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Libri. Per ricordare un giorno non basta L’esodo giuliano dalmata nelle Marche

Esodo Giuliano Dalmata in Anconadi Raimondo Giustozzi

Un altro libro viene ad arricchire gli scaffali della “Biblioteca dell’Adriatico”. “Per ricordare un giorno non basta – l’esodo giuliano dalmata” è il numero 244 della prestigiosa collana “Quaderni del Consiglio Regionale delle Marche”, stampato in Ancona, nel febbraio 2018 dal centro stampa digitale del Consiglio Regionale delle Marche. “Il libro si muove tra storia e memorialistica, utilizzando più registri linguistici: quello del punto di vista politico, come nel caso del saggio di apertura del consigliere regionale Mirco Carloni (Le foibe e l’esodo giuliano- dalmata: storia e responsabilità del dramma di un popolo), quello storico, proprio dei saggi di Carla Marcellini e Luciano Monzali (Storia e memoria del confine orientale italiano; Visto da fuori), quello memorialistico, tipico degli interventi di Franco Rismondo (Esuli nelle Marche, Premessa, Compagni di scuola e cittadini) e quello delle testimonianze, come nei casi di Matteo Piccini e Vittoria Maria Quagliano (Intervista a Vittoria Maria Cenci Quagliano, a cura di Carla Marcellini; Radici strappate).

La storia del confine orientale è stata linea di demarcazione tra identità diverse, ma anche luogo di contatto, contaminazione e convivenza, più spesso pacifica, a volte conflittuale. Dagli eventi di fine ottocento alla grande guerra, dalla politica del ventennio fascista alle vicende della seconda guerra mondiale, fino all’immediato dopoguerra, quel che si consumò in una delle aree geografiche più esposte alla volontà di potenza degli Stati nazionali e alla lotta per l’egemonia tra grandi potenze, produsse – infine – ciò che di più tragico si potesse immaginare. Il doppo registro storico del conflitto tra opposti nazionalismi e della “guerra fredda” incipiente consente di dare una interpretazione degli eventi capace di andare oltre le dinamiche prettamente territoriali e culturali tra popolazioni di lingua, modi e costumi differenti. “L’ Italia è una linea di faglia tra placche continentali ideologicamente antagoniste, per questo ha subito e subirà violenti e tragici sommovimenti”. Queste parole di Aldo Moro, riferite all’Italia nella morsa del bipolarismo internazionale, possono bene adattarsi alla storia del confine orientale, laddove le faglie ideologiche hanno agito più in profondità e prossimità, determinando lo sradicamento dalla propria terra della popolazione italiana. Di fronte all’esodo comunque, le Marche, in linea con la loro tradizione, furono regione accogliente e fonte di opportunità di vita e di realizzazione personale e familiare per tanti (Antonio Mastrovincenzo, Presidente del Consiglio Regionale delle Marche, introduzione).

Il saggio di Mirco Carloni, Le foibe e l’esodo giuliano – dalmata: storia e responsabilità del drama di un popolo, dopo una breve introduzione sul termine “foibe”, si articola in sette brevi paragrafi di diversa lunghezza. Il termine foibe, dal latino fovea (fossa, cava), associato alle depressioni carsiche simili ad una caverna verticale, tipiche della regione carsica e dell’Istria, dal 1943 fino al 1947 e oltre, ha assunto un altro significato. Nelle foibe, in queste cavità naturali, venivano gettati dopo essere stati giustiziati con un colpo alla nuca da partigiani jugoslavi, tanti italiani, accusati di essere fascisti o conniventi con il passato regime. La loro colpa era solo quella di essere italiani. La legge n. 92, che il Parlamento Italiano ha varato il 30 marzo 2004, ha istituito il “Giorno del ricordo” da celebrarsi il 10 febbraio di ogni anno.

Il trattato di Rapallo, firmato nel 1920 tra il regno d’Italia e quello dei Serbi, Croati e Sloveni, rappresentò la conclusione del lungo processo risorgimentale fino al confine del Nord Est. Nel periodo successivo al trattato di Rapallo, con l’ascesa al potere di Mussolini, il regime fascista volle portare profondi cambiamenti culturali nelle zone che il trattato aveva dato all’Italia. Le scelte fatte dal Fascismo saranno gravide di conseguenze nefaste. Eliminò tutte le istituzioni nazionali slovene e croate. Italianizzò le scuole, costringendo insegnanti non italiani a emigrare. Abolì l’uso della lingua slovena nelle cerimonie religiose. Limitò l’accesso degli sloveni negli uffici pubblici. Le conseguenze furono inevitabili e lasciarono ferite profonde, radicando un profondo sentimento anti – italiano che si diffuse nei decenni successivi fino allo scoppio della seconda guerra mondiale. Nel 1941 con l’invasione della Jugoslava voluta da Mussolini e truppe italiane occuparono la Slovenia, la Dalmazia, il Montenegro e l’Albania. La decisione presa da Mussolini portò ad un atteggiamento di odio profondo verso l’Italia. L’armistizio dell’8 settembre 1943, firmato dal governo Badoglio con gli Alleati della seconda guerra mondiale, segnò un cambiamento nella storia dei territori contesi nel nord est dell’Italia. Davanti alla sconfitta italiana, le bande partigiane guidate da Tito iniziarono la loro rappresaglia nei confronti di centinaia di italiani nelle zone dell’Istria e della Dalmazia. Da questo momento in poi ha inizio il triste capitolo delle Foibe. Migliaia di italiani venivano gettati, legati con fili di ferro a due a due, dopo aver ricevuto una pallottola in testa, nelle profondità delle depressioni carsiche.

La risposta a queste violenze, condotta dalle forze militari naziste, fu accompagnata da altrettanta ferocia con fucilazioni sommarie e violenze di ogni genere verso sloveni, croati e serbi. Colpa del governo italiano, al termine del conflitto, disastroso per l’Italia, fu soprattutto di non aver messo in atto nessuna difesa contro l’inevitabile reazione jugoslava. Terminato il furore nazista, apparve subito un altro terrore non meno tragico, quello comunista, predicato e attuato da Tito che non gli parve vero di togliere via qualsiasi presenza italiana in tutta la zona del Nord Est, investendo l’Istria, la Dalmazia ma anche Trieste i territori della Venezia Giulia. Sebbene sia impossibile calcolare con esattezza il numero delle vittime morte nelle foibe, si stima che un numero compreso tra i 5.000 e 10.000 innocenti persero la vita in modo tragico. Trieste venne divisa in due zone. La zona A veniva controllata dalle forze anglo americane, la zona B affidata al controllo jugoslavo.

L’esodo massiccio della popolazione giuliano dalmata inizia dopo il trattato di pace di Parigi. Soltanto a Pola nell’inverno del 1946- 47 la quasi totalità della popolazione italiana fu costretta ad abbandonare tutto ciò che possedeva: la casa, i possedimenti, la loro terra e le loro radici. Molti emigrarono in Sud America, Australia, Canada, Stati Uniti. Quelli che scelsero le coste italiane non ebbero vita facile. Molti vennero accolti con diffidenza e pregiudizi. I giornali di sinistra incominciarono a denigrarli, affibbiando loro l’infame etichetta di “fascisti”. Nel periodo compreso tra il 1943 e il 1956 furono circa 250.000 i profughi giuliano dalmati che fuggirono dall’Istria e dalla Dalmazia. Nel primo periodo, quello del 1943, gli esuli provenivano in particolar modo da Fiume e da Zara. Il secondo esodo, quello del 1947, interessò soprattutto la città di Pola. L’ultimo esodo, quello compreso tra il 1953 – 1956, avvenne dopo il memorandum di Londra (1954) che stabilì il possesso della cosiddetta zona B, comprendente Trieste a altri territori del Nord Est passati sotto l’amministrazione jugoslava.

La questione legata al triste capitolo delle foibe va collocata nel tempo in cui avvenne, senza proiettare alcunché nel presente. Se responsabilità ci furono, e molte, queste vanno inserite nel tempo in cui avvennero, nel clima di guerra fredda che iniziava allora, alle forze politiche, Partito Comunista in testa, legato alle direttive di Mosca, alla Democrazia Cristiana, impegnata nello sforzo della ricostruzione economica, morale e materiale dell’Italia. “La Sinistra italiana non riuscì in quegli anni ad offrire una solidarietà a chi stava fuggendo da un paese comunista, alleato dall’Unione Sovietica, come la Jugoslavia, in virtù della vicinanza ideologica con Tito. In questo clima di scontro ideologico l’avversione verso gli esuli istriano – dalmati non si limitava solo alle parole. All’arrivo delle navi, principalmente nei porti dell’Adriatico, gli esuli non furono, a volte, accolti come tali, ma in alcuni casi con insulti, fischi e sputi. L’episodio simbolo accadde alla stazione di Bologna, dove, quello che fu ribattezzato “Il treno della vergogna”, carico di profughi provenienti da Pola e partiti da Ancona, non poté nemmeno sostare a causa di alcuni ferrovieri sindacalisti CGIL e iscritti al PCI che avevano minacciato il blocco totale della stazione. In questo modo fu vanificata anche l’azione solidale operata dalla Pontificia Opera di Assistenza e dalla Croce Rossa Italiana”. La colpa dello stato di cose non può comunque essere addossata solo al PCI. Anche la DC ebbe le sue colpe: “La classe dirigente democristiana non affrontò adeguatamente questo dramma e considerò marginale il problema degli esuli dalmati … Il governo De Gasperi affidò ad Emilio Sereni, senatore comunista, di famiglia ebraica ed antifascista, il cruciale compito di rivestire il ruolo di ministro per l’assistenza post bellica” (Ibidem, pp. 20- 21). Prevalse insomma tra le file della Democrazia Cristiana l’atteggiamento della realpolitik, mirato al mantenimento dell’equilibrio geo politico che è durato fino al crollo del muro di Berlino e la frantumazione dell’Unione Sovietica.

Le Marche sono state una Regione di approdo per i profughi istriani – giuliano – dalmati. Enzo Bettiza racconta, nel romanzo Esilio, la fuga da Spalato verso Ancona e da qui la breve sosta a Civitanova, che si chiamava allora Porto Civitanova, dopo l’invasione e la guerra del 1941 contro la Jugoslavia. Ritorna, dopo appena un mese, di nuovo a Spalato e l’abbandona in modo definitivo nel 1945, sempre su una nave. A Servigliano, in provincia di Fermo, vennero dirottati molti profughi istriani. Nell’ospedale “Murri” di Fermo, nel 1948, nacque Diego Zandel, figlio di esuli fiumani ospiti nel campo profughi di Servigliano. Diego Zandel è autore di un romanzo autobiografico I Testimoni Muti: le foibe, l’esodo, i pregiudizi, Mursia Editore.

Il campo di Servigliano era stato luogo di prigionia durante il Fascismo, diventato campo di internamento anche per ebrei dal 1943 fino alla liberazione; dal 1945 in poi fu campo di raccolta dei profughi istriani – giuliano – dalmati. Si stima che in questo campo siano passati circa 900 nuclei familiari (Carla Marcellini, Storia e memoria del confine orientale italiano, pp. 27- 38, in “Per ricordare, un giorno non basta”, op. cit.). “Le fotografie sulla partenza da Pola sono state per lungo tempo il simbolo dell’esodo italiano. Carretti stipati di valigie e fagotti, masserizie accatastate sui moli del porto innevato, anziani e bambini in partenza sul ponte della motonave Toscana sferzata dalla bora … Il primo arrivo di profughi provenienti da Pola ad Ancona avviene il 16 febbraio 1947. I profughi giunti con il Toscana sono 2140. La nave arriva in porto alle 15,50, preceduta dal saluto delle sirene delle navi attraccate. Il Corriere Adriatico racconta con entusiasmo l’ospitalità della città. Seicento profughi vengono accolti nel centro di smistamento presso la caserma Villarey. I rimanenti sono portati in stazione per partire con diversi treni verso località in cui troveranno posto in un centro di accoglienza (Campania, Molise, Toscana, Emilia Romagna, Veneto, Piemonte). Il secondo arrivo avviene il 26 febbraio. Il terzo e ultimo, il 16 marzo: 771 sbarcano con il Toscana.

Le violenze subite dalla comunità italiana di Pola, Zara e di altre parti dell’Istria e della Dalmazia non sono solo una vendetta jugoslava per la dittatura e la guerra fascista ma rappresentano il disegno di una strage ben più ampia, volta a creare i presupposti di una dittatura comunista che si scaglia anche contro serbi, croati e sloveni, accusati da Belgrado di collaborazionismo con i fascisti e i nazisti. A farne le spese infatti sono Cetnici (serbi), Ustascia (croati), e Domobranci (sloveni) in fuga verso l’Austria. Per quanto riguarda l’Italia “Il fascismo di frontiera” è esistito davvero ed è stato brutale e violento.” Lo stesso regime aveva elaborato e perseguito con ogni mezzo l’equazione fra italianità e fascismo. Occorre poi considerare che fra gli italiani della Venezia Giulia, l’antislavismo era un sentimento ben diffuso anche fra coloro che non avevano aderito al fascismo per convinzione. Tutto questo ha facilitato molto la diffusione, trai partigiani jugoslavi, come pure fra la popolazione slovena e croata, di un significato estensivo del termine fascista, che in quel contesto andava a coincidere con quello di nemico del popolo, ovvero con tutti coloro che non avevano la stessa idea di futuro” (Ibidem, pp. 31 – 32).

Molti profughi della costa dalmata e dell’Istria, che, paventando ogni tipo di rappresaglia, finanche di finire nelle foibe, sbarcando nel porto di Ancona, riuscirono a costruirsi una nuova vita nella città dorica: “Le testimonianze di Matteo Piccini e Franco Rismondo e l’intervista a Vittoria aria Cenci Quagliano descrivono una dimensione intima della tragedia attraverso il racconto dei drammi personali e familiari, vissuti sulla propria pelle, che si trecciano con la storia di quegli anni” (Ibidem, pag. 24).

Tra i molti profughi, provenienti dai territori che l’Italia dovette cedere alla Jugoslavia dopo la sconfitta militare e il trattato di pace, Istria, Fiume e Zara, vanno ricordati gli zaratini: Antonio, “ToninTamino e, soprattutto, Nerino “Rime”, Rismondo. Tamino era discendente di una famiglia di possidenti zaratini e dopo l’esodo svolse l’attività di impiegato alla Totip di Ancona. Nerino Rismondo, invece, era nato a Zara il 12 febbraio 1910 da padre di Lissa e impiegato al Tribunale di Zara e da madre, originaria di Arbe. Completati gli studi universitari a Bologna con il conseguimento della Laurea in medicina, diviene medico presso la Cassa provinciale della Malattia, presso la città di Zara. Durante gli studi universitari presso la città felsinea avrà incrociato più volte la città dorica, che diventa la sua nuova patria. Trova lavoro come medico impiegato presso l’Ufficio comunale d’Igiene. Assieme all’amico Tonin, ambedue malati di nostalgia verso Zara, diventa uno dei principali animatori dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD). Col tempo prende le distanze dall’associazione, accusata di eccessiva burocratizzazione e politicizzazione e assieme a Tamino e ad altri esuli dalmati, residenti nelle Marche, fonda nel luglio 1953 l’Associazione Nostalgica degli amici Zaratini (ANDAZ). Lo scopo dell’associazione viene così precisato:” Realizzare in qualsiasi città della Penisola e all’estero manifestazioni che possano far rivivere il più possibile gli aspetti tipici della vita zaratina come espressione istintiva del sentimento di viva e profonda nostalgia verso la propria città natale: Zara, distrutta e perduta” (Ibidem, pag. 41).

Nel corso degli anni sessanta, Tamino si trasferisce a Firenze, interrompendo così la collaborazione con la nuova associazione, che organizza ogni anno i raduni di tutti gli zaratini esuli nel mondo fino alla creazione, nel raduno di Venezia del settembre 1963, il Libero Comune di Zara, con tanto di gonfalone, alla cui guida viene eletto come sindaco l’ingegnere Guido Calbiani, già Calebich, nato a Zara nel 1904 (pag. 45). La contraffazione del cognome da italiano in slavo o viceversa era una consuetudine diffusa. L’organizzazione nostalgica degli amici Zaratini, sotto l’impulso di Rismondo, Nerino “Rime”, stampa il periodico “Zara” dove trovano spazio poesie in dialetto zaratino istriano, racconti, ricordi di tutti gli esuli giuliano – istriano – dalmati. Molto spazio viene dedicato anche alla attività sportive praticate dagli esuli e le eccellenze raggiunte nelle diverse discipline sportive (Franco Rismondo, Compagni di scuola e concittadini, pp. 113 – 136, in “Per ricordare, un giorno non basta, op. cit.).

Strappalacrime è la lunga storia di Oscar e Nives, due coniugi, che riescono a ricongiungersi dopo mesi di peripezie, lui in terra italiana e proprio in Ancona, lei ancora in Istria, raccontata da Matteo Piccini in “Radici strappate” (Ibidem, pp. 93 -112). Solitudine, difficoltà che sembrano insormontabili, eppure dopo una lunga odissea, quando tutto sembra andare al peggio, la storia volge al bene. Il lettore rimane con un groppo alla gola. Desidera solo che Nives riesca a raggiungere, con il proprio figlio, il marito lontano. Alla fine, l’amore vince ogni cosa. È troppo bello il libro. Non leggerlo si perde un’opportunità. Non si capirebbe mai la nostalgia dell’esule, come nel romanzo di Enzo Bettiza, riportato nel link.

Esilio di Enzo Bettiza. Letteratura dell’esodo e dell’esilio. | LO SPECCHIO Magazine

Raimondo Giustozzi

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