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Don Lorenzo Milani profeta della parola

lettera a una professoressadi Raimondo Giustozzi

“Ecco la sua lingua, il suo elemento: il soliloquio con le pecore, l’unico uso che ha fatto del Dono della Parola in ottantaquattro anni di vita. Ha imparato la loro lingua e non la mia. È più fratello loro che mio. E vesto lana e mangio cacio senza rimorso” (Don Lorenzo Milani, Esperienze Pastorali, pag. 314). “Fai conto che qui io mi trovi in un istituto pieno di sordomuti non ancora istruiti. Che ne diresti se pretendessi di evangelizzarli senza aver prima dato la parola? I missionari dei sordomuti non fanno così. Fanno scuola della parola per anni e poi dottrina poche ore. E il loro agire è logico, obbligato, perfettamente sacerdotale. Domani poi, tra questi sordomuti ritornati alla luce della parola, ci saranno santi e dannati. E quel giorno la responsabilità della salvezza ricadrà su ognuno di loro com’è nell’economia normale della salvezza. Ma se invece mi rifiuto di creare questo ponte, allora per loro non ci sarebbe che il Limbo dei bambini e per me il castigo di chi non ha fatto il suo dovere” (don Lorenzo Milani, Esperienze Pastorali, pag. 200, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1972).

“Noi sul principio non ci si voleva credere. S’era sempre a chiedergli il disegno tecnico e Gianfranco voleva la stenografia e basta, perché gli avevano detto che avrebbe trovato lavoro e Gigi voleva l’avviamento tutto completo e Mino, che occorrevano i volumi e la radice quadra, per il concorso delle ferrovie. Don Lorenzo, per accontentarci, cominciava un po’ qualcuna di queste cose, poi gli veniva a noia e su una parola ci stava un’ora. Una parola da nulla diventava un mondo. Ci diceva da dove veniva. Come la si poteva usare in mille frasi diverse. Ci spiegava tutte le sfumature dei suoi significati. Come la si ritrovava in altre lingue. Come si componeva con altre parole. Quante altre parole derivavano da essa, finché s’era fatta mezzanotte e le penne erano ancora da intingere e i quaderni bianchi e diceva: la radice quadrata vi prometto che si farà domani” (N. Fallaci, op. cit. pag. 124).

Scriveva in una bellissima lettera ad Ettore Bernabei, allora direttore del “Giornale del Mattino”: La parola è la chiave fatata che apre ogni porta. Parole come personaggi, si chiama una tua rubrica. Ecco, questo appunto è il mio ideale sociale. Quando il povero saprà dominare le parole come personaggi, la tirannia del farmacista, del comiziante e del fattore sarà spezzata. Un’utopia? No. E te la spiego con un esempio. Un medico oggi, quando parla con un ingegnere o con un avvocato, discute da pari a pari. Ma questo non perché ne sappia quanto loro di ingegneria o di diritto. Parla da pari a pari perché ha in comune con loro il dominio della parola. Ebbene a questa parità si può portare l’operaio e il contadino senza che la società vada a rotoli. Ci sarà sempre l’operaio e l’ingegnere, non c’è rimedio. Ma questo non importa affatto chi si perpetui l’ingiustizia di oggi per cui l’ingegnere debba essere più uomo dell’operaio (chiamo uomo chi è padrone della sua lingua). Questa non fa parte delle necessità professionali, ma delle necessità di vita di ogni uomo, dal primo all’ultimo che si vuol dire uomo” (don Milani, lettere, op. cit. pag. 58- 59).

“La cultura vera, quella che ancora non ha posseduto nessun uomo, è fatta di due cose: appartenere alla massa e possedere la parola. Una scuola che seleziona distrugge la cultura. Ai poveri toglie il mezzo d’espressione. Ai ricchi toglie la conoscenza delle cose. Gianni disgraziato perché non si sa esprimere, lui fortunato che appartiene al mondo grande. Fratello di tutta l’Africa, dell’Asia, dell’America Latina. Conoscitore da dentro dei bisogni dei più. Pierino fortunato perché sa parlare. Disgraziato perché parla troppo. Lui che non ha nulla d’importante da dire. Lui che ripete solo cose lette sui libri, scritte da un altro come lui. Lui chiuso in un gruppetto raffinato. Tagliato fuori dalla storia e dalla geografia. La scuola selettiva è un peccato contro Dio e contro gli uomini. Ma Dio ha difeso i suoi poveri. Voi li volete muti e Dio v’ha fatto ciechi” (Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, pag. 106, Libreria Editrice Fiorentina).

L’arte dello scrivere si insegna come ogni altra arte…Noi dunque si fa così. Per prima cosa ognuno tiene in tasca un notes. Ogni volta che gli viene un’idea ne prende appunto. Ogni idea su un foglietto separato e scritto da una parte sola. Un giorno si mettono insieme tutti i foglietti su un grande tavolo. Si passano a uno a uno per scartare i doppioni…” (L.P. pag. 126). Anche quella della scrittura collettiva fa parte del grande segreto pedagogico di Barbiana, che, secondo il priore, non era esportabile: “I miei eroici piccoli monaci che sopportano senza un lamento e senza pretese dodici ore quotidiane feriali e festive di insopportabile scuola e ci vengono felici non sono affatto eroi, ma piuttosto dei piccoli svogliati scansafatiche che hanno valutato e a ben ragione che quattordici o anche sedici ore nel bosco a badar pecore sono peggio che dodici ore a Barbiana a prendere pedate e voci da me. Ecco il grande segreto pedagogico del miracolo di Barbiana. Ognuno vede che non ci ho merito alcuno e che il segreto di Barbiana non è esportabile né a Milano né a Firenze. Non vi resta dunque che spararvi” (don Milani, lettere, pag. 145).

Don Milani non si era mai sognato di suggerire didattiche e metodi d’insegnamento. I metodi dobbiamo trovarli noi con lo spirito indicato nel libro e in tutti gli scritti di don Milani. La Lettera a una professoressa è un libro civile, come tutto il pensiero di don Milani. Riguarda la “civitas” che deve migliorare in tutti noi. Don Milani superato, perché parlava del mondo contadino che non esiste più da decenni, sentenziava un collega nella scuola dove insegnavo, qui a Civitanova Marche. Non aveva letto nulla di don Milani, forze nemmeno Lettera a una professoressa, eppure si sentiva in diritto di tranciare giudizi. Tanti, nella chiesa e nella società civile, non pensano ad altro che a ricoprire posti di comando e orientano tutta la propria vita e le conoscenze per raggiungere questo traguardo.

Don Lorenzo Milani verrà ricordato dal prof. Emilio Lastrucci, a Civitanova Marche, nell’ambito di un convegno dedicato al priore di Barbiana, in programmazione per il prossimo anno. Tema del suo intervento sarà: “La Pedagogia della parola di don Milani”.

 

EMILIO LASTRUCCI

Emilio Lastrucci, nato a Roma nel 1955, è attualmente docente di Pedagogia Sociale e Pedagogia Sperimentale all’Università della Basilicata e nel Dottorato di Ricerca in Psicologia Sociale e dello Sviluppo e Ricerca Educativa dell’Università La Sapienza di Roma, nonché visiting professor in varie Università straniere. Presidente nazionale dell’Associazione Pedagogica Italiana (As.Pe.I.) dal 2017 al 2020, fondatore (nel 1993) e Presidente nazionale della Società Italiana per la Ricerca Educativa (S.I.R.E.), è membro di varie Accademie scientifiche di respiro mondiale. Ha diretto ricerche, soprattutto di impianto empirico-sperimentale, di massimo rilievo internazionale, vertenti, in special modo, sui processi di alfabetizzazione, la comprensione della lettura, l’insegnamento della Storia e delle Scienze Sociali, l’educazione alla cittadinanza, occupandosi altresì di programmazione curricolare, valutazione oggettiva ed autovalutazione di Istituto ed elaborando modelli teorico-applicativi che hanno registrato vasto impiego nel tessuto scolastico educativo. È autore di oltre 500 pubblicazioni scientifiche, fra cui oltre 40 monografie, tradotte in varie lingue. È Direttore di varie ed importanti riviste scientifiche e collane editoriali nel settore psico-pedagogico-didattico, di livello nazionale ed internazionale, redattore di alcune Enciclopedie di diffusione mondiale ed autore di dieci voci dell’Enciclopedia Italiana Treccani. È consulente permanente del Ministero dell’Istruzione e del Ministero dell’Università e della Ricerca.

Raimondo Giustozzi

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