“Era nel ’22 che bisognava difendere la Patria aggredita. Ma l’esercito non la difese. Stette ad aspettare gli ordini che non vennero. Se i suoi preti l’avessero educato a guidarsi con la Coscienza invece che con l’Obbedienza cieca, pronta, assoluta, quanti mali sarebbero stati evitati alla Patria e al mondo (50 milioni di morti). Così la Patria andò in mano a un pugno di criminali che violò ogni legge umana e divina e riempiendosi la bocca della parola Patria, condusse la Patria allo sfacelo”. Nel 1936 cinquantamila soldati italiani appoggiarono il colpo di stato del generale Franco, dal ’39 in poi i soldati italiani aggredirono una dopo l’altra altre sei Patrie che non avevano certo attentato alla loro: Albania, Francia, Grecia, Egitto, Jugoslavia, Russia (Don Lorenzo Milani, Lettera ai cappellani militari).
Il 28 ottobre 1922 avviene la marcia su Roma organizzata dal Fascismo. Cento anni fa l’Italia entrava dentro a piedi uniti in una fase storica che la porterà vent’anni dopo ad attraversare le pagine più buie della propria storia: le leggi razziali del 1938, l’alleanza con la Germania di Hitler, la guerra. Bastano questi tre scenari per ripercorrere, come in un film a passo ridotto, i momenti tragici della generazione che ha visto i bombardamenti delle città, le rappresaglie naziste, la guerra civile, la distruzione materiale e morale di tutto ciò che aveva costruito.
Nell’Unione Sovietica andava di moda una opinione diffusa che più o meno diceva così: Il futuro è incerto. Il passato è imprevedibile. Oggi, in alcuni intellettuali di casa nostra, quelli che quando si collegano da remoto con i talk show televisivi, circondati da librerie lucide e colme di libri, tanto da farli sembrare, avrebbe detto don Milani, più vicini a Dio che agli uomini, sostengono più o meno la stessa cosa. Sono stati gli inglesi che hanno bombardato la città di Verona, non i tedeschi, dice qualcuno. Anche la città di Macerata fu bombardata dagli inglesi. C’è chi sostiene che a pilotare quegli aerei ci fossero anche piloti polacchi. Le città italiane non avrebbero subito nessun bombardamento se non ci fosse mai stato il patto scellerato l’Asse Roma – Berlino.
Oggi, il capo del Cremlino parla di un nuovo Asse contro la Federazione Russa. Si scaglia contro il sentimento russofobo che a suo dire pervade gli Stai Uniti e i loro alleati. Dopo tutto quello che ha fatto e sta facendo l’esercito della Federazione Russa contro l’Ucraina con crimini efferati, parla di russofobia. Non c’è nessun risentimento contro il popolo russo e la sua cultura, ma contro l’attuale leadership del Cremlino. Fin dall’inizio dell’invasione, chiamata “Operazione Militare Speciale”, ha sostenuto che la guerra contro l’Ucraina era necessaria per abbattere il governo di Kiev in mano ad una banda di drogati e per di più nazisti. I Russi (700.000) scappati all’estero perché contrari alla chiamata militare sono stati additati dallo stesso come feccia. Passerà questo tempo malvagio dagli scenari apocalittici. C’è chi minaccia di far scomparire stati e intere aeree geografiche, premendo un semplice bottone. Si parla di inverno nucleare, il sole che si oscura su tutto il pianeta, la distruzione del genere umano.
Occorre “Mettere una pezza ai disastri accaduti nella storia”. Basta pensare alla tragedia delle Foibe. Non è stato colmato quasi nulla. Eppure c’è tanto da leggere sull’argomento. Esistono romanzi, saggi, film, documentari. Si usa l’argomento solo per fare politica e solo una volta all’anno. Occorre trovare i torti e le ragioni degli uni e degli altri. Il Fascismo iniziò tutto con la guerra contro la Jugoslavia. Con la sconfitta dell’Italia, tutto il Nord Est del paese fu lasciato in balia degli eventi. Il governo, appena insediato, doveva trattare i termini della pace. I Comunisti italiani guardavano a Mosca. Tutti gli italiani della Venezia Giulia, dell’Istria e della Dalmazia furono visti come fascisti. Nulla era più lontano dalla verità. La loro unica colpa era di essere italiani. La giornata del ricordo (10 febbraio) non è la bandiera agitata dalla destra contro la sinistra, né il giorno della memoria (27 gennaio) deve essere il vessillo della sinistra contro la destra. Il 25 aprile, festa della liberazione, non può né deve essere la festa di una parte della società italiana contro un’altra. Mi piace ricordare quanto scritto dalla consigliera Valentina Luchetti, pubblicato nello Specchio Magazine il 30.03.2023: “L’antifascismo non è una scelta, non è misurabile né stimabile, non è un colore, non è un parere né una bandiera politica. È uno dei principi basilari della nostra Costituzione ed è garanzia di libertà per tutti”.
Alla liberazione dell’Italia dal Nazi Fascismo contribuirono gli eserciti anglo – americani, il Secondo Corpo d’Armata Polacco, il Corpo Italiano di Liberazione (C. I. L.), che rappresentava il ricostituito esercito italiano, guidato dal generale Utili, la Brigata Majella, “Le Brigate Garibaldi, i GAP e le SAP, organizzate dal Partito Comunista Italiano, le formazioni di Giustizia e Libertà, coordinate dal Partito d’Azione, le formazioni Giacomo Matteotti del Partito Socialista di Unità Proletaria, le Fiamme Verdi, che nascono come formazioni autonome per iniziativa di alcuni ufficiali degli alpini e si legano poi alla Democrazia Cristiana, come le Brigate del popolo, le Brigate Osoppo, autonome e legate alla DC e al PdA, le formazioni azzurre, autonome ma politicamente monarchiche e badogliane, le piccole formazioni legate ai liberali e ai monarchici” (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, in www.anpi.it).
In memoria di Giancarlo Puecher
Nell’anno scolastico 1986 – 1987 abitavo in Brianza, a Giussano e insegnavo nella vicina Scuola Media di Verano Brianza. Facendo studiare agli alunni di terza media la seconda guerra mondiale, mi imbattei nella figura di Giancarlo Puecher, un giovane milanese, sfollato con la propria famiglia, a Lambrugo, fucilato ad Erba da un plotone della famigerata Guardia Nazionale Repubblicana, solo perché aveva avuto il coraggio di ribellarsi, dopo l’8 settembre 1943, ad un ordine sociale ingiusto e pagare di persona questa sua obiezione di coscienza.
In pochi giorni lessi con avidità la biografia di Giancarlo Puecher (Milano, 23 agosto 1923 – Erba, 21 dicembre 1943), curata da Gianfranco Bianchi e il libro più recente di Giacomo De Antonellis: “Il caso Puecher, morire a vent’anni partigiano e cristiano”, edito da Rizzoli nell’aprile del 1984, e segnalatomi dal dott. Cesare Grampa, direttore del Centro Studi Puecher di Milano. Giancarlo Puecher, figlio di una delle più nobili famiglie milanesi, con il papà Giorgio, presidente dell’ordine dei notai, aveva l’avvenire assicurato. Il posto nello studio notarile del padre non gli sarebbe di certi sfuggito. Si era iscritto per questo a Giurisprudenza. Le tessere annonarie del momento non sconvolgevano di certo la famiglia, potendo contare su patrimoni sicuri e campagne coltivate in quel di Lambrugo (CO), dove i Puecher avevano una villa.
Eppure Giancarlo avvertiva che la storia correva e i giovani dovevano starle dietro. Non poteva chiudere gli occhi, quando attorno tutto crollava e pochi si muovevano per puntellare la casa. C’era stato l’8 settembre 1943 e il paese era crollato nello sfacelo istituzionale più completo. Centinaia di soldati sbandati si rifugiavano sulle montagne. Avevano bisogno di coperte, cibo, mezzi per combattere una lotta che sembrava impari contro l’esercito nazi fascista e l’apparato poliziesco della Repubblica Sociale Italiana. Giancarlo Puecher, assieme a pochi altri, si prestò subito in questa opera di soccorso. Radunò e inquadrò un gruppo di militari sbandati sull’Alpe del Viceré, requisì, presso l’albergo “Crotto Rosa” di Erba (CO), alcune taniche di benzina per il gruppo partigiano da lui coordinato.
Zia Lia Gianelli, l’adorabile Sza, come la chiamava Giancarlo, il papà Giorgio, don Edoardo Arrigoni, parroco di Lambrugo, richiamavano il giovane alla prudenza. Giancarlo Puecher la sua scelta l’aveva già fatta. Non aveva dubbi. Sentiva che la parte giusta si trovava sulle barricate democratiche, per questo aveva scelto di assumere l’incarico di vice comandante del gruppo autonomo partigiano di Ponte Lambro (CO). Alla morte della mamma, avvenuta il 31 luglio 1941, aveva scritto sul suo quadernetto di appunti: “Ricordati della tua santissima ed unica mamma. Ricordati di essere buono col tuo papà e coi tuoi fratelli. Ricordati che dopo tante amare delusioni che hai provato, non ti resta che morire combattendo per la tua Patria. Ricordati che la vita vera non è una gioia né un dolore, è un dovere da compiere”.
Il momento supremo per testimoniare di persona quanto aveva scritto due anni prima, era giunto e su questa dirittura d’arrivo Giancarlo Puecher non si smarrì. Scriveva Ignazio Silone in “Uscita di Sicurezza: “Per quale destino, virtù o nevrosi, ad una certa età si compie la grave scelta, si diventa ribelli. Donde viene ad alcuni quell’irresistibile intolleranza della rassegnazione, quell’insofferenza dell’ingiustizia, anche se colpisce altri? E quell’improvviso rimorso di assidersi a una tavola imbandita, mentre i vicini di casa non hanno di che sfamarsi? E quella fierezza che rende le persecuzioni preferibili al disprezzo. Forse nessuno lo sa”.
Queste o altre saranno state le considerazioni che accompagnavano Giancarlo Puecher, mentre con un suo amico Franco Fucci scendeva da Canzo (CO) verso l’abitato di Erba, pigiando vigorosamente sulle pedivelle delle biciclette. Quel 12 novembre 1943 avrebbero dovuto compiere solo un’azione dimostrativa. Un ordigno esplosivo, collocato sul balcone di una casa in via San Bernardino in Erba, dove era l’abitazione del podestà, una volta fatto brillare, avrebbe fatto affluire nelle intenzioni dei due tanta gente. Sarebbe stati lasciati sul posto anche alcuni manifestini, vergati a mano, con poche parole minacciose nei confronti dei repubblichini e inviti generici alla riscossa nazionale.
Il piano non funzionò perché i due, raggiunto l’abitato di Lezza di Ponte Lambro, verso le 22,30 di quel 12 novembre 1943, incapparono in un posto di blocco della Guardia Nazionale Repubblicana. Il tentativo di reazione di Franco Fucci non ebbe esito favorevole. Raggiunto al ventre da una pallottola calibro 9 sparata al suo indirizzo da un milite, il giovane, grondante sangue, veniva portato all’ospedale Sant’Anna di Como, mentre su Puecher, che si era liberato nel frattempo della propria pistola, si abbatteva la furia fascista con schiaffi, pugni e calci.
L’arresto e la condanna a morte
Tratto in arresto e portato al municipio di Erba, Giancarlo Puecher veniva aggredito verbalmente dal capopattuglia della Guardia Nazionale Repubblicana, Antonio Revel. Giancarlo non capiva tutto il livore del centurione Antonio Revel e i discorsi che questi scambiava con altri fascisti presenti sui fatti del giorno. Infatti, nel tardo pomeriggio di quel 12 novembre 1943, sempre ad Erba, il centurione della milizia Ugo Pontiggia (papà del futuro scrittore Giuseppe Pontiggia), intorno alle 18,00, uscito dai locali del Banco Ambrosiano, dove lavorava come impiegato, veniva avvicinato da due uomini che, in via Volta, lo invitavano ad appartarsi con loro per avere spiegazioni in merito ad una denuncia fatta dal figlio dello stesso, circa un bivacco sospetto di militari sbandati o di partigiani sull’Alpe del Viceré.
Ugo Pontiggia, vistosi perso, chiamava in suo aiuto un amico che passava di lì, tale Angelo Pozzoli, fratellastro di Lorenzo Pozzoli, questore di Como, fascista, odiatissimo dagli avversari. I due individui, non erano di Erba, ma al nome del Pozzoli, estratte le pistole, facevano fuoco contemporaneamente su entrambi, freddando sul colpo Angelo Pozzoli, del tutto estraneo alla politica e ferendo mortalmente Ugo Pontiggia che, trasportato all’ospedale, non superava tuttavia la notte. Per i fascisti d Erba, quindi, assetati di vendetta, l’arresto di Puecher, assolutamente estraneo ai fatti, arrivava come pretesto per mettere in moto la macchina della rappresaglia, voluta e appoggiata dal questore di Como, Lorenzo Pozzoli. Nel corso della notte, Puecher, assieme ad altri, veniva condotto nel carcere di San Donnino di Como, dove il giorno seguente arrivava Giorgio Puecher, arrestato anche lui, soltanto perché padre del giovane. Giancarlo e suo padre rimasero nel carcere San Donnino di Como fino al 20 dicembre 1943.
La mattina del 20 dicembre, circa un mese dopo l’arresto di Giancarlo Puecher, ad Erba, un nuovo attentato gappista toglieva di mezzo la guardia comunale Germano Frigerio, che si apprestava a partire alla volta di Milano per partecipare ai funerali del camerata Aldo Resega. La misura era colma. I fascisti di Erba si riunivano per gridare alla vendetta. Nel corso di una telefonata tra il questore Pozzoli e il prefetto di Como, Scassellati Sforzolini, si parlò di rappresaglia in rapporto di dieci ad uno, mettendo nel conto le tre vittime fasciste di Erba: Pozzoli, Pontiggia e Frigerio. Ma tra gli arrestati di un mese prima non c’era un numero sufficiente per consumare la rappresaglia e il numero dei condannabili andò scemando. Dieci in totale, quindi la riduzione a sei, poi l’ordine perentorio e sbrigativo: “Fa, fa cinq cass de mort” (Fai, fai cinque casse da morto), infine il numero si riduceva a quattro, tre, due. Uno soltanto divenne martire: Giancarlo Puecher che, prelevato assieme agli altri dal carcere di Como, veniva portato immediatamente in questura per essere giudicato.
Da Como, verso le 19.30 dello stesso giorno, partivano alla volta di Erba, due torpedoni della Milizia, con a bordo otto imputati e con il collegio giudicante. Il Tribunale Militare si insediò al primo piano del municipio di Erba, nell’ufficio del podestà. Gli otto imputati vennero scaricati in una saletta accanto, mentre al piano terra, era stata allestita la camera ardente con il cadavere dello squadrista ucciso (Frigerio), vigilato da paranti e camerati schiumanti rabbia e odio. In una atmosfera del genere non esisteva nessun presupposto perché quello che si pretendeva essere un processo, potesse essere attendibile. Non c’era nessun capo d’accusa preciso e circostanziato a carico degli imputati, ma solo accuse generiche, come quelle rivolte rispettivamente a Luigi Giudici e ad Ermanno Gottardi, accusati, l’uno di aver esposto nel 1924, per un paio di mesi, nella sua casa, il ritratto di Giacomo Matteotti, l’altro di aver lavorato circa dieci minuti per rompere i fasci littori alla base del monumento ai caduti di Erba, dopo la caduta del Fascismo (25 luglio 1943). In tempi normali sarebbero state accuse esilaranti, ma in quelle circostanze bastavano per condurre un condannato davanti al plotone d’esecuzione.
L’avvocato Beltramini si sentiva impotente. Citò mentalmente Tolstoj: “Dov’è un tribunale, ivi l’iniquità” ma non serviva a placargli l’animo come in altre occasioni. Qui non si trattava di mercanteggiare qualche anno di prigione nell’attesa di un indulto. Qui si giocava con la morte e il segno veniva superato con la maschera dell’ipocrisia. “Fa, fa cinq cass de mort” e a nulla valeva protestare che nessun capo d’accusa che potesse portare a morte qualcuno degli imputati. Il pubblico ministero Vittorio Damasso riduceva di propria iniziativa le pene capitali a due: Giancarlo Puecher e Luigi Giudici. Il tribunale, riunito in Consiglio, decretava successivamente tra pene capitali, aggiungendo ai due nominativi fatti da Damasso anche quello di Giulio Testori. La farsa continuava, nessuna certezza del diritto, nessuna competenza da parte della Corte, ma solo la volontà di uccidere e di infliggere una lezione.
L’avvocato Beltramini non demordeva. Chiese e ottenne di ritornare a Como in compagnia del podestà, dal prefetto Scassellati, per protestare di persona, perché ciò che si consumava ad Erba, era un vero e proprio assassinio. Il prefetto Scassellati, dopo aver detto senza mezzi termini che andava inflitta una punizione esemplare e il popolo andava trattato a scudisciate sulla faccia, decise di sua iniziativa: 30 anni di reclusione per due condannati, conferma per il Puecher, aggiungendo con ignorante disinvoltura procedurale che il Pubblico Ministero avrebbe potuto appellarsi in modo che la sentenza non venisse eseguita. Ma era l’ennesima farsa, perché trattandosi di un tribunale straordinario, il grado di giudizio era unico e inappellabile.
Ritornato ad Erba, verso le 02 del 21 dicembre, l’avvocato Beltramini ebbe il tempo di ascoltare la sentenza di morte contro Giancarlo Puecher, messa su in tutta fretta, raffazzonando alla bell’è meglio diversi capi d’accusa: “Per aver, in territorio di Erba, dopo l’8 settembre, promosso, organizzato e comandato una banda di sbandati dell’ex esercito allo scopo di sovvertire le istituzioni dello Stato, per essersi impossessato insieme ad altri partigiani rimasti sconosciuti, in una sera imprecisata del settembre 1943, in Erba, di alcuni bidoni di benzina depositati presso l’albergo “Crotto Rosa”. Il pratica si ammetteva che alcuni bidoni di benzina costituivano il controvalore della fucilata comminata a Giancarlo Puecher che nell’ora suprema non perse la calma e la dirittura morale che sempre lo aveva contraddistinto.
Confermò di aver proclamato di appartenere al vero esercito italiano durante l’azione al Crotto Rosa dove aveva sottratto alcune taniche di benzina per rifornire il gruppi partigiano da lui coordinato, di aver compilati e manifesti minatori contro Nani Airoldi e Lorenzo Pozzoli, chiamati traditori della Patria e nemici del popolo, manifestini rintracciati accanto alla sua bicicletta nella notte del 12 novembre 1943. Nel momento supremo del sacrificio, prima di affrontare il plotone d’esecuzione, il giovane Giancarlo Puecher non dimenticò di lasciare il proprio testamento spirituale giunto fino a noi: “Muoio per la mia Patria. Ho sempre fatto il mio dovere di cittadino e di soldato. Spero che il mio esempio serva ai miei fratelli e compagni. Iddio mi ha voluto. Accetto con rassegnazione il suo volere. Non piangetemi, ma ricordatemi a coloro che mi vollero bene e mi stimarono. Viva l’Italia. Raggiungo con cristiana rassegnazione la mia mamma che santamente mi educò e mi protesse nei vent’anni della mia vita. L’amavo troppo la mia Patria, non la tradite e voi tutti giovani d’Italia seguite la mia via e avrete il compenso della vostra lotta ardua nel costruire una nuova unità nazionale. Perdono a coloro che mi giustiziano perché non sanno quello che fanno e non pensano che l’uccidersi tra fratelli non produrrà mai la concordia. A te, papà vada l’imperituro grazie per ciò che sempre mi permettesti di fare e mi concedesti. I martiri convalidano la fede a una vera idea. Ho sempre creduto in Dio e perciò accetto la sua volontà. Baci a tutti”.
Per la fucilazione avevano scelto un luogo fuori mano: lo spiazzo davanti al cimitero nuovo di Erba, sulla strada per il laghetto di Alserio. Quattro scariche trapassarono il corpo del giovane in più parti vitali. La morte fu istantanea. Il muro brecciato dai proiettili, accanto alla cancellata di ingresso del cimitero, portava troppo chiaramente i segni della tragedia e a nulla valsero i divieti imposti dalle autorità fasciste ad avvicinarsi al luogo che divenne ben presto meta continua di tutto un popolo. Ricordo il muro di cinta del cimitero di Erba, la stradina che conduce verso il laghetto di Alserio, la villa dei Puecher a Lambrugo, il ristorante “Crotto Rosa”, la stanza nel municipio di Erba dove fu emessa la condanna a morte di Giancarlo Puecher. Avevo preparato tutta la sceneggiatura per un audiovisivo costruito con gli alunni di Terza Media. Organizzai per conto della scuola, dove insegnavo, la visita ai luoghi citati. Era il marzo del 1987. Gli alunni, assieme al collega di Ed. Tecnica, girarono delle riprese nei pressi del ristorante “Crotto Rosa”, alla villa dei Puecher a Lambrugo, nel municipio e al cimitero di Erba sul luogo della fucilazione. Non riuscimmo ad assemblare i pezzi per il prodotto finale. Ci ostacolò anche la pioggia per le riprese che avevamo previsto lungo la stradina che da Canzo – Asso scende fino ad Erba, toccando i paesini di Caslino d’Erba, Castelmarte, Ponte Lambro. A conclusione della visita di istruzione visitammo anche la Scuola Media Giancarlo Puecher di Erba, accolti dalla preside.
Il sacrificio di Giancarlo Puecher non fu vano. Una mano ignota aveva vergato, di notte, su un muro di Lambrugo: “Ti vendicheremo”. Non era la vendetta che si ispirava all’odio, ma alla giustizia. Il battaglione Puecher diveniva ben presto Brigata e negli ultimi mesi dell’inverno – primavera 1945 entrava a far parte del raggruppamento divisioni patrioti “Alfredo Di Dio”, distinguendosi in più battaglie, impedendo la distruzione di installazioni industriali e bloccando l’afflusso di brigate nere verso Como, controllando tutta l’ottava zona operazioni che toccava i seguenti paesi: Lambrugo, Lurago, Nibbiono, Tabiago, Bulciago, Renate, Veduggio, Barzanò, Sirtori, Barzago, Rovagnate, Viganò, Monticello, Casatenovo, Villa Raverio, Ello e tutta la vallata fino a Seregno.
Il papà di Giancarlo, Giorgio Puecher, morì in un campo di concentramento tedesco. I loro resti riposano nel piccolo cimitero di Lambrugo. Ho voluto proporre il racconto di questa pagina di Resistenza al Nazi Fascismo perché dimostra che l’unità antifascista attraversava tutti i gruppi politici e le classo sociali di quegli anni tragici e difficili, tranne ovviamente quelle colluse con il Nazi Fascismo. Giancarlo Puecher avrebbe compiuto 100 anni, il prossimo 23 agosto e il 21 dicembre p.v. ricorre ottanta anni dalla sua morte. Mi è sembrato giusto ricordarlo anche per questo.
Raimondo Giustozzi
Invia un commento