Da qualche giorno è possibile acquistare “Dentro al petto mi si muove un canto”, l’ultima raccolta di poesie di Piergiorgio Viti, poeta portorecanatese che abbiamo incontrato per sapere qualcosa in più sulla sua ultima “fatica”.
- Partiamo dal titolo, come mai “Dentro al petto mi si muove un canto”?
Anzitutto, dopo “Quando l’aria aveva paura di Nureyev”, volevo un titolo altrettanto lungo, un po’ come faceva Lina Wertmuller quando doveva titolare i suoi film, titoli lunghissimi e suggestivi…Scherzo, ma in realtà non troppo. Mi piace che il titolo resti nella mente, che sia quasi un aforisma. E poi, siccome Daniele Piccini, che di poesia se ne intende, in un articolo su La Lettura del Corriere della Sera ha detto che la mia poesia ha molto di “musicale”, di “cantautorale” quasi, e in effetti il ritmo è una componente alla quale tengo molto, “Dentro al petto mi si muove un canto” mi sembrava perfetto. Tra l’altro, è il verso finale di una poesia, ma sta bene anche così, isolato…
- Negli ultimi tempi hai scritto molto, non è passato molto tempo da “Quando l’aria aveva paura di Nureyev”…
In effetti, anche forse per la pandemia, che ci ha rinchiusi in casa, ho prodotto tantissimo, ma poi ovviamente bisogna selezionare, che è una fase altrettanto delicata e infida. Probabilmente mi prenderò un po’ di riposo, anche perché, mi sembra, che tra un po’ si potrebbe fare a meno del testo; non dico di tutti i testi, ma forse del testo poetico…Intendo dire che, se guardiamo i poeti più in vista, quantomeno in Italia, questi hanno saputo costruirsi, a livello di marketing, una loro immagine “piacente” e pervasiva, capillare, che potrebbero anche scrivere poesie mediocri. Insomma, l’immagine del poeta conta più del testo poetico. Il testo, in fondo, potrebbe anche non esserci…
- Dici che è davvero così?
Beh, sto parlando per assurdo, però in realtà, chi legge più la poesia? Mi pare rappresenti lo 0,8% del mercato dei libri. Quella poca che circola in rete, per esempio, è qualcosa che sta a metà tra i baci Perugina e le pillole di saggezza, una roba abbastanza oscena. Insomma, non esiste più la poesia, o quanto meno la poesia come la intendo io. Idem per la musica, quella che circola nelle radio, facci caso, è orrenda. Non esiste più una educazione alla bellezza, è tutto appiattito verso il basso, per cui, ti faccio un esempio, nelle presentazioni, un bravo autore è sempre circondato da pessimi autori e il pubblico, che non ha gli strumenti per selezionare, finisce per preferire il cattivo autore a quello bravo; d’altronde, se vengono presentati insieme…
- Come se ne esce fuori?
Parlare di meritocrazia potrebbe sembrare fuori luogo, perché poi tirano fuori il mantra “de gustibus non est disputandum”. Eppure, se ci pensi, sdoganando questo pensiero, hanno fatto sì che cani e porci potessero pubblicare, fare pessima musica, fare pessimi film. Insomma, servirebbe una critica, una critica seria e non assertiva, mercantile, come lo è quella di oggi, invece ormai il sistema è drogato, è tutto affidato al marketing, ai soldi, alle agenzie, ai manager. La cultura è morta, diciamo così, parliamo di intrattenimento, che è meglio.
- Tornando al libro, cosa mi dici? Qual è stata la sua genesi?
Una genesi difficile, perché, come dicevo prima, buona parte del libro è stata scritta in pandemia. Per dirla tutta, la sezione di testi ispirata alla pandemia, “Posologia del disagio”, alla fine non ha trovato posto nel libro, ma è uscita in una rivista on line in Francia, tradotta da Thierry Gilliboeuf, uno che ha tradotto Svevo, Quasimodo, Sinisgalli, non so se mi spiego… Comunque, quella sezione mi sembrava stonasse con le altre poesie e quindi l’ho fatta fuori, magari uscirà negli anni prossimi o magari mai. Per il resto, ho cercato di costruire una silloge, seguendo un fil rouge; chi leggerà il libro, potrà capire…
- Progetti per il futuro?
Sto lavorando con l’associazione Lo Specchio alla terza edizione di Versus, una rassegna che in realtà è dedicata al “pensiero” del poeta, oltre che alla sua poesia. A Versus il poeta si fa portavoce della sua poetica, si mette a nudo, esprime ciò che pensa, quindi non è la classica, stucchevole “presentazione del libro”. Mi pare che in Italia, questo, siamo gli unici a farlo; essere unici vuol dire essere corsari, e io in fondo, devo ammetterlo, un po’ lo sono…
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