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Libri. Nicola Vegro, Antonio segreto. La forza di un uomo. Romanzo storico

Antonio Segreto copertinaJoão César, priore sconsacrato, dove sei? Stai forse derubando vedove indifese e usurpando i beni degli orfani? In piedi, nel mezzo della sala, Fernando era simile a un guerriero che sfida il nemico sul campo di battaglia. – Don César, priore di Santa Cruz de Coimbra, con quale coraggio i tuoi confratelli continuano a sopportare le tue nefandezze? Con quale coraggio, noi sacerdoti, potremo ancora toccare l’ostia consacrata senza commettere peccato mortale? Le grida di accusa avevano richiamato numerosi confratelli, che di corsa avevano raggiunto la sala capitolare. Poi si scatenò l’uragano.  – Don César, priore scellerato, quante volte ancora il nostro santo padre dovrà scomunicarti, perché tu smetta di essere spergiuro e di celebrare indegnamente i sacri uffici? Adulterio, incesto, usura: queste sono le opere delle tue mani e della tua mente. Possa la collera di Dio punire le tue empietà, i tuoi crimini, i tuoi sacrilegi e ogni tua perfida azione. Don César, priore maledetto, da questo momento io non riconosco più la tua autorità” (Nicola Vegro, Antonio segreto, la forza di un uomo, pag. 191, Edizioni Messaggero Padova, 2019).

Non sapevo come iniziare la recensione del romanzo storico scritto da Nicola Vegro, Antonio Segreto, la forza di un uomo. Ho scelto questo passo perché segna una rottura nella vita di Sant’Antonio da Padova, al secolo Fernando Martins de Bulhȏes (Lisbona, 15 agosto 1195 – Padova, 13 giugno 1231), presbitero portoghese, appartenente all’ordine francescano, proclamato santo da papa Gregorio IX nel 1232 e dichiarato dottore della Chiesa nel 1946. Il progetto di scrivere il primo romanzo storico sulla vita di Sant’Antonio da Padova, precisa Nicola Vegro, autore del libro, nasce dopo aver abbandonato l’idea di realizzare un film sul Santo, morto a soli trentasei anni. Nicola Vegro, sceneggiatore, aiuto regista di Ermanno Olmi, spronato dal racconti della nonna Annamaria, devota del santo, si butta a capofitto nella lettura dei Sermoni, l’opera omnia (milletrecento pagine) di Sant’Antonio da Padova.

Il quadro che ne esce restituisce un uomo battagliero, tenace e anche spregiudicato verso i potenti del proprio tempo: vescovi, sacerdoti, priori di conventi, come nel testo riportato nel romanzo: “Il vescovo del nostro tempo è come Balaan, / colui cioè che turba la gente, / e con la sua avarizia divora il popolo. / Nella sua mano egli tiene una bilancia truccata, / perché predica in un modo, ma vive in un altro. / Quanti sono oggi i Vescovi che predicano la povertà / e invece sono avari, / Quanti sono oggi i Vescovi che predicano la castità / e invece sono lussuriosi, / Quanti sono oggi i Vescovi che predicano il digiuno e l’astinenza / e invece sono ingordi e golosi. / Per loro, nel libro dei Proverbi viene detto: / Un anello d’oro al naso d’ un porco, così è la donna bella ma priva d’intelligenza / Un anello d’oro al naso d’un porco: / così sono i preti, molli e agghindati; / sono come prostitute che si danno per danaro” (Ibidem, pag. 25).

Nel 1994, dopo aver realizzato la sceneggiatura, Nicola Vegro si reca in Rai per proporre la realizzazione del film. L’idea piace, a patto di togliere alcune parti scomode, che possono far gridare allo scandalo. Per l’autore è come tradire il pensiero genuino del santo. Butta la sceneggiatura nel cestino ma non abbandona l’idea di far conoscere la vita di Sant’Antonio da Padova. Dopo circa venticinque anni, riprende in mano la sceneggiatura e si accinge a scrivere il romanzo. Legge documenti e fonti storiche. Ricostruisce i costumi e gli usi del tempo, il 1200, secolo di corruzione all’interno della Chiesa, ma anche di grandi ordini religiosi, tra tutti, I Minori Conventuali di Assisi che hanno in San Francesco il proprio fondatore.

Il risultato, dopo quattro anni di studio intenso, è l’uscita del romanzo “Antonio segreto” – La forza di un uomo, nel 2021, grande novità editoriale di cui hanno parlato la stampa e la televisione. Tutto è stato possibile anche per la preziosa collaborazione di padre Luciano Bertazzo, direttore del Centro Studi Antoniani, che ha firmato la supervisione storica del romanzo, senza dubbio una delle massime autorità nella conoscenza delle materie antoniane. Padre Bertazzo non solo è stato consulente storico del libro, ma è stato una fonte inesauribile di idee e suggerimenti. I ringraziamenti dell’autore verso padre Bertazzo e altri eminenti studiosi sono riportati nelle ultime tre pagine (613- 615) del romanzo.

Non spaventi il numero delle pagine. Il romanzo è diviso in cinque parti. Vanno dal 1219 al 1231. Sono gli anni della vita di Fernando Martins de Bulhȏes, diventato poi Antonio, dal nome della località S. Antonio dos Olivais, quando il protagonista lascia il monastero di Coimbra e si appoggia momentaneamente alla piccola e povera casa francescana. La divisione del romanzo in cinque parti scandisce il ritmo della narrazione. La descrizione di eventi, personaggi, ambienti storico geografici è ampia e documentata. Tocca una varietà di aree geografiche e stati: il Portogallo, il Marocco, le coste siciliane, poi quasi tutta la penisola italiana, parte della Francia meridionale, la regione che insiste attorno a Tolosa e dintorni, terra dell’esperienza catara o albigese.

Parte prima (1219- 1220)

E’ la parte più lunga (pp.25- 212) rispetto alle altre. Consta di ventuno capitoli. Don Raimondo Nunez, maestro dei novizi nel monastero di Santa Cruz di Coimbra, ricopre anche l’incarico di cellerario, con la responsabilità di amministrare il dispensarium e controllarne l’accesso. Era lui che decideva chi poteva accedervi, rilasciando una speciale autorizzazione. In passato, l’incarico svolto da altri era un privilegio, un espediente da usare per ottenere vantaggi di ogni genere. Non è così per don Raimondo, persona integerrima, con una forte personalità. Impara subito che tra i monaci, chi è stato ladro, prima di entrare nel chiostro, continua ad esserlo anche dopo. Succedono poi delle cose allarmanti. Non è raro che qualche monaco muoia di morte improvvisa. Attento anche alle piccole cose, scopre numerose pergamene, una delle quali reca scritto: “Ascoltino quei sacerdoti indegni e corrotti, / privi della luce della vita e della scienza, / cani avidissimi, e sfrontati come prostitute. / In voi non c’è alcuna forma di virtù, / non c’è alcuna onestà, ma solo il marciume dei peccati. / Voi che tenete la forza della lussuria nei fianchi, / e nelle braccia avete la forza della rapina” (Ibidem, pag. 37).

L’autore delle pergamene è Fernando Martins de Bulhȏes. Anche don Raimondo Nunez ne è convinto, tanto sono scritte bene, con precisi riferimenti alle sacre scritture. Fernando è il novizio a cui don Raimondo si sente più vicino. Apprezza la sua instancabile applicazione nello studio. Conosce a memoria tutti i libri della Bibbia. Lo trova diverso da tutti gli altri, che don Raimondo ha seguito in passato, perché traduce nella pratica quello che dice. Don Raimondo teme per la vita del novizio, tanto da preparargli con cura una pozione contro il veleno. João César è il priore del monastero di Santa Cruz di Coimbra. Fratel Leon, un monaco del monastero, che non sa leggere, gli porta delle pergamene e esce dalla stanza. João César, rimasto solo, legge su una pergamena: “Il diavolo dice al prelato: tu dammi le anime; / e i beni, cioè la lana, la carne, e il latte prendili per te. / Il cattivo prelato merita tante morti, / quanti sono i cattivi esempi da lui lasciati ai posteri” (ibidem, pag. 46). João César si reca dal proprio vescovo che in passato lo aveva difeso. Ora, stanco del comportamento del priore, gli srotola davanti agli occhi un fascicolo che porta lo stemma della cattedrale. Il testo è scritto in latino. Il vescovo, ironizzando sulla possibilità che l’amico priore avesse perso dimestichezza con la lingua del Signore, provvede a fargli la traduzione, “insistendo  con particolare veemenza sulle parole: inhonestam consuetudinem fornicandi, la disonesta consuetudine di fornicare, l’insana abitudine di avere rapporti sessuali con donne, uomini, e, se non bastasse, con giovani poco più che bambini” (Ibidem, pag. 47).

Nel monastero di Santa Cruz di Coimbra, il priore può contare nella fedeltà di Sebastian, scagnozzo al suo servizio, pronto a spiare tutto e tutti. Antonio, molti anni dopo, quando si trova in Italia nel gruppo dei minori di Assisi, penserà a lui, commiserandolo. Aveva scelto quel ruolo perché non sapeva fare altro. Il vescovo José Pereira sospetta che l’autore delle pergamene possa essere don Raimondo Nunez, ma non ne ha le prove. Don Raimondo è troppo amato e stimato da tutti nella comunità. Assiste i confratelli ammalati nell’infermeria del monastero, la domus infirmo rum, la casa degli infermi, dove opera padre Aloisio. In passato, il maestro dei novizi aveva denunciato al Santo Padre le malefatte di João César, che era stato prontamente scomunicato. Tutto però si era risolto in una bolla di sapone perché, il priore, appoggiato dal proprio vescovo, era ritornato ad esercitare il proprio ministero e la funzione di priore nella comunità di Santa Cruz. Anche l’indagine condotta da don Raniero, inviato da Roma, era stata insabbiata.

La comunità di Santa Cruz di Coimbra vive dei giorni del tutto nuovi con l’arrivo dei Frati Minori di Assisi. Il fondatore di questo nuovo gruppo di religiosi si chiama Francesco. Minori o minorati? Si chiede João César. Non li sopporta. Sono distanti dal suo mondo. Vestono in modo dimesso: un sacco, per giunta rattoppato, come veste, buttato sulle spalle. Sono in cinque: Adiuto, Accursio, Berardo, Ottone, Pietro. Sono rampolli di nobili famiglie di Assi. Sono solo di passaggio. La loro meta è il Marocco, dove contano di predicare la propria religione tra la gente di fede mussulmana. Hanno scelto di essere poveri tra i poveri, lavorando con loro per non essere di peso. Fernando, che si sta preparando al sacerdozio, rimane come folgorato dai nuovi fraticelli che vengono dall’Italia. Li trova tanto diversi dai propri confratelli, che recitano sì le lodi al Signore ma subito dopo nel refettorio del monastero si ingozzano di zuppa calda, carne, vino e miele a volontà. Fernando da quando era arrivato, non era mai uscito dal convento di Coimbra. I cinque nuovi amici gli propongono di visitare la città d Coimbra, andando tra i poveri. Il servizio svolto per alcuni giorni in mezzo a loro lo convince che deve cambiare e dare un senso alla propria vocazione. Trova ovunque miseria, malattie, desolazione materiale e morale.

La partenza dei cinque ospiti viene accolta con sollievo dal priore e dal vescovo. La loro testimonianza rappresenta uno schiaffo contro i privilegi dell’autorità ecclesiastica. Fernando soffre invece per la loro partenza. Soffre in modo indicibile quando arriva la notizia, il 27 marzo 1220, che i cinque Minori Conventuali di Assisi sono stati decapitati in Marocco dai Mussulmani. Ciò che rimane di loro, le teste in alcune casse, il resto in altre casse, arriva a Coimbra. Viene organizzata una solenne processione di notte e nella cattedrale di Coimbra, dopo la celebrazione presieduta dal vescovo della città. “Ai piedi delle urne, coperta dalle bacche rosse dell’agrifoglio, una semplice lapide di marmo ricordava i loro nomi: Berardo dei Leopardi, Ottone Petricchi, Pietro dei Bonati, Adiuto e Accursio Vacutio. Fernando non riusciva a farsene una ragione, ma i loro corpi erano dentro le due casse che ora stavano davanti a lui: quanta violenza avevano subito. Il ricordo della loro grande vitalità e della loro energia così generosa allontanava la realtà della morte. Fernando rivide la serenità di quei sorrisi e la pacatezza delle voci dal suono buono e cordale, che invitava all’ascolto”(Ibidem, pag. 177).

Fernando, già sacerdote, aveva organizzato fin nei minimi dettagli la cerimonia funebre, dirigendo il coro della cattedrale. La vita nel monastero di Santa Cruz riprende il suo corso dopo la morte dei cinque fraticelli. Fernando non può non ricordare che “Mentre noi mangiavamo zuppa calda e carne arrostita, quei ragazzi, i Minori di Assisti, che noi avevamo persino vergogna di considerare come nostri fratelli, erano rinchiusi in carcere e soffrivano la fame. Mentre i nostri monaci bevevano vino e miele e con la pancia piena cantavano le lodi al Signore, quei fratelli soffrivano la fame e la sete e testimoniavano gli insegnamenti del nostro Signore, offrendo in sacrificio la loro vita. Mai più la mia testa poggerà su di un  cuscino di crine. Mai più il mio saio sarà bianco e immacolato. Voglio che ogni lembo della mia veste diventi una benda per l’ammalato. Le mie mani lavoreranno ogni giorno per dare aiuto ai bisognosi e la mia lingua si scaglierà senza tregua contro l’ingiustizia e ogni nefandezza, a iniziare da questo luogo intossicato dal peccato e dalla corruzione” (Ibidem, pag. 190). Questo è lo sfogo di don Fernando verso il proprio maestro di noviziato. Don Raimondo vorrebbe abbracciarlo come un padre abbraccia il figlio, sostenerlo e dividere con lui un po’ del suo dolore, ma avverte che il suo migliore discepolo è destinato ad altre scelte che lo porteranno ad abbracciare il movimento dei Minori di Assisi, dopo aver tuonato contro “don César, priore scellerato” (pag.191).

Nella nuova congregazione religiosa, don Fernando porterà tutta la propria preparazione teologica, coltivata nell’Ordine Agostiniano, coniugata al carisma francescano, basato sulla povertà evangelica e sul servizio verso i fratelli più poveri e bisognosi. Prima di avventurarsi verso il Marocco, luogo del martirio dei suoi cinque amici italiani, fa una sosta nella piccola comunità dei Minori a Sant’Antonio dos Olivais, nel settembre del 1220, dove esisteva una piccola comunità francescana. João César, il priore di Santa Cruz ha comunicato al padre di don Fernando l’abbandono della comunità da parte del figlio. Né il padre né la mamma erano venuti alla propria ordinazione sacerdotale. Da ora in poi, don Fernando sarà don Antonio. Don Raimondo “Nel rosso del tramonto, mentre lo guardava allontanarsi, sapeva che quello splendido ragazzo, gemma preziosa e raro dono del cielo, non l’avrebbe mai più rivisto” (Ibidem, pag. 212).

Parte seconda (1220- 1221)

La seconda parte (pp. 215- 258), divisa in IX capitoli, è la più breve del romanzo. Antonio, assieme ad altri confratelli, Donato, Giovanni, Silvano, nell’autunno 1220, escono da Coimbra e si fermano a Pontedes per trascorrervi la prima notte. Antonio, “coricato su un pagliericcio di foglie, prima di addormentarsi rivide tutta la propria vita: l’infanzia trascorsa nell’elegante palazzo di Lisbona, i primi studi a Sᾶo Vincente, i tanti anni trascorsi a Santa Cruz. In tutta la sua vita, il suo unico compito era stato quello di studiare e lui l’aveva fatto al meglio che poteva: adesso però, era iniziata un’altra vita. Sarebbe stato in grado di affrontarla” (Ibidem, pag. 215).

All’alba del giorno dopo, Antonio riprende il cammino, attraversa le città di Agua Belas, Villa de Rei, Alpalhao, Arronche. Temendo che il padre possa cercarlo, decide assieme ai suoi confratelli di passare per strade secondarie e arrivano dopo giorni di duro cammino, sempre a piedi, nella città di Badajoz, feudo degli Almohadi. Dopo aver visitato le torri di guardia e le possenti mura cittadine, riprende il cammino per Zafra, Fuente de Cantos, Monesterio, per fermarsi un giorno intero a Santa Olalla de Cala. In quest’ultima cittadina, i quattro confratelli, si fermano presso la casa di due anziani coniugi. Aggiustano il tetto dell’abitazione, tagliano la legna e venuta sera, consumano assieme alla gente del luogo una abbondante cena. Ognuno dei vicini aveva portato quello che aveva, condividendolo con gli altri. Parlando con i commensali, i quattro amici vengono a sapere che non tira aria buona per quanti si professano cristiani. I nuovi padroni, gli Almohadi hanno imposto la religione mussulmana. La comunità locale è cristiana da generazioni. Ora però tutti hanno paura. Antonio, prendendo a pretesto la vicina festa di Natale, improvvisa per i bambini il racconto della visita alla capanna di Betlemme. Prende sulle ginocchia il più piccolo dei bambini e racconta: “Clo clo, clo clo Per trenta giorni e trenta notti i Magi, i potenti re dell’Oriente, attraversarono i deserti seguendo una stella nel cielo che indicava loro il cammino…” (pag. 219).

Terminata la cena, prima di salutarsi, Antonio recita alcune preghiere. I presenti, titubanti, si uniscono a lui e pregano così come erano stati abituati dai propri genitori tanto tempo prima. Tutti si augurano la buona notte. Il giorno successivo, Donato, Giovanni, Silvano raggiungono assieme ad Antonio la città di Siviglia. Qui si sarebbero divisi per sempre. Antonio, lasciati i compagni, avrebbe proseguito da solo alla volta di Ceuta. Siviglia è una bella e grande città, piena di gente. Antonio, in mezzo al traffico cittadino, si sente strattonare la mano da una donna, che lo supplica di andare con lei al capezzale della mamma. Antonio la segue e arriva con lei in una stamberga. La mamma della ragazza è cristiana ma non ha avuto più la possibilità di avvicinare nessun prete. Vuole ricevere la benedizione prima di morire. La ragazza è una prostituta. Si guadagna da vivere praticando il mestiere più vecchio del mondo. Ha il cuore in subbuglio. Vorrebbe cambiare vita ma non sa cosa fare. Antonio ascolta attento il racconto della donna. Benedice la mamma morente. Recita con lei il Padre Nostro, fa all’ammalata il segno della Croce. Invita la ragazza a fare altrettanto. Questa obbedisce, rimanendo affascinata dalla bontà che Antonio sprigiona. La mamma morente ringrazia. La benedizione impartita è un balsamo anche per la figlia.

La ragazza chiede ad Antonio dove sia diretto. Lo trova molto diverso da tutti gli uomini che aveva conosciuto. Gli restituisce il piccolo Tau, il crocifisso che Antonio le aveva messo in mano. La piccola croce di legno era un dono che Antonio aveva  ricevuto da un dei Minori di Assisi, venuti in visita al monastero di Coimbra. La donna capisce che è un oggetto al quale Antonio è affezionato. Vede in lui qualcosa di diverso. Forse, pensa tra se, potrebbe essere uno dei preti nuovi di cui aveva sentito parlare in città. Un cliente le aveva raccontato di cinque stranieri che erano andati dalle sue parti a predicare ed erano ritornati a casa senza testa. “Berardo, Accursio, i suoi più cari amici. Forse stava parlando proprio di loro” (Ibidem, pag. 228). Antonio le chiede di continuare nel racconto. La ragazza, che “sapeva riconoscere all’istante ciò che si agita nell’animo di un uomo, scossa la testa con disappunto” e non dice altro.  Il commiato della ragazza da Antonio è struggente: “Grazie per avermi fatto sentire una persona – disse portandosi le mani di Antonio agli occhi, e bagnandolo di lacrime, con profondo rispetto, le baciò intensamente. Poi andò a coricarsi dietro la tenda” (Ibidem, pag. 229).

Antonio, il giorno dopo, su suggerimento della donna, si porta al mercato e cerca un commerciante di nome Nagib. Deve solo dirgli che lo mandava Fortuna. Questo è il nome della donna che Antonio aveva conosciuto a Siviglia. Antonio si reca al mercato e lo trova subito. Quando pronuncia il nome della ragazza, Nagib esplode in una risata fragorosa. Conosceva la ragazza. Il commerciante era solo interessato al denaro e alle donne. Era andato più volte da lei. Antonio gli dice che vorrebbe andare prima a Algeciras per imbarcarsi e proseguire poi per Marrakech in Marocco. L’uomo ar invita a dargli una mano nel lavoro. Deve chiudere dei sacchi. Sta organizzando una carovana. Sarebbe partito all’indomani per Dos Hermanas, Lebrija e Jerez de la Frontera, l’ultima tappa.

Nagib nel corso della trasferta prende a ben volere Antonio. Si assicura che mangi bene e, alla sera dopo cena lo invita a stare con lui davanti al fuoco per discorrere insieme di cose diverse. Vuole passare per ignorante, in realtà non è così, sa molte cose. Conosce tutto dei paesi che attraversa per il lavoro che fa da una vita. In fondo, anche se ha un debole per le donne, a suo modo è un uomo buono. Non si pone molte domande sulla religione. Rimane però affascinato della grande cultura di Antonio e lo invita a recitargli il salmo ottavo delle Sacre Scritture: “Quanto è grande, Signore, il tuo nome su tutta la terra. / Sopra i cieli si innalza la tua magnificenza. / Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, / la luna e le stelle che tu hai fissate, / che cosa è l’uomo perché te ne ricordi / e il figlio dell’uomo perché te ne curi…” (Ibidem, pag. 230- 231).

Nagib non capisce molto di argomenti religiosi ma rimane affascinato per la cultura immensa di Antonio:“Di quell’insolito religioso ammirava la cultura e lo considerava dotato di rara intelligenza, ma ciò che più apprezzava era la sua grande umiltà” (pag. 235). Antonio si sobbarca ogni tipo di lavoro. Non vuole dare nemmeno l’impressione di mangiare il pane senza il sudore della fronte. Tra i due, con il passare dei giorni, si instaura un clima di amicizia e di rispetto reciproco. Per Nagib che ha tre figlie, Antonio è per lui il maschio mancato. Il mercante è un uomo pratico, rotto alla fatica. Non va troppo per il sottile. Quando si accorge che il suo occasionale amico non riesce a camminare per un problema ai piedi, ricorre subito al rimedio che aveva imparato con gli anni. Pratica un calco di cera sul piede malandato tempestato di aculei, strappa con forza il preparato e rimette in sesto il malcapitato. Antonio non sa come ringraziarlo. Impara tante cose utili, altre cose le aveva imparate dal maestro dei novizi a Coimbra. Sta mettendo insomma nella propria gerla conoscenze di uomini e cose che gli torneranno utili nel momento del bisogno.

Nagib, giunto a destinazione, consegna Antonio nelle mani dell’amico Hassan, che due volte al mese guida una carovana commerciale tra Rabat, Anfa e Marrakech. Nagib, prima di salutarlo, consegna ad Antonio del denaro. Gli sarebbe servito per il resto del viaggio. Antonio non aveva mai avuto in mano del denaro. Pensa di donarlo subito ad Hassan. Questi non vuole proprio saperne. Nagib è un suo amico e gli aveva promesso che avrebbe provveduto lui stesso a tutte le necessità Tra i due si instaura subito un clima di amicizia. Scaricate casse di merci, gli uomini di fatica della carovana si mescolano alla gente del posto. Antonio vede con i propri occhi una folla che aveva conosciuto solo sui libri letti. Il mercato cittadino offre di tutto: spettacoli, mercanzie di ogni genere, incontri ravvicinati con i mercanti che offrono di tutto, Antonio evita di essere imbrogliato.

La carovana, partita da Anfa, dopo aver superato il villaggio di Settat, affronta le prime asperità del deserto. “Antonio osservava l’incanto del firmamento e le pagine di mille libri si sfogliavano nella sua mente”. Hassan, vedendo Antonio tutto assorto in preghiera, sorride, dicendo: “L’uomo che prega è uno strumento di Dio. Anch’io vorrei pregare, e, se vuoi, possiamo farlo assieme” (pag. 247). I due vanno a dormire ma non sanno che l’indomani sarà un inferno per tutti. La carovana marcia verso Marrakech. Lungo la pista carovaniera incontrano una folla di sbandati che corre da ogni dove. Marrakech è stata assalita e distrutta. Hassan non crede a quello che viene raccontato da uno degli uomini in fuga. Ordina di proseguire, ma, lungo il percorso altri disperati in fuga dalla città assaltano la carovana, rubano quello che possono e distruggono tutto. Antonio rimasto solo non sa cosa fare. Un commerciante cristiano si offre di portarlo sino a Ceuta, a patto che non parli di religione. Sono in territorio nemico. Antonio non può non ricordare con il cuore in gola i suoi amici italiani: Berardo, Adiuto, Accursio, Ottone, Pietro. La destinazione Marocco viene abbandonata. Antonio, quando la barca è pronta per lasciare il Marocco verso la Spagna, sale sull’imbarcazione. Getta lo sguardo sconsolato verso la costa che si sta allontanando. Le peregrinazioni non sono finite. La barca viene spezzata in due dalla furia di una violenta tempesta. Ciò che rimane tocca la sponde della Sicilia, dopo giorni e notti passati in balia delle onde.

Parte terza (1221 – 1224)

La terza parte (pp. 261 – 441), divisa in XIX capitoli, è la parte centrale del romanzo. Antonio, da Capo Milazzo, gennaio 1221, risale la penisola. In terra siciliana, proprio a Milazzo, esiste una piccola comunità di Frati Minori. Conosce frate Egidio, il più anziano dei confratelli. Antonio, dopo giorni di convalescenza, si sveglia dal torpore. E’ attorniato da frate Egidio e dagli altri confratelli. Tutti si prodigano nel curarlo nel migliore dei modi. Dopo essersi completamente ristabilito, Antonio dice di venire dalla Lusitania, l’antico nome romano del Portogallo e che vorrebbe conoscere Francesco di Assisi. I Minori conventuali della Sicilia stanno proprio partendo per Assisi dove ci sarà il Capitolo generale al quale tutti i Minori sono chiamati a partecipare. “Antonio, l’Ulisse venuto dai confini del mondo, risponde con silenziosa gratitudine, bagnando di lacrime la terra di Sicilia” (pag. 263).

Giunge in Assisi, assieme ai Minori nel maggio 1221. Qui conosce personalmente Francesco. Fratel Elia, ad un’ora convenuta, nel mezzo del declivio dove si erano radunati tutti i Minori conventuale, chiama per nome Francesco. Chiesto e ottenuto il silenzio, “Un uomo incerto nel passo e vestito di stracci, aveva lentamente raggiunto una sedia impagliata, messa apposta per lui al centro della scena”. “Antonio si sente chiudere la bocca dello stomaco e provò una sensazione di disagio: quel vecchio malato, che avanzava a piccoli passi, non aveva nemmeno quarant’anni. Quale calvario doveva sopportare? I suoi occhi erano bendati per via di una grave malattia contratta in Egitto, aveva spiegato frate Elia, ma quel corpo piegato dalle privazioni della vita, andava ben oltre ogni spiegazione” (pag. 265). Antonio rimane estasiato. Ripassa a memoria quanto gli avevano detto gli amici italiani: “La povertà è la vera ricchezza, perché custodisce e genera l’umiltà e libera dai desideri che legano l’uomo alle cose”. Rimane assorto in preghiera, quando viene chiamato da fratel Graziano, ministro provinciale dei penitenti di Assisi. Per Antonio inizia il lungo periodo italiano.

Dalla città umbra si sposta a Montepaolo (FC), giugno 1221 – settembre 1222, Forlì, 24 settembre 1222. Nella piccola frazione di Montepaolo, i Minori Conventuali di Assisi hanno aperto da poco un piccolo eremo. Qui si avvicina totalmente alla nuova Congregazione religiosa di cui sposa tutto il carisma: povertà, lavoro, preghiera e meditazione. Va ad attingere acqua nel pozzo lontano dall’eremo per i bisogni della comunità. Spacca la legna per accendere il fuoco del camino. Coltiva i prodotti dell’orto. Ripara attrezzi da lavoro, ne costruisce di nuovi. Fratel Ireneo lo invita ad aiutarlo nella preparazione di infusi officinali per guarire da ogni genere di mali fisici. Antonio, forte degli insegnamenti avuti da don Raimondo a Coimbra, aggiunge conoscenza nuove a quelle chi già possiede e diventa per il piccolo eremo una persona estremamente preziosa. Ha dalla sua la grande preparazione teologica e biblica. Non disdegna mai di rendersi utile nel lavare piatti e scodelle, mondare le verdure e cucinare, il tutto fatto nella semplicità. In breve tempo parla correttamente la lingua italiana. I nuovi confratelli “ammiravano quelle mani, così preziose da somministrare l’eucaristia e così umili da lavare i piatti, dedicarsi ai lavori più duri, cucinare le sarde più buone, e, nei giorni di festa, preparare dolci di mandorle davvero speciali” (pag. 275).

Nel piccolo romitorio di Montepaolo riceve la visita di due religiosi, l’uno appartiene all’ordine dei frati predicatori, l’altro a quello degli agostiniani, fratel Verardo e Pierre da Vigny. Fratel Graziano, Antonio e i due ospiti parlano animatamente della situazione in cui versa la Chiesa. Fratel Verardo rimprovera i Minori di Assisi di scarsa preparazione teologica. Le sfide verso il mondo che va cambiando rapidamente con lo sviluppo del commercio, la nascita delle Università, devono essere affrontata con la predicazione: “Ogni città trabocca di nuovi eretici, di fronte ai quali il vostro entusiasmo non basta” – dice fratel Verardo a fratel Graziano. Gli eretici sono gli Albigesi, detti anche Catari, movimento che si è sviluppato soprattutto nella Francia meridionale; nell’Italia settentrionale sono più conosciuti come Patarini. Antonio sarà il predicatore del nuovo ordine dei frati Minori. Frequenta la città di Bologna. Ne conosce l’Università e tutto il vasto mondo che le gira attorno: professori, studenti, librari. Nella cattedrale della città felsinea, Antonio sostituisce fratel Alberto, indisposto per motivi di salute, nella predica rivolta ad un nutrito numero di nuovi sacerdoti ordinati dal vescovo. Le sue parole toccano il cuore e la mente di tutti i presenti. Ormai è diventato il punto di riferimento di tutto l’Ordine Francescano dell’Italia settentrionale. Fonda una scuola teologica presso il convento di Santa Maria della Pugliola per preparare i futuri oratori dell’Ordine dei Minori di Assisi. Alessandro, Aurelio, Biagio, Filippo sono i suoi primi allievi. Alla sua scuola diventeranno degli ottimi predicatori.

Il 25 dicembre 1222 una violenta scossa di terremoto, con epicentro la bassa bresciana, causa in tutta l’Italia Settentrionale circa 10.000 morti. Le scosse vengono avvertite distintamente anche a Bologna. Antonio si trova in città presso comunità dei Frati Minori di Assisi, intenti a festeggiare la vigilia di Natale. Rimangono sotto le macerie dei bambini, che vengono salvati tempestivamente da Fratel Antonio con l’aiuto di Orgev, l’ubriacone, un nano di origine tedesca. Questi, proprio perché piccolo, riesce ad introdursi nella struttura danneggiata dal sisma e tira fuori dalle macerie gli ultimi bambini rimasti. Altre scosse di assestamento fanno crollare altre parti dell’edificio, che seppelliscono l’intrepido salvatore. Fratel Antonio riesce ad organizzare squadre di soccorso in poco tempo. Anche per questo evento, fratel Antonio è sulla bocca di tutti, anche del Papa Onorio III che lo incarica di combattere gli eretici, non con le armi ma con la parola. E’ quello che Antonio fa immediatamente. In Italia spiccava il caso di Arnaldo da Brescia, un canonico agostiniano di origini italiane, che dopo aver concluso gli studi a Parigi, rientrato in Italia, aveva iniziato una forte predicazione contro le istituzioni ecclesiastiche. A Rimini si confronta con Bonovillo che è a capo di un gruppo di eretici. Il confronto tra i due si conclude con la conversione di Bonovillo che ammette i propri errori e loda la grande preparazione di Fratel Antonio.

Dopo diversi spostamenti tra Forlì e Bologna, Antonio attraversa il Po, febbraio 1224, per arrivare alla fine dello stesso mese a Sacra di San Michele, in Val di  Susa. Qui incontra padre Tommaso, un’autorità in fatto di studi biblici. Questi lo informa sul movimento dei Catari in Francia. Il Papa Onorio III aveva chiesto a Francesco di Assisi di inviare qualcuno dei suoi come missionario nella Francia meridionale per convertire catari e gli albigesi. Francesco invia fratel Antonio, fornendogli un lasciapassare con il sigillo del Papa stesso. L’attraversamento del Po avviene con la compagnia del Conte d’Este. Attraversato i Po, i due raggiungono Vercelli a cavallo. Antonio si dimostra un indomito cavaliere tanto da suscitare l’encomio del conte d’Este. L’attraversamento delle Alpi per portarsi sul suolo francese avviene in compagnia di fratel Donato, Tazio e Drudo. Il percorso è pieno di insidie. Antonio visita i villaggi incendiati dagli eserciti del Nord. I Catari non avevano scampo. Fratel Antonio è chiamato a fermare la carneficina in atto. Avvicina i sopravvissuti ai massacri, conosce le violenze subite da ragazze, uomini e donne. Dopo tanto odio occorre portare la vera parola di Dio, schierandosi anche qui contro vescovi, religiosi e preti che avevano causato loro questa forma di eresia con la propria cattiva condotta. Gli ultimi capitoli di questa terza parte sono ricchi di colpi di avventure mozzafiato, montagne da scalare, neve, ghiacciai, villaggi abbandonati e messi a ferro e fuoco.

Parte quarta (1224 – 1227).

La quarta parte /(pp. 445 – 511), divisa in VII brevi capitoli, narra del soggiorno ad Arles, 1224, a Montpellier, ottobre 1224, Tolosa, aprile – maggio 1225, Bourges, novembre 1225, Limoges, marzo 1226, Brive, settembre – ottobre 1226. Antonio corre da una parte all’altra della Francia meridionale. Provenza, Linguadoca e Guascogna. Antonio cerca di capire da vicino l’eresia catara: “I catari disprezzavano la vita: questo era l’abisso L’inconciliabile distanza che separava un cattolico da un cataro. Certo, anche i penitenti di Assisi conducevano lunghi digiuni, ma lo facevano per amore della vita! Ogni fratello si privava di qualcosa di buono, di bello, di comodo, nella convinzione di migliorare il proprio spirito. Per i catari, invece, la privazione era il rifiuto di qualcosa che non valeva la pena di vivere. Ogni cataro esibiva il proprio pallore e disprezzo della vita. Era questo l’uomo nuovo?” (Pag. 469). Evidentemente no, concludeva fratel Antonio.

Rimaneva comunque lo scandalo della Chiesa nelle sue alte gerarchie. Al sinodo di Bourges, convocato per domenica 30 novembre 1225, nel giorno della festa di Sant’ Antonio, nella superba nuova cattedrale gotica, sono presenti: Angelo Romano, il legato pontificio, l’arcivescovo Simone de Sully affiancato dal re Luigi, l’arcivescovo Gualtiero Cornuto, baroni e conti di tutta la Francia, in rappresentanza dei propri territori. Fratel Antonio dal pulpito si scaglia contro i falsi profeti, citando Geremia, dei tempi moderni. “Voglio parlare a te, Cornuto, – gridò col braccio teso in direzione dell’arcivescovo”. Sicuramente l’arcivescovo Cornuto non si definiva un corrotto, ma sapeva di aver trascorso gran parte della sua vita tramando interessi personali. Per accattivarsi la stima dei potenti, aveva spesso abbandonato i precetti del Signore, li aveva ignorati, infranti, calpestati e, peggio ancora, manipolati” (pag. 495). L’auditorio si azzittisce sotto gli strali di Fratel Antonio che prosegue imperterrito: “Non è certo peccato possedere ricchezze o conquistare cariche; anche in quello stato ci si può salvare. Così parlano i sacerdoti ladri! Che mordono con vituperi coloro che non danno. Ma se poi quelle stesse persone sono disposte a dare, allora li benedicono solennemente, loro che sono maledetti dal Signore, il quale maledice anche le loro benedizioni. Non è vero forse? A quelli che danno, promettete misericordia! A quelli che danno, aprite le braccia e dite: voi siete figli della Chiesa e onorate la madre vostra, e quindi siete benedetti! Antonio era come un fiume in piena – Chi si unisce al potente malvagio, penzola dai suoi fianchi! Ditemi, o falsi profeti, ladri e omicidi, chi è la chiesa, se non l’anima fedele? Per renderla pura, senza macchia né ruga, il Signore ha consegnato alla morte la sua anima, cioè la sua vita. Dove sono le sentinelle della Chiesa? Nessuno osava fiatare e nessuno osava sfiorarlo con lo sguardo” (pp. 496 – 497).

Fratel Antonio assieme ai suoi discepoli formati alla scuola teologica visitano altre città e ovunque si trovino, Saint – Marzial, Limoges, Saint – Junien le chiese si riempiono d fedeli. Le sue prediche, sermoni toccano i cuori di tutti. Nella cittadina di Brive, fratel Antonio incontra un cavaliere ridotto a un qualcosa di spaventoso. Si chiama Hildebrando Sta ritornando dall’assedio di Avignone. Cavallo e cavaliere erano ridotti ad uno stato pietoso. Dopo averlo confessato e assolto, come richiesto dal cavaliere, fratel Antonio ha bisogno di nascondersi in una grotta. “Si inginocchia e inizia a pregare le malvagità e le cattiverie, per gli uomini deviati, per i feriti e gli ammalati e per ogni sofferenza che affligge il mondo” (pag. 505). Continuano ancora la sofferenza di Antonio: “Terribili fitte gli tormentavano le reni”. Viene assistito dai confratelli, fra tutti da “Dominic, un giovane di nobile lignaggio che da poco aveva terminato il periodo di noviziato”. Trascorsi i gelidi mesi invernali, Antonio prende la via dell’Italia, destinazione Padova.

 

Parte quinta (1230 – 1231)

E’ l’ultima parte (pp. 515 – 612) del romanzo, divisa in IX capitoli. Ancora malandato e tormentato da dolori lancinanti, Antonio viene curato da frate Berengario, il factotum della piccola infermeria patavina. Berengario che era stato un grande medico gli ordina dieci giorni di riposo assoluto. Antonio si ribella ma alla fine accetta. Una volta ristabilito in salute si getta nella costruzione di chiese e piccolo comunità francescane a Gorizia, Trieste, Cividale del Friuli, Gemona, Trento, Bassano del Grappa, Brescia, Ferrara e il Polesine. Ovunque incoraggia i confratelli e cementare la fede con la costruzione di celle e luoghi di preghiera (pag. 517). Si sente strizzato come un limone ma va bene così. Riesce a mettere insieme tutto. Si guarda attorno e vede una che Padova sta diventando una grande città. La vecchia cinta delle antiche mura viene abbattuta per costruirne di nuove. La popolazione è in continua espansione. Prosperano commerci. Si innalzano cattedrali. L’Università è frequentata da giovani che provengono da ogni parte dell’Italia e d’Europa.

Un termine gira tra le vie della città patavina, “Progressus”, che viene ripetuto come un mantra. “Nella città, ancora prima dell’alba, ai quattro punti cardinali della città, artigiani, commercianti, contadini e allevatori provenienti da ogni parte della pianura si stipavano davanti alle porte e, al suono della campana, non appena gli enormi portoni si aprivano, varcavano gli ingressi e carichi di ogni bene si affrettavano a raggiungere le piazze per sistemare i banchi e offrire le loro mercanzie” (pag. 520).

Il verbo latino, da cui deriva la parola progressus, era progredior che significa avanzare, progredire. C’era però chi non avanzava affatto ma rimaneva sempre dietro. Eppure c’era in tutti la volontà di costruire, vendere, acquistare. Si chiedevano prestiti al banco dei Pegni. Ma molti non riuscendo ad onorarli cadevano ancora di più in miseria. Dichiarare bancarotta era un’umiliazione che veniva punita anche con il carcere a vita, sì perché anche se si riusciva a scontare la pena, ci si indebitava di nuovo e si era sempre punto a capo. Le carceri cittadine, costruite al di sotto del livello stradale, in spazi stretti, umidi e freddi, ospitavano una folla di miserabili ridotti a larve umane. Qualche debitore insolvente, non riuscendo a pagare il debito contratto, non potendo sopportare la vergogna davanti alla città, si toglieva la vita, impiccandosi alle travi del proprio piccolo laboratorio. E’ il caso di Tonin un povero commerciante caduto in disgrazia. Fratel Antonio costituisce una equipe di lavoro. Lo aiutano fratel Luca, Fiorenzo, fratel Giacomo, fratel Alessandro e altri confratelli. Per ogni commerciante costruiscono una scheda, annotando il prestito richiesto, i guadagni e i debiti e la composizione del nucleo familiare. Il caso di Tonin era emblematico. Non era stato un disonesto ma uno sprovveduto. Si era fidato troppo della propria situazione finanziaria iniziale e non aveva previsto che nel commercio ci sono alti e bassi. Antonio legge pile di documenti per ogni commerciante che sa di essere in difficoltà. Lo fa con perizia e abilità. I confratelli si stupiscono come faccia a resistere a così tanto lavoro fatto con professionalità.

Fratel Antonio si accorge che il Monte dei Pegni prestava denaro con interessi troppo alti, che non tutti riuscivano ad onorare. Questo era uno scandalo. Non si trattava di condannare il progresso ma guidarlo con leggi più eque. La risposta al problema dell’usura, fratel Antonio lo ritrovava nel libro di Neemia. Il popolo di Israele, dopo il ritorno dall’esilio, si trovava in povertà assoluta e stentava a sopravvivere. Il popolo affamato si lamentava esasperato: “Abbiamo preso denaro a prestito sui nostri campi e sulle nostre vigne per pagare il tributo del re e adesso noi non abbiamo via d’uscita, perché i nostri campi e le nostre vigne sono in mano d’altri” (pag. 547).

Tanta è la fama di fratel Antonio che anche il podestà di Padova, l’illustrissimo Stefano Badoer, manifesta interesse verso di lui e lo accoglie a palazzo. Riunito il Gran Consiglio, su richiesta del venerabile frate Antonio, il podestà presenta una legge che abolisce il carcere a vita per i debitori insolventi. La legge viene approvata. Il nome di fratello Antonio corre sulla bocca di tutti. La città è in festa ma solo per poco. Era accaduto che due figli del podestà erano stati catturati e fatti prigionieri dal peggiore dei nemici, Ezzelino da Romano, il più spietato dei tiranni. Nei secoli, città, terre e popolazioni cadute sotto il suo potere, non avevano mai conosciuto un despota più crudele. Fratel Antonio si reca, come ambasciatore, dal tiranno e con fare risoluto chiede la liberazione dei due prigionieri. Anche Ezzelino da Romano si piega davanti all’autorità morale dell’uomo. I due prigionieri vengono riportati dal padre.

Antonio vive intensamente il proprio apostolato nella città di Padova. Raggiunge anche Verona, aprile 1231 da dove riparte per Camposampiero, comune della provincia di Padova, nel maggio 1231. Muore il 13 giugno 1231, un venerdì, attorniato dai suoi confratelli: Ruggero, Luca, Vinotto, che ha porta con sé un enorme masso di pietra. Fratel Antonio l’aveva promesso a se stesso che mai più avrebbe riposato su un cuscino di piume. Luca adagia sul petto dell’amato maestro tre candidi gigli, i fiori preferiti da fratel Antonio che “stringeva nelle mani il cordoncino di cuoio con la sua inseparabile tau. A quel piccolo simbolo aveva dedicato il suo ultimo gesto: con fatica l’aveva avvicinato alle labbra porgendo un lieve bacio, poi si era affidato alla Madre celeste. Con delicatezza i tre frati sistemarono quell’insolito cuscino sotto la nuca dell’amatissimo fratello.. Fuori, nella pace della sera, la città ardeva muta e silenziosa. Mute erano le sale dei palazzi, le piazze fiorite, i vicoli e i borghi malfamati” (pag. 612). E’ la conclusione del romanzo.

Raimondo Giustozzi

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