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Libri. Contadinate Marchigiane Poesia dialettale sulla ruralità del passato (1972 – 1974)

Contadinate duedi Raimondo Giustozzi

Fermate de mènde (riflessioni), Recordanze (rimembranze), Penzate (idee estrose)

Le riflessioni, le rimembranze, le idee estrose, le battute umoristiche, i mugugni e le lagnanze della civiltà contadina hanno prodotto proverbi, stornelli e racconti fantasiosi. Claudio Principi attinge a piene mani da questa cultura orale che si tramandava da una generazione all’altra. Il risultato dell’operazione è un variegato affresco del mondo contadino. Vengono messe in versi tutte le attività agricole che si snodavano nei diversi mesi dell’anno. Un posto di primo piano viene riservato ai vecchi. Sono loro i depositari della cultura contadina. Se sono morti, i figli e i nipoti li ricordano sempre con l’espressione, la benedetta anima. Sono capaci anche di porsi delle domande che sono proprie dei filosofi e dei poeti, come nella poesia qui sotto riportata.

Perché se camba (perché si vive)

“Tu me dimanni perché nnasce ll’òmu? / E cchji cava a streccialla ssa matassa: / gnisciùna è bbóni de rcapacce u’ gnómu, / perché co’ nnu’ ‘r distinu ce se spassa. // Tu me dimanni perché nnasce ll’òmu. // Fiju, chji te sa dì’ perché se camba? / Venanghe chjidi a quilli che più ndènne, / de tunno te se lèa, te dice: Sciamba, / adè um mistèru, ma che vvó preténne? // Fiju, chji te sa dì’ perché se camba. // Non ge se lèje, à’ -voja a strollecà’! / Lu munnu jira e lu gran témbu passa; / passa, e ttratando sai che ffa? / Con na mà scrìe, e con quell’atra scassa: // Non ge se lèje, à’ – vòja a strollecà’!”. Traduzione: “Tu mi chiedi perché nasce l’uomo? / E chi riesce a sbrogliarla codesta matassa: / nessuno è capace di ricavarci un gomitolo, / perché il destino si diverte con noi. // Tu mi chiedi perché nasce l’uomo. // Figlio, chi ti sa dire perché si vive? / Benché tu chieda a coloro che più sono ritenuti saggi, / ti si levano di torno, ti dicono: Sparisci, / non ci si legge dentro, inutile astrologare! / Il mondo gira e trascorre la gran parte del tempo, / passa, e nel frattempo sai cosa fa? / con una mano scrive, con l’altra cancella: // Non ci si legge dentro, inutile astrologare!”.

“La vita adè um mistèru che cce strica: / se ll’òmu ha da cambà, perché lo vène / a ppéttu de lo male è na mujica? / Perché se gòde póco, e tande péne? // La vita adè un mistèro che cce strica. // Ma tutto ci-à na fine, a quistu munnu, / e sse de là, per grazia der Signòre, / vai m-paradiso e nno jó lu sprifunnu, / vàjolo a dimannà’ perché se mòre. // Ma tutti ci-à na fine a quistu munnu. // Tu me dimanni perché ll’òmu nasce. / O còccu, io non te lo sàccio dì’: / da quanno ce bbutura co’ le fasce, / sàccio sulo spittimo lo murì. // Tu me dimanni perché ll’òmu nasce!” (Claudio Principi, perché se camba, pp. 107- 108, in Contadinate Marchigiane, tentativi di poesia dialettale e appunti sulla ruralità del passato, (1972- 1974, Macerata, 2000).

Traduzione: “La vita è un mistero che ci stritola: / se l’uomo ha da campare, perché il bene / in confronto al male è un’inezia (mollica)? / perché si gode poco e con tante pene? // La vita è un mistero che ci stritola. // Ma tutto ha un fine, in questo mondo, / se nell’aldilà, per grazia del Signore, / vai in paradiso e non giù nell’abisso (inferno), / vai a domandarlo (forse ai Santi) perché si muore. // ma tutti hanno una fine in questo mondo. // Tu mi chiedi perché l’uomo nasce. / O cocco, in non te lo so dire: / fin da quando ci avvolgono nelle fasce, / so solo che aspettiamo di morire. // Tu mi domandi perché l’uomo nasce!”. Molto tempo fa, si usava tenere i bambini nelle fasce perché si riteneva che in questo modo crescessero sani e forti. Si pensava che le ossa si irrobustissero in questo modo.

 

Na ffacciata de fenèstra (un’affacciata alla finestra)

La morte di un amico è l’occasione per mettere in versi il racconto che molti anni prima lo stesso aveva fatto al poeta sulla propria mamma. “Rimasta vedova con prole, aveva tanto sofferto nella vita, senza tuttavia mai perdere una sua straordinaria serenità d’animo”. La vita è il bene più prezioso che abbiamo avuto in dono. Più viviamo, più allontaniamo da noi il pensiero di dover abbandonare questo mondo. Al funerale dell’amico Claudio Principi scrive di getto la lirica: “Filice o tribbulata, è ssèmbre córta: la vita poco triga. / Però, venanghe trista, se sopporta: / più ccambi, e ppiù a mmurì’ te sa fatiga. // Nonna nostra candava sèmbre un fiore, / dicìa: Fior de jinèstra, / la vita che cce dona a nnu’ ir Signore / è ccome na ffacciata de fenèstra. // Se camba per miràculu de Ddio, / e nnu’ lu rengrazimo; / ma, pure, sta dimanna fàccio io: / perché mango vinuti, ce ne jimo? // La vita è na ffacciata de fenèstra, / è vviro e cce se sa: / quanno che a quistu munnu ce sbalèstra, / n-ze fa a ttémbu a ggodé, che – vvìa! – de là. // N-ze fa a ttémbu a ggodé, mango a ccapì’: / chji ce se raccapézza? / Sto cambà’ nnostro – dico – che vvur- dì’? / A cche sèrve, perché tando se prèzza?”.

Traduzione: “Felice o tribolata, è sempre corta: la vita poco dura. / Però, benché triste, si sopporta: / più vivi, più a morire ti dispiace. // Nostra nonna cantava sempre uno stornello (fiore), / diceva: Fior di ginestra, / la vita che ci dona il Signore / è come un’affacciata alla finestra. // Si vive per miracolo di Dio, / e noi lo ringraziamo; / ma, mi faccia anche questa domanda: / perché non appena venuti, ce ne andiamo? // La vita è un’affacciata alla finestra, / è vero, questo lo si sa: / quando in questo mondo siamo sbalestrati, / non si fa in tempo a godere, che via nell’aldilà. // Non si fa in tempo a godere, nemmeno a capire: / chi ci si raccapezza? / Questo nostro campare- dico- cosa significa? / A cosa serve, perché si apprezza tanto?” (Claudio Principi, Na ffacciata de fenèstra, pp.176- 179, in Contadinate Marchigiane, tentativi di poesia dialettale e appunti sulla ruralità del passato, (1972- 1974, Macerata, 2000).

I riferimenti alla poesia alta sono immediati: “Ognuno sta solo sul cuore della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è  subito sera” (Salvatore Quasimodo). “Siamo come le foglie nate alla stagione florida / crescono così rapide nel sole: / godiamo per un gramo tempo i fiori dell’età, / … E il frutto di giovinezza / è un attimo, / quanto dilaga sulla terra il sole…” (Mimnermo, VII sec. A. C., come le foglie). “E quando miro in ciel arder le stelle; / dico fra me pensando: / A che tante facelle? / che fa l’aria infinita, e quel profondo / infinito seren? Che vuol dir questa solitudine immensa? Ed io che sono…” (Giacomo Leopardi, Canto notturno di un pastore errante nell’Asia). “Vorrei sapere a che cosa è servito / vivere, amare, soffrire / spendere tutti i tuoi giorni passati / se presto sei dovuta partire…” (Francesco Guccini, Canzone pe un’amica).

Nella poesia, il nipote ricorda ancora la nonna: “Quanno nònna, vettànama viata, / fu n-angunìa, vuttò / llà la fenè n’occhjata desperata, / ngiacciò: Fior de jinèstra; e ppò’ spirò. // Io me lu fece um biandu, scì: ma quanno / jétte co’ na canèstra / pe’ li fiuri, candò, per dìje nanno: / La vita è na ffacciata de fenèstra” (Ibidem).  “Quando nonna, benedetta anima beata, / fu in punto di morte, buttò / là verso la finestra un’occhiata disperata, / balbettò: Fiore di ginestra; e poi spirò. // Io me lo feci un pianto, sì: ma quando / andai con il canestro / con i fiori, cantai, per dirle addio: / La vita è un’affacciata alla finestra”.

Vent’anni dopo il figlio ricorda la morte della mamma: “Ll’istesso nanno détte a mmamma mia / vind’anni dopo. E addè / ch’angh’io so vvècchja, a gghi’ de là, a ji vvìa, / me sa fatiga – e ttando!  Pure a mme. // Su lo partì, quanno  sarà ffunita, / angh’io  llà la fenèstra / ll’occhji ce lasserò, nzémo a la vita: / quella che Ddio ce dona e cce smenèstra. // Ce la smenèstra im mòdu che ffugata / la morte arrèto rriga, / e comm’ì dato ar munno na vardata, / a rcjùde la fenè scibbè se sbriga”. “Il medesimo addio diedi a mamma mia / vent’anni dopo. / E ora che anch’io sono vecchia, per andare nell’aldilà, ad andare via, / mi dispiace e tanto anche a me. // Al momento di partire, quando sarà tutto finito, / anch’io lascerò gli occhi la verso la finestra, insieme alla vita: / quella che Dio ci dona e ci amministra. // ce l’amministra in modo che rapida / la morte dietro arriva, / e come ho dato al mondo una guardata, / si affretta a richiudere ben bene la finestra” (Ibidem).

Canti di lavoro

I canti “a batocco” erano melodie cantate all’aperto, durante la mietitura del grano, la fienagione, la vangatura della vigna, la vendemmia, la “scartocciatura” del granturco, la semina, la raccolta delle olive o quando si andava semplicemente sul biroccio e si attraversavano i campi per riportare a casa le cassette d’uva o i covoni di grano. Tali canti sono sorti in funzione del lavoro svolto né possono essere cantati separati dello stesso. Nascono e si diffondono per le nostre campagne quando il lavoro del contadino veniva fatto solo a forza di braccia. Cantare serviva quasi ad alleviare la fatica fisica. Muoiono e scompaiono quando il lavoro diventa meccanizzato ed i rumori riempiono le campagne, prima le falciatrici e le seminatrici meccaniche, poi i trattori, cingolati o gommati. Accanto a questi canti c’erano anche i “canti a dispetto”, cioè satirici e burleschi.

La canderina canda ( la canterina canta).

Protagonista della poesia è una canterina, felice e spensierata: “E làsseme candà’, ché mme va vòna! / Cando de còre, cando in arda voce: / lu candu recconzòla, e mmai non nòce, / comme che ddice vène la canzona: / L’angiuli l’ha ‘rcacciato lo candare / perché quando se canda non se penza male! / E lasseme candà’, che mmetto l’ale / e ggolo quann’in célo e quanno im-mare. // Lu munnu me se fa tuttu turchinu, / a mme me nganda sèmbre stu colore; / e lu regazzu mia se fa mejore, / tando più bbéllu de lu caruvinu! // Addè vojo candà’, ché mme va vona, / addè che ci-àgghio voce e vemmolére; / cando nginènde sèndo lu piacere: / quanno so vvècchja dico la corona”(Claudio Principi, la canderina canda, pp. 49- 50, op. cit.). Traduzione: “E lasciami cantare, perché sono di buon umore! / Canto con il cuore, canto ad alta voce: / il canto riconsola, e mai nuoce, / come dice bene la canzone: / Gli angeli hanno inventato il canto / perché quando si canta non si hanno pensieri malevoli! / E lasciami cantare che metto le ali / e volo ora in cielo e ora in mare. // il mondo mi si fa tutto turchino, / mi incanta sempre questo colore, / e il mio ragazzo si fa migliore, / tanto più bello del cherubino! // Ora  voglio cantare, perché sono di buon umore, / ora che ho voce e sono benvoluta, / canto sino a quando sento il piacere: / quando sarò vecchia dirò la corona”.

La filatora (la filatrice)

Scrive Claudio Principi: “Nelle case contadine tutte le donne imparavano presto a filare la lana, magari facendo uso di fibre vili, come la stoppa. I contadini che coltivavano il lino e la canapa, destinavano parte di queste due coltivazioni per la tessitura del corredo (accùngiu) da sposa per le proprie figlie. Il filato, preparato in casa, era destinato al telaio casalingo, quando iniziava il lavoro della tessitura. La filatura avveniva in autunno e nei primi mesi dell’inverno. Un proverbio recitava che Chij prima de Natà non fila, dopo Natà suspira, perché dopo la filatura incalzava quello della tessitura. La donna non poteva far trascorrere del tempo prezioso, standosene con le mani in mano. Un altro proverbio avvertiva anche che Quanno lu cuccu sta su la rama, / fila, commà, che lu cambu te chjama. Il cuculo con il suo canto caratteristico annunciava la primavera, quindi la ripresa dei lavori campestri.

“La notte è ssinza luna e ffòri négne, / da la fenè se po’ vedé che ffiòcca. / Tutti dorme de sopre, e ppòra còcca, / la fandélla a lu focu rdà le légne, // rda cìngiu a la luma, e sse convégne / un drozzu de ciociò méttese in mocca; / ppò’ na vèta d’acqua da la vròcca, / rpìj lu fusu e la conòcchja strégne: // E la fandélla fila, fila angori: / pénza a ll’accùnciu che gni donna vrama; / per chji più ffila, prima vè ll’amori. // Anghi se a me lu sonnu te recrama / e sse le déte ci -à li friccicori, / fila, fandélla, che lu cuccu chjama” (Claudio Principi, la filatora, pp. 180 – 181, in Contadinate Marchigiane, op. cit.). Traduzione: La notte è senza luna e fuori nevica, / dalla finestra si può vedere che fiocca. // Tutti dormono di sopra, e povera cocca, / la ragazza alimenta il fuoco con altra legna da ardere, // ridà l’olio alla lucerna, e si convince / di mettersi in bocca un tozzo di covacciuolo, / poi fa una bevuta d’acqua dalla brocca, / riprende il fuso e stringe la conocchia // E la ragazza fila ancora: / pensa al corredo che ogni donna desidera ardentemente; / per chi fila di più, prima giungono le richieste di matrimonio. // Anche se il sonno avanza / se le dita danno dei formicolii, / fila, ragazza, perché il cuculo chiama”.

Lu ciociò era una semplice palla di farina impastata con acqua e senza lievito, che la filatrice cuoceva sotto le ceneri sul focolare che era mantenuto acceso perché assicurasse un minimo di riscaldamento. Durante la filatura, le donne dovevano aiutarsi bagnando con la propria saliva il filo di canapa o di lino. Più indicata dell’acqua era la saliva, per lo scorrimento del filo, per questo la bocca della filatrice era sempre asciutta. La ragazza smorzava la sete con qualche sorsata d’acqua. Vicino a lei c’era sempre una brocchetta, una caraffa, munite di beccuccio, colma d’acqua che portava alle labbra. Nelle case contadine, le camere da letto erano al piano superiore, possibilmente sopra le stalle dei bovini. Al piano terra esisteva una grande stanza usata per la filatura e la tessitura.

La somènda (la semina)

La semina più importante era quella del grano. Avveniva nel mese di novembre. Il terreno era stato preparato ampiamente nei mesi precedenti con l’aratura prima e l’erpicatura dopo. Se la superfice presentava qualche zolla di troppo veniva frantumata con la zappa. Un tempo la semina veniva fatta a mano con gesti ampi e misurati. Il contadino prelevava dal secchio, che portava a tracolla, manciate di grano che librate nell’aria andavano a cadere sul terreno. L’incedere del contadino era regolare e continuo. L’introduzione della seminatrice meccanica contribuì di certo a far risparmiare la fatica manuale. Il grano raccolto in un cassone in ferro posto sopra il mezzo, fuoriusciva attraverso alcuni condotti flessibili e cadeva nel terreno, subito ricoperto da due dischi ruotanti che fendevano la terra verticalmente e la ricoprivano. La pratica della semina volgeva al termine, rimaneva solo di passare il rullo pressore in pietra e fare in modo che il grano seminato riposasse sotto la terra così amorevolmente preparata, se poi l’inverno avesse portato abbondanti nevicate, il raccolto a giugno sarebbe stato senz’altro copioso; Sotto la neve, pane, era il detto popolare, conosciuto dai nostri nonni.

I due santi che vegliavano sulla fatica del contadino erano: San Vincenzo Ferreri, protettore dei campi e Sant’Antonio Abate, protettore degli animali. Non c’era casa contadina che non avesse nella stalla l’immagine dei due santi protettori. Nella poesia, il più citato è San Vincenzo Ferrei: “Sa’ Mmingenzo, t’adoro e ccusciscìa! / manna lu témbu justu, quill’adattu; / io làgghjo fattu, scì, ll’attèndu mia: / mmò tu gghjicura tutto da lassù, / non fa lu mattu! // Sa’ Mmingenzo, lo sai, te vòjo vène, / però lu còjo / ssu tulipà che ppòrti su la testa! / Se ttu mme dài scordu, a mme, scibbène, / non te lu rdaco, e ttuttu te lo sfòjo / e gnènde festa!” (Claudio Principi, la somènda, pp. 38- 41, op. cit. ). Traduzione: “San Vincenzo, ti adoro e così sia! / manda il tempo giusto, quello adatto, / io ho compiuto il mio obbligo: / ora tu abbi cura da lassù, / non fare il matto! // San Vincenzo, lo sai, che ti voglio bene, / però lo colgo codesto tulipano che porti in testa! / Se tu mi ascolti, va bene, / non te lo rendo, e te lo strappo / e niente festa”. La festa di San Vincenzo si celebrava in primavera.

Lu tulipà del testo, tradotto con il tulipano, è la fiammella rossa che le statue del santo hanno sul capo, raffigurante lo Spirito Santo. La supplica del contadino verso il suo santo protettore è confidenziale, lo tratta come se davvero fosse un suo amico. Ma la poesia non è affatto irriguardosa.

Lu metetó (il mietitore)

La mietitura del frumento era il raccolto più atteso dell’intero calendario agricolo. Avveniva a giugno avanzato quando le belle giornate di sole avevano portato a maturazione le bionde spighe di grano. La mietitura, prima che apparissero le più moderne mieti legatrici o le attuali mietitrebbiatrici, veniva fatta tutta a mano, con la falce, munita di un archetto, usata in posizione eretta con movimento rotatorio del corpo. S’iniziava di buon mattino, quando il sole di fine giugno era già alto. Gli uomini, divisi in più squadre, si allineavano all’inizio del campo e procedevano appaiati, dietro venivano le donne con il compito di legare “le cove”, i covoni di grano, dopo aver fatto “lu varzu“, più steli di grano messi insieme. La fatica, il caldo, consigliavano di tanto in tanto il giusto riposo sotto l’ombra di qualche albero. La “vergara“, cesto in testa contenente “lu ciammellottu”, dolce fatto in casa, pane, ciauscolo, la “trufa“, la brocca di vino in una mano, nell’altra quella dell’acqua con pezzi di limone per smorzare di più la sete, depositava il tutto sopra una candida tovaglia e si mangiava. Prima di sedersi, gambe acciambellate e accovacciate in terra, occorreva scegliersi un proprio “desco“, dopo aver schiacciato opportunamente le stoppie perché non pungessero troppo, ma erano piccoli dettagli ai quali non si faceva caso, importante era rifocillarsi, per riprendere poi il lavoro con più lena.

Incipit della poesia: “Lo mète’! Scì, pe’ un gontadì lo mète / come rcurdura adè la più vvramata, / ma dà penzé, e in quand’a  ffatigata / più grossa non ce n’è: te fa schjattà! // E’ gghjugnu, mése vèllu, s’è vvanzatu: / u-gnornu dopo n-atru, co’ lu sole / che triga e spènne e ccòce più cche ppòle, / lo grà s’è fatto e non ze po’ ‘spettà’. // Adè rrigata ll’ora de lo mète: / rrìzzete a ll’arba, su, fatte capace, / lu vidi a ssa’ Gnoanno co’ la face? / Vanne a la méssa e pparti, metetó. // Curri a lu cambu, ché lo grà te chjama: / vidi ll’angì, e le spiche ch’è jjallute? / Stìja la face e ffàje fa’ le lute, / ccòtala a mmòdu e vvanne, metetó: // te ‘spetta rcojerèlle e vvarzaróli. / La sdejunanza pòrta la vergara / e bbròcca e trufa ‘cando te prepara. / Sindi? Lu capuface llucca gghjà” (Claudio Principi, lu meteto, pp.144- 151, op. cit.). Traduzione: “La mietitura! Sì, per un contadino la mietitura / come raccolto è il più desiderato, / ma dà preoccupazione grande, per quanto è faticosa / non ce n’è una più pesante che ti faccia schiattare! // E’ giugno, il mese bello, si è inoltrato: / un giorno dopo l’altro con il sole / che dura a splendere e dà il massimo calore, / il grano si è maturato e non si può aspettare. // E’ arrivata l’ora della mietitura. / alzati all’alba, su, fatti capace, / lo vedi San Giovanni con la falce? / Vai a messa e parti, mietitore. // Corri al campo,  perché il grano ti chiama: / Vedi l’uncino e le spighe che si sono ingiallite? / Ribatti la falce e falle fare le scintille, / affilala a modo e vai, mietitore: // ti aspettano le donne che fanno le pecorelle e gli uomini che fanno le cove. / La vergara porta il primo pasto del mattino / e intanto ti prepara la brocca (con l’acqua) e il contenitore del vino (trufa). / Senti? Il capo falce già chiama a raccolta”.

Secondo un’antica credenza popolare, guardando verso la marina, si vedeva spuntare all’alba del 24 giugno, festa liturgica della nascita di San Giovanni Battista, la figura gigantesca del santo, che, con la falce in pugno, dava il segnale dell’inizio della mietitura. Il contadino, quando osservava che la spiga si era ripiegata verso terra ad uncino (lo grà ha fatto ll’angì), bisognava mietere subito. C’era comunque il contadino pigro che posticipava sempre l’inizio della mietitura. Divertente il dialogo tra due contadini, il primo anonimo, il secondo, Frangì (Francesco), il contadino  un po’ sfaticato. Anonimo: Frangì, lo grà ha fatto ll’angì. Francesco, il grano ha fatto l’uncino. Frangì: Ogghji no’ mmèto ch’adè venardì. Oggi non mieto perché è venerdì. Anonimo: Frangì, lo grà nom pòle ‘spettà’. Francesco, il grano non può aspettare. Frangì: Mèto de prèscia, mèto domà! Mieto di furia, ma mieto domani. Per alleviare la fatica, spesso i mietitori erano soliti cantare. Tra i tanti canti, che si alzavano nella campagna inondata di sole, uno faceva così: “Se vò’ che te lo mèta lo grà tua, / famme lu varzu (*) e légame la còa; / se vò’ che to mèta accanto terra, / porta la trufa (*) e la patrona bella. // Se vò’ che te lo mèta sotta sotta, / porta lo vino e la vergara ghiotta  / se vò’ che te lo mèta accanto terra, / porta lo vino e la patrona vella. // Se la patrona non porta lo cascio / Le coe te le lego tutte a buscio”(*). Se tu vuoi che io mieta il tuto grano, / fammi il covone e legamelo, / se vuoi che mieta il grano raso terra, / porta la brocca e la patrona bella  // Se vuoi che io te lo mieta proprio a terra, / porta il vino e la patrona bella. // Se la patrona non porta il cacio / le cove te le lego tutte in malo modo (a buscio).  Lu varzu: è costituito da più steli di grano intrecciati tra loro che servivano a legare assieme il covone di grano (la còa). La trufa: è la brocca del vino, a due manici. Gli uomini, afferrati questi ultimi con entrambi le mani, si portavano la trufa alla bocca per bere il vino. Le donne si dissetavano con acqua unita ad uno spicchio di limone. A buscio è un modo non corretto di legare i covoni di grano.

Il capo falce dava il ritmo al lavoro. I mietitori procedevano compatti su più file. Ogni mietitore aveva la sua “presa”, cioè la sua porca, il settore di campo, che raggiungeva con la sua ampia falciata. Non doveva mai rimanere indietro. Il ritmo di ognuno era il ritmo di tutti i mietitori: “No rmané arrèto e ffa’ la presa tua, / … Po’ dovendà’ lo mète, scì na lizza: / jò, miti, miti gajardu / comme mmitìa scia nònnuto che ppardu, / miti ssuscì, non fatte ccimendà. // Lu sole gnucca e lu terénu bbrùscia; / la face pésa, tu bbranga e ccamina / e róppete le vracce co’ la schjiena, / miti gualito, sinza stajiccià. // Vidi, derèto a tte, se cche bbellézza, / tra pecorelle e ccòe, quand’affannati? / E ddonga, metetó, non te fermà’” (Ibidem). Traduzione: “Non rimanere indietro e falcia la tua porzione di terreno, / … La mietitura può diventare una gara: / vacci sotto, mieti gagliardo / come mietevano sia tuo nonno che tuo padre, / mieti in codesto modo, non farti prendere in giro. // Il sole accoppa (gnucca) e il suolo arde, / la falce pesa, tu falcia e cammina / e rompiti le braccia con la schiena, / mieti gagliardo, / mieti a pari altezza, senza tagli approssimativi (stajiccià) // Vedi, dietro di te, che bellezza, / tra mannelli di spighe e covoni, quanti affannati? / E dunque, mietitore, non fermarti”.

Sudore, ossa rotte, arsura ma giungeva la sera, una sciacquata e il meritato riposo: “… Sopre la paja, dréndo a la capanna, / lu metetó corgatu se lo sògna / tutto lo repusà’ che je bbesògna, / quello che dde lo mète non ze dà. // Dòrme e non dòrme, llu poròmu, e sògna / tuttu lu cambu sua vell’e mmitutu,  / lo grà trebbjato e rpósto: e ddà un zalutu / a lo mète, che mméce rchjama gghjià. // E’ ll’arba n’atra òta, metetó: / svérdu, rrìzzete su, non te lillà’, / reccotala la face, e rvanne là: / lu capuface llucca, n’atra ‘ò!” (Ibidem, pag. 150- 151). Traduzione: “Sopra la paglia, dentro alla capanna, / il mietitore coricato se lo sogna / tutto il riposo di cui avrebbe bisogno, / non c’è fatica più grossa della mietitura. // Dorme e non dorme, il poveruomo, e sogna / tutto il proprio campo bello e ben mietuto / il grano trebbiato e immagazzinato e dà un saluto / alla mietitura che invece richiama ancora. // E’ l’alba un’altra volta, mietitore: / svelto, alzati, non trastullarti, / riaffila la falce, e ritorna là: / il capo falce richiama un’altra volta”.

La mietitura del grano poteva durare più giorni. I covoni di grano venivano raccolti in mucchi di venticinque, incrociati sei per sei su quattro file, più uno a formare il pennone, con le spighe di grano rivolte verso il basso; in caso di pioggia, l’acqua scivolava via senza danneggiare il raccolto. Rimanevano nei campi, dieci giorni circa. Anche nella scelta del nome da dare alle cose, erano artisti i contadini di una volta. Quei covoni di grano ammassati nei campi si chiamavano “cavallitti” sembravano a chi li avesse osservati da lontano, dei bizzarri cavalli pronti a lanciarsi in una pazza corsa. “Scafèt” invece era il termine dialettale brianzolo con il quale i contadini della Brianza chiamavano quest’ammasso di covoni nei campi. Forse perché lontano dal mare, il paisàn (contadino) brianzolo immaginava che quegli ammassi di covoni fossero simili a piccoli scafi.

Falce messora, la falce usata per mietere, da non confondere con la falce fienaia impiegata per falciare il fieno, falcette e falciatrici meccaniche scomparvero con l’avvento delle mietilegatrici trainate dal trattore, che facevano contemporaneamente le due azioni del mietere e del legare i covoni. Ebbero una vita relativamente breve perché si rompevano spesso, non legavano bene i covoni di grano e furono soppiantate dalle più moderne mietitrebbie esistenti tuttora, che in un’unica operazione fanno quello che un tempo richiedeva settimane di duro lavoro. Dopo la mietitura c’era lo radunà, cioè i covoni di grano, ammassati sui cavallitti nei campi, venivano portati davanti all’aia della casa colonica, dove pochi giorni dopo avveniva lo vatte, la trebbiatura del grano con la trebbiatrice.

Lu fjenatò (il fienatore).

Il foraggio per alimentare mucche e buoi nelle stalle veniva falciato a mano. Si impugnava la falcia fienaia e si procedeva al lavoro. Ogni fienatore, anche in questo caso, aveva la sua parte di campo da falciare, la presa. La falciatura dell’erba durava meno della mietitura del grano, perché il terreno destinato alla cultura dell’erba medica o di altre piante foraggere era minore di quello destinato alla coltura del grano. Anche in questo caso, come per altre attività: la mietitura, la congia (la vagliatura) del grano con lu trapassu (il crivello), il taglio del legno con la sega, era molto importante l’abilità acquisita del contadino. Si metteva una particolare cura all’avvio del lavoro, che si chiamava con il termine dialettale “annata” (andata, inizio). L’inizio si trasformava poi in ritmo e la fatica pesava di meno. Si trattava insomma di imprimere il giusto movimento all’attrezzo che si adoperava. Dato l’avvio, il lavoro procedeva spedito. Ricordo il movimento rotatorio e oscillatorio che mio zio faceva fare al crivello, quando vagliava il grano con lu trapassu. Operatore e strumento di lavoro si muovevano assieme in una sorta di danza. Non sono mai stato capace di farlo. Ogni volta che scrivo o leggo libri sulla civiltà contadina penso, a mio zio e a mio papà. Solo così posso manifestare a loro il mio debito di riconoscenza, anche se non ci sono più da anni.

“Rittu de svìngiu, fjena ll’èrba äta: / la farge a lluna, prima la slondana, / e ddòpo, jò, dà longa la passata / e ppo’ se rghjira comm’a la frullana. // Nom pare scìa fatiga, lla fjenata, / perch’adè ll’arte che la fa soprana / e cc’è lu candu che je dà ll’annata. / Fjéna lu fjenató, lu pratu spiana, // je dà gualito, e la sfargiata score; /  fjèna e ccanda, però lu fiatu è ppocu, / trèma la voce, ma ci- à tandu core. // Gnitando stìja, e ppare che ffa u’ gnòcu, / lu fjenató, tra lute e lu remóre. / E bbè gnitando, ché sennù va a ffócu” (Claudio Principi, lu fjenató, pp.155- 156, op. cit.). Traduzione: “Ritto, di sghimbescio, falcia l’erba alta: / la falce a forma di luna, prima l’allontana da sé, / e dopo fa forza alla lunga sfalciata / e poi si rigira come se ballasse la furlana (antica danza popolare dal ritmo assai vivace) / Non sembra sia fatica la fienagione, / perché la esegue con arte / è c’è il canto che favorisce il lavoro, attraverso l’andata. / Il fienatore falcia, spiana il prato, / falcia pareggiando ben bene e il passaggio della falce scorre; / falcia e canta, però il fiato è poco, / la voce trema ma ha tanto cuore. // Ogni tanto ribatte la falce (per ridare il filo alla lama) e sembra che stia giocando, / il fienatore tra faville e rumore. / E ogni tanto beve, perché diversamente va a fuoco”.

Lu potató (il potatore).

La potatura degli ulivi avveniva e avviene anche ora tra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera. La pianta d’ulivo è stata considerata sacra fin dall’antica Grecia e non solo. Noè, per sincerarsi che l’acqua, dopo il diluvio, si fosse ritirata, manda una colomba. Se fosse ritornata con le zampine asciutte, voleva dire che l’acqua non copriva più enorme distese di terreno. Un tempo, i contadini, dopo la potatura portavano in chiesa rami d’ulivo per farli benedire. Una volta benedetti, riportati a casa, venivano infilzati su croci di canna, issate sui pagliai perché tenessero lontani fulmini e temporali. La potatura della pianta d’ulivo andava fatta in modo che la chioma risultasse molto diradata. Al centro dell’albero dove esserci tanto slargo perché una rondine potesse passarci liberamente senza piegare le ali. E’ una accortezza che si usa tuttora.

“Lu potató che vva a ppotà’ la jia, / lo sa che ttratta piande venedétte. / Ppògghja la scala a gghjiru, e ddónghe rrìa’ / dòpra sighittu e ddòpra forfecétte; // e fischjettènno fa la pulizia: / tróppe ne lèa de rame e dde ramétte; / deve slargà’ perché, per quando scia, / più sderadisce e mmino ce remétte. // E quanno che lu capu adè bbenfattu, / tòcca a li pé na bbèlla repulita: / sfaciona li cutìji; e ppò’, più adattu, / pìja lu maleppègghjo e ttàja e sgogghja: // finènde a quanno la jornata è gghjita / e la vergara chjama da la lògghja” (Claudio Principi, lu potató, pp. 163- 165, op.cit. ). Traduzione: “Il potatore che va a potare l’ulivo, / sa che va a trattare piante benedette. / Appoggia la scala intorno  intorno e laddove arriva / adopera seghetto e forbicette (quelle con la molla a bovolo);  // e fischiettando fa la pulizia: / ne toglie abbastanza di rame e di rametti; / deve rendere ariosa la chioma, / più toglie e meno ci rimette. // E quando la chioma è ben fatta, / tocca una bella ripulita ai piedi (alle radici che sono fuori di terra) : / taglia via con la roncola i virgulti (che crescono sul tronco); e poi / prende uno strumento più adatto / il bicciacuto (scure a due tagli disposti ortogonalmente, taglia e slupa: // fin a che la giornata è andata (fino a che non si è fatta sera) / e la vergara chiama dalla loggia”. La loggia era un elemento caratteristico della casa colonica marchigiana. Era posta al primo piano, era un opportuno riparo dell’ingresso superiore, ma anche posto di vedetta per la sorveglianza del podere.

Lu pajarólu (Il pagliarolo)

I pagliai, conici e intatti o già sfaccettati da ogni lato dai tagli di prelevamento, erano una caratteristica del paesaggio agricolo marchigiano. Fossero stati grandi o piccoli, di paglia, di fieno o di mestica (mescolanza di paglia e fieno) circondavano a debita distanza per via dei possibili incendi, l’aia della casa colonica marchigiana. Particolarmente temuti erano i fulmini di tanto in tanto si abbattevano sui pagliai. Quella dei pagliaroli era una vera e propria arte. Il pagliarolo bravo era molto ricercato. “Quando l’opera era terminata, dopo l’ultima pettinatura del grande panciuto corpo del pagliaio e la collocazione dei fili di ferro, che partivano dalla cima dello stollo e i pesi alla loro estremità, c’era da restare ammirati per la perfezione e l’armonia delle forme di quell’ammasso a pera, con il troncone dello stollo sporgente in alto a modo di picciuolo” (Claudio Principi, lu pajarólo, pag. 213, op.cit.).

“Sarà, lu pajarólo, um bo’ canàja, / perché poco fatiga, e ppo’ a la stracca: / se tratta che mmondonà su lu pàja / turno a na stanga, e balla e sse nzollacca. // Però, se a spanne e a ccartecà se sbàja, / se ll’arte sua, dicimo, no’ la cciacca, / piògghja e vvéndu lu pajà sbaràja: / lu fràciata, lu sbraca, lu sbaracca! // Lu pajarolu, no, non suderà / ma deve fa’ ll’attèndu sua scibbène / e stacce co’ la testa , purassà! // Io dico che mmidiallu non convène / e lu lasso llà ssopre a sforconà’, / e spero lu pajà je venga a bbène” (Ibidem, pag. 214). Traduzione: “Sarà, il pagliarolo, un poco canaglia, / perché fatica poco e svogliatamente / si tratta che ammonticchia sul pagliaio / attorno ad uno stollo (palo di olmo, ontano o acacia), e balla e traballa. // Però, se si sbaglia a spargere la paglia e a comprimerla: / se, la propria arte, diciamo non la mastica / la pioggia e il vento distruggono il pagliaio: / la pioggia lo fa marcire, il vento lo sbraca, lo sbaracca via! // Il pagliarolo, no, non suderà / ma deve  fare bene il suo compito / e starci con la testa è noto! // io dico che non conviene invidiarlo / sta sempre a lavorare col forcone, sotto e sopra, / e spero che il pagliaio gli venga bene”.

Raimondo Giustozzi

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