ne accorgeva. Dopo quella lettera aveva cercato di rispondere alla ragazza, ma non si era ancora deciso di svelarle i propri sentimenti, di dirle apertamente che le voleva bene. Ogni giorno scriveva una lettera per poi strapparla perché la riteneva stupida. Dalla lettera della ragazza lascia passare diversi mesi senza farsi vivo, finché un giorno gli arriva una telefonata dalla stessa.
Dopo quella telefonata, Gianni si sente diverso. Ormai non può più nascondersi dietro parole convenzionali. Vuol bene alla ragazza e deve trovare il coraggio per manifestarle i propri sentimenti. I due si danno l’appuntamento per il mese di novembre. Si rivedono on una cittadina adriatica. Gianni va ad aspettarla alla stazione. Il cuore gli batte forte. Non sa che dirle. Le prime parole, dette con voce emozionantissima sono: ciao, come stai, – poi aiuta la ragazza a portare la valigia e a caricarla sulla macchina. Durante tutta la sera, Gianni cerca di trovare il momento buono per parlarle, ma è troppo timido e impacciato. È troppo schiavo del passato, della sua innata paura di sbagliare. Al momento di ripartire per Firenze, terminata la licenza, la ragazza lo accompagna alla stazione. Qui, ella si risolve. Non può più aspettare, vuol vedere chiaro nell’atteggiamento di Gianni, vuole conoscerlo veramente. Si fa coraggio e gli dice apertamente che lei gli vuol bene. A queste parole, Gianni sente una gran voglia di nascondersi.
Era una fredda e piovosa giornata di novembre, quel giorno alla stazione. La ragazza per ripararsi dalla pioggia fredda ed insistente, portava un grazioso fazzoletto al capo, che faceva risaltare ancor di più i bei lineamenti del suo viso. Gocce di pioggia inumidivano le sue gote. Gianni si fa coraggio, prende tra le mani quel viso caldo, delicato e madido di pioggia e dà un timido bacio sulle guance della ragazza. I due, prima di lasciarsi, si ripromettono di scriversi e di telefonarsi. Gianni vorrebbe ancora restare per parlare, per spiegarsi, per dirle che le voleva bene, per fugare la delusione che il suo atteggiamento, pensava, avrebbe arrecato alla ragazza. Ma non c’era molto da aspettare. Il treno era già in partenza. Sale sul treno con un nodo alla gola. Altre volte era partito da quella stazione, ma con un altro stato d’animo. Quella volta lasciava qualcosa di caro a cui teneva molto.
I ritorni
È bello il mare di sera, quando un alone di mistero avvolge nelle tenebre quella enorme e grigia massa d’acqua e la brezza sembra voglia sussurrare a Gianni che la vita non è solo affanno e angoscia, ma anche gioia incontenibile; l’aveva vista stampata sul viso dei bimbi, sul volto delle persone anziane consumate dagli anni e dalla fatica. È bello il mondo, il mare, il vento, la pioggia, l’alba, il tramonto, gli aveva detto quell’uomo incontrato sul treno. È bella la notte con i suoi silenzi.
Nei suoi numerosi viaggi fatti da Milano ad un paesino dell’Abruzzo, Gianni aveva osservato tante albe e tanti tramonti e li aveva trovati tutti belli, sia che piovesse, sia che fosse bel tempo. Aspettava con ansia e con commossa trepidazione di fanciullo, che il treno arrivasse fin verso Ancona per osservare l’alba che spuntava sul mare. Le luci del mattino lo avevano sempre riempito di gioia perché stavano a dire che la vita continuava, che dopo la notte veniva il giorno, che le immagini della vita erano più forti di quelle della morte.
Il luogo di nascita aveva influito negativamente nella formazione del suo carattere. Il “natio borgo selvaggio“, come lo chiamava leopardianamente, lo aveva limitato nella sua sete di conoscere e di avere rapporti umani più profondi. Spesso in passato si era trovato ad osservare su un punto di osservazione vicino a casa, gli orizzonti lontani che andavano verso il nord; aveva sognato di andarsene di là, ora quel sogno era diventato una realtà. Era stato chiamato in provincia di Milano per lavoro. Dell’infanzia trascorsa nel suo luogo di nascita, Gianni ricordava i mesi e le stagioni dell’anno con il raccolto del grano, dell’uva, delle olive, i normali giochi con i bambini della sua età, la locale Scuola Elementare ed un piccolo locale situato accanto ad un negozio di generi alimentari.
La sala, chiamata col nome ambizioso “Circolo del Rinnovamento” era il ritrovo obbligato per ragazzi ed anziani che si ritrovavano assieme alla domenica pomeriggio per ammirare entusiasti, per la prima volta, sul piccolo schermo, le avventure di Rin- Tin- Tin, vedere qualche partita di calcio o seguire il Giro d’Italia. Si pagava una piccola tessera che dava diritto ad entrare nel locale, chi non l’aveva, rimaneva fuori; c’era anche chi non se la poteva permettere o qualche volta non l’aveva con sé, non importava, non aveva diritto ad entrare.
Piccoli e grandi seguivano le notizie date, con attenzione. Non c’erano giornali, né c’era nemmeno la possibilità di spostarsi con frequenza. Il capoluogo di provincia era lontano. Ci si arrivava in corriera, attraverso la provinciale non ancora asfaltata. Le poche macchine che passavano sulla strada polverosa, si potevano contare sul palmo di una mano.
Tra le altre cose che Gianni ricorda della sua infanzia è l’assidua frequenza alla locale chiesa, dove, alla domenica serviva all’altare, da chierichetto, la messa officiata da un anziano prete. Il borgo, quattro case, la strada che lo attraversava, alla domenica mattina si animava. La gente veniva fin dalle più lontane contrade di campagna per assistere alla celebrazione eucaristica, La chiesetta, angusta non riusciva a contenere tutta quella fiumana di gente che ascoltava il sacerdote, sulla piazzetta antistante. Era fede sentita, oppure il bisogno di evadere, di vincere la solitudine dei campi almeno per un giorno alla settimana ed incontrarsi tra volti conosciuti? Gianni non sapeva dirlo. Si era sempre posto su di un piano di assoluto rispetto di fronte alla fede degli umili. Lasciava a Dio il compito di giudicare, anche se trovava nella propria condotta e in quella degli altri, ora che era diventato grande, tanta cattiveria e tanto egoismo.
Un altro grande evento che ricordava con gli occhi del bambino, era l’arrivo della Madonna di Fatima. Fine anni cinquanta. Strada assiepata da una moltitudine di gente. La statua della Vergine era collocata su un grosso camion addobbato di tutto punto, con quattro angeli ai lati del cassone. Staffette di motociclisti, clacson, grida di fare largo alle macchine che sopravanzavano, bambini che venivano issati sulle spalle dai propri papà, canti, rosario, finalmente l’arrivo della Madonna. Una breve sosta davanti alla chiesa, la gente genuflessa, l’aria fredda della notte, l’omelia di don Primo, il sacerdote che officiava la messa alla domenica, il corteo che riparte alla volta del paese da qui per Civitanova Marche.
Il piccolo borgo si animava soltanto alla domenica o nei giorni di festa, tra tutte quella di San Vincenzo Ferreri che cadeva con l’inizio della primavera. Arrivavano le catene, le giostre rudimentali di allora, sul prato antistante una vicina casa colonica, si piazzava un grosso telo ed alla sera l’immancabile proiezione di film strappa lacrime: “Catene“, “Le piccole orfanelle“. Non mancavano le bancarelle con le girandole, le noccioline, i lupini, le bambole ed i giochi popolari: la corsa con i sacchi, la rottura delle pigne, la gara della pastasciutta, l’albero della cuccagna, il tiro della fune, il gioco delle carte o della morra. In qualche anno, quando si era trovato un bel gruzzoletto di soldi, si organizzavano corse ciclistiche per dilettanti ed alla notte, gli immancabili fuochi artificiali chiudevano il giorno di festa, nel corso della giornata poi non mancavano mai gli spari che aprivano la giornata, segnalavano il mezzogiorno e accompagnavano la processione di San Vincenzo Ferreri o le rogazioni per le campagne.
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